Creato da Pitagora_Stonato il 12/07/2010

EREMO MISANTROPO

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Messaggi di Marzo 2017

Rosita... Rosita... ti insegno io a giocare a nascondino!

Post n°1400 pubblicato il 27 Marzo 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

 

 

 

 

vieni Rosita... vieni...

 

 

 

 

 

 

 
 
 

AMOR VINCIT OMNIA

Post n°1399 pubblicato il 15 Marzo 2017 da Pitagora_Stonato
 

 


CAPITOLO TRENTUNESIMO

AMOR VINCIT OMNIA

Nella chiesa di Svartsjö, sotto la scala della tribuna, vi è un ripostiglio ingombro di roba vecchia: vanghe per le fosse consunte, banchi di chiesa in pezzi, targhe di; metallo asportate, ed altre cianfrusaglie.

Là dentro, dove la polvere è così spessa che la nasconde allo sguardo insieme al resto, si trova anche una cassa intarsiata di un prezioso mosaico di madreperla. Se appena la si ripulisce un po', sembra brillare e scintilla come la parete di una montagna in una fiaba. La cassa è chiusa a chiave e la chiave è in mani sicure, perché nessuno deve servirsene. A nessun mortale è concesso gettare un'occhiata a. Soltanto quando il diciannovesimo secolo sarà alla fine, si potrà infilare la chiave nella serratura, alzare il coperchio della cassa e i tesori custoditi per tanti e tanti anni potranno essere guardati da occhi umani.

Così ha disposto quello che un tempo ne era il proprietario.

Sulla piastra d'ottone della serratura vi è un'iscrizione: Labor vincit omnia. Ma su quella piastrina sarebbe più adatta un'altra scritta: Amor vincit omnia, perché anche la vecchia cassa celata nel ripostiglio sotto la tribuna è una testimonianza della potenza dell'amore.

O Eros, onnipotente dio!

Tu, amore, sei veramente eterno. Vecchia è la razza umana su questa nostra terra, ma tu l'hai accompagnata attraverso tutti i tempi.

Dove sono gli dèi dell'oriente, i possenti eroi che avevano per armi i fulmini e, sulle rive di sacri fiumi, ricevevano offerte di latte e miele? Quegli eroi sono morti. Morto è Bel, il forte guerriero, morto è Thot, il gigante dalla testa d'avvoltoio. Morti sono i superbi dèi che riposavano sui cuscini di nubi dell'Olimpo, e morti sono pure gli eroi di tante gesta che dimoravano nel Valhalla tutto cinto di mura. Tutti gli dèi dei tempi antichi sono morti, tranne Eros, Eros l'onnipotente.

E opera sua tutto quanto vedi. E lui che tiene in vita la razza umana. Lo riconosci ovunque! Dove puoi andare, senza trovare Forma del suo piede nudo? Quale suono ti è mai giunto alle orecchie che non abbia come nota dominante il fruscio delle sue ali? Egli dimora nel cuore degli uomini come nella semente del grano assopita. Riconosci con tremore la sua presenza anche nelle cose morte.

Esiste qualcosa che non sia attratto, che non aneli a lui? Esiste qualcosa che possa sottrarsi al suo potere? Tutti gli dèi della vendetta, gli dèi della forza e della violenza crolleranno. Ma tu, amore, tu rimani eterno!

*

Il vecchio zio Eberhard sta seduto alla sua scrivania, uno splendido mobile con cento cassetti, il ripiano di marmo e grosse borchie d'ottone brunite dagli anni. Lavora con grande zelo e diligenza, solo, lassù nell'ala dei cavalieri.

O Eberhard, perché mai in questi ultimi giorni della fuggevole estate non corri anche tu come gli altri cavalieri per i boschi e per i campi? Eppure sai che a nessuno è dato adorare impunemente la dea della sapienza. Hai poco più di sessant'anni, ma la tua schiena s'è già fatta curva, i capelli che ti coprono il cranio non sono più i tuoi, rughe profonde solcano la tua fronte sopra gli occhi infossati, e la decadenza della vecchiaia si rivela in mille grinze attorno alla tua bocca senza denti.

O Eberhard, perché non vai a zonzo per i boschi e per i campi? La morte ti coglierà tanto più facilmente davanti al tuo scrittoio, proprio perché non hai ascoltato il richiamo della vita.

Lo zio Eberhard traccia un grosso tratto a inchiostro sotto la sua ultima riga. Poi estrae dagli innumerevoli cassetti della scrivania un fascio di carte ingiallite e ricoperte di una fitta scrittura: tutte le diverse parti della sua grande opera, un'opera che porterà attraverso i secoli il nome di Eberhard Berggren. Ma non appena ha disposto uno sull'altro quei fascicoli, fissandoli con muta ammirazione, ecco aprirsi la porta ed apparire sulla soglia la giovane contessa.

Eccola, la giovane signora di tutti quei vecchi uomini! La donna che servono e idolatrano più di quanto possa fare una nonna con il primo nipote. La donna che hanno trovato povera e malata e a cui han donato tutti i beni più preziosi della terra, esattamente come il re della fiaba alla povera e bella fanciulla incontrata nel bosco. E per lei che ora ad Ekeby suonano i corni e i violini. E per lei che tutto si muove, respira, lavora nella grande proprietà.

Adesso è guarita, sebbene ancora debole. La solitudine in quella grande casa le sembra molto lunga, e dato che sa che i cavalieri sono usciti, vuole vedere che aspetto abbia l'ala dei cavalieri, quel luogo famoso e tanto decantato.

Entra quindi pian piano, e lascia errare lo sguardo sulle pareti intonacate e sulle cortine a scacchi gialli che racchiudono i letti, ma quando si avvede che la stanza non è deserta, si ferma, tutta confusa.

Lo zio Eberbard le si fa incontro cerimonioso e la conduce davanti al mucchio di fogli coperti dalla sua scrittura.

"Vedete, contessa", dice, 1a mia opera è finita. Ora quello che ho scritto deve prendere le vie del mondo, e allora grandi cose avverranno."

"Che cosa avverrà, zio Eberhard?"

"Oh, contessa, scoppierà come un fulmine, un fulmine che illumina e uccide. Da quando Mosè lo tolse dalle nubi tempestose del Sinai, e lo pose sul seggio d'onore del grande tabernacolo, da allora là è rimasto sicuro e indisturbato, il vecchio Jahvè, ma adesso gli uomini devono vedere chi è: fantasia, vuoto, polvere, creatura nata morta dal nostro cervello. Ricadrà nel nulla", dice il vecchio posando la mano rugosa sul fascio di carte. "Sta scritto qui, e quando gli uomini leggeranno questi fogli, dovranno crederlo. Trasaliranno di paura e capiranno la propria stoltezza. Useranno le croci come legna da ardere, le chiese come granai, e i preti lavoreranno la terra."

"Oh, zio Eberhard", esclamò la contessa rabbrividendo un poco, "siete dunque un uomo tanto terribile? E in quei vostri fogli stanno davvero scritte cose tanto terribili?"

"Terribili?" ripeté ilvecchio. "Sono la verità. Ma noi siamo tutti come bambini che nascondono il viso nel grembo della madre, non appena incontrano uno sconosciuto. Ci siamo abituati a nasconderci davanti alla verità, davanti all'eterna sconosciuta. Ma ora essa verrà e dimorerà tra noi, ora tutti la conosceranno."

"Non soltanto i filosofi, contessa, ma tutti gli uomini,tutti."

"E Jahvè deve morire?"

"Luie tutti gli angeli, i santi,i diavoli e tutte le menzogne."

"E chi reggerà il mondo?"

"Credete proprio, contessa, che finora qualcuno l'abbia retto? Credete a quella provvidenza che protegge i passeri e conta i capelli sul nostro capo? No, nessuno ha mai retto il mondo, e nessuno lo reggerà."

"Ma noi, noi uomini, che ne sarà di noi?"

"Saremo quello che siamo sempre stati: polvere. Chi è stato bruciato e non può ardere più, è morto. Siamo fascine di legna, lambiti dalle fiamme della vita.

La scintilla della vita vola dall'uno all'altro, l'uomo si accende, divampa e si estingue. Questa è la vita."

