Creato da Antalb il 28/07/2006
Confronto tra i giovani e la politica

TRIONFO E FESTA AL SENATO

 
 

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La Ue sbugiