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Ordet

Post n°292 pubblicato il 02 Agosto 2010 da a17540
 

Un film di Carl Theodor Dreyer. 1954





Probabilmente la Mostra veneziana del '55 la si ricorderà come la Mostra di Ordet. Da più di dieci anni taceva il regista de La passione di Giovanna d'Arco, del Vampiro e di Dies Irae; e se ne è ora venuto al Lido, modesto, quasi schivo, a presentare il suo ultimo film, desunto da un dramma dello scrittore danese Kay Munk, trucidato dai nazisti nel 1944. Questa origine teatrale la si ritrova sullo schermo; e un poco pesa, impone ritmi e architetture, rinuncia a risorse svariate, rende talvolta quasi monocroma una tavolozza che potenzialmente sarebbe invece assai ricca. Ma è come una mortificazione voluta: da una austerità sempre e tutta meditata, nobile e severa, talvolta persino caparbia. E tale austerità finisce per dare al film un suo arduo e nobilissimo stile, che è tutt'uno con la protesta di Dreyer: voi che siete cristiani, voi che dite di credere, siete dei credenti che non credono.
In un villaggio danese vive il vecchio Morten Borgen. La sua fede è robusta e serena, allietata dalla nuora e dalle nipotine, anche se il maggiore dei suoi tre figli, Mikel, abbia perduto la fede degli avi e del padre, e il secondogenito, Johannes, sia un povero mentecatto, che si crede una reincarnazione di Cristo. L'antagonista del vecchio Morten, nel villaggio, è il sarto Peter: rigido, tetro, puritano; e quando il terzogenito del Morten vorrebbe sposare l'unica figlia di Peter, il dissidio fra le due famiglie si acuisce. Ma tutto ciò, con quanto ne deriva e se ne intreccia, appartiene all'ambiente, alla tessitura teatrale del Munk, a una episodica di uno spento colorito e non sempre necessaria, specialmente in alcuni sviluppi e variazioni. La figura predominante è la più difficile: quella del mentecatto Johannes. Erra di giorno e di notte per i campi, predica e minaccia, annuncia o ricorda il Verbo, la divina Parola; e prima che il vero dramma si accenda, e crepiti, questa figura di Johannes è fin troppo definita e denuncia le incrinature teatrali del testo originario; parecchie apparizioni, necessarie e inevitabili, non poco risentono di un «esce in fondo a destra» o di un «entra dalla comune». Il vero dramma si delineerà quando la cognata di Johannes, la dolce Inger, la sposa di Mikel, morirà di parto. Allora Johannes, lentamente, quasi insensibilmente, si trasformerà. Non sarà più il povero mentecatto innocuo, l'esaltato predicatore a vuoto: diventerà come la coscienza di tutti, si ergerà difensore della fede, della fede vera, che concede anche i miracoli. Nessuno, in quella casa, crede che, con l'intensa fervida preghiera, si possa ottenere il miracolo della resurrezione di Inger. Lo crede invece una sua figlioletta, è sicura che lo zio Johannes resusciterà la mamma; e quella fede candida, quasi infantile, concederà a Johannes il potere di compiere l'incredibile, di richiamare in vita la dolce Inger.
Tema altissimo, dalle difficoltà molteplici e sempre maggiori, dà al film il fascino di quelle opere nelle quali l'impegno dell'artista quasi diventa lotta, contro una materia che non vorrebbe lasciarsi dominare, non solo, ma che forse avrebbe voluto non essere nemmeno affrontata. I segni di questa lotta qua e là si sentono, non tutto è essenziale e convincente, e uno strano errore si fa sopratutto palese, ed è il tono con il quale è trattato il non breve e non indispensabile episodio del parto di Inger. Crudo e crudele, insistito, tecnico, arido: un tono che molto contrasta con quelli delle altre pagine del film, molte delle quali sono davvero stupende, e sempre sorrette dalla intelligentissima fotografia di Henning Bendtsen. Ma fra tutte le pagine difficili la più difficile ha dato la riuscita migliore: dalla morte alla resurrezione di Singer lo schermo rivela vibrazioni sempre più alte, veramente incarna un atto di fede. «Poiché Johannes crede di poter compiere il miracolo, il miracolo si compie» sono parole dello stesso Dreyer. E qui il vecchio maestro ha forse dato di sé la prova più profonda e complessa; questo episodio ineffabilmente scandito è degno di una rigorosa antologia che un giorno sarà tratta dall'opera del regista danese, uno dei pochissimi artisti che abbia finora avuto lo schermo.
(1955)
di Mario Gromo - Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957

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