"Oh, zio Eberhard, non vi è dunque una vita dello spirito?”

"No"

"E nemmeno una vita oltre la morte?"

"Nemmeno."

"Né il bene, né il male, né meta, né speranza?"

"Nulla."

La giovane donna si avvicina alla finestra. Guarda le fronde ingiallite dell'autunno, gli astri e i crisantemi dalle grosse teste redine in cima agli steli incrinati dal vento. Guarda le onde scure del Löven, il torvo cielo autunnale che minaccia tempesta, e per un istante si insinua in lei lo spirito della negazione.

"Zio Eberhard", dice, "come è grigio e brutto il mondo, come tutto è inutile! Voglio stendermi per tetra e morire!"

Ma subito una voce di protesta si leva veemente da ogni sua fibra. Le generose energie dell'èsistenza e l’onda tumultuosa dei sentimenti invocano, proclamano la gioia di vivere.

"Non vi è dunque nulla", esclama infine, "che possa dare bellezza all'esistenza, ora che mi avete tolto Dio e l'immortalità?"

"Il lavoro", risponde il vecchio.

Ma la giovane donna guarda di nuovo fuori e la invade un senso di sdegno per quella miserabile saggezza. L’insondabile si erge davanti a lei, e ad un tratto capisce che lo spirito alberga in ogni cosa, sente la forza che si cela anche nelle forme apparentemente morte, e che può rendersi manifesta in tanti modi. E la sua mente turbata cerca un nome per la presenza dello spirito divino nella natura.

"Oh, zio Eberhard", dice, "che cos'è il lavoro? È forse un dio? Ha uno scopo in se stesso? Trovategli un altro nome!"

"Non ne conosco altri", risponde il vecchio.

Ma ora quel nome lo ha trovato lei, il nome che cercava, un povero vecchio nome spesso contaminato.

"Zio Eberhard, perché non diri amore? "

Un leggero sorriso sfiora la bocca sdentata con il suo intrico di rughe.

"Qui", dice il filosofo, e colpisce col pugno il mucchio delle carte, "qui si uccidono tutti gli dèi, ed Eros non l'ho dimenticato. Che è mai l'amore, se non una brama della carne? Perché porlo più in alto di tutti gli altri bisogni del corpo? E allora facciamo un dio della  fame, facciamo un dio della stanchezza! Ne hanno uguale diritto. Ma occorre metter fine a simili sciocchezze! E viva la verità!"

La giovane contessa china il capo. No, non è così, quella non è la verità, ma non può controbattere.

"Le vostre parole mi hanno ferito l'anima", dice.

"Tuttavia, non vi credo. Gli dèi dell'odio e della vendetta potrete forse ucciderli, ma non altro."

Allora il vecchio le prende la mano, gliela posa sul libro e con il fanatismo dell'ateo le ripete:

"Quando avrete letto questo, dovrete credermi."

"Mi auguro allora che questi vostri fogli non capitino mai sotto i miei occhi", dice la contessa. "Perché se dovessi credere a ciò che vi sta scritto, non potrei più vivere."

E si allontana, in preda a un profondo turbamento,  mentre il filosofo, dopo che se n'è andata, rimane là seduto a meditare.

Il mondo non ha ancora potuto pronunciare il suo giudizio su quelle vecchie carte zeppe di frasi blasfeme. Il nome dello zio Eberhard non ha ancora raggiunto le vette della fama.

La sua grande opera è nascosta dentro una cassa gelosamente custodita nel ripostiglio sotto la scala della tribuna, nella chiesa di Svartsjö. E soltanto allo scadere del diciannovesimo secolo potrà vedere la luce del giorno.

Ma perché così ha disposto il filosofo? Temeva forse di non aver sufficientemente dimostrato la sua tesi? Aveva paura di persecuzioni? Come non conoscete lo zio Eberhard!

Non capite? Egli amava la verità, non la propria fama. E la sua fama, non la verità, ha sacrificato affinché una creatura da lui amata di affetto paterno potesse morire conservando la sua fede in ciò che aveva di più caro.

Oh, amore, tu sei davvero eterno!


da "La saga di Gösta Berling" Selma Lagerlöf- Iperborea

 

 
 
 

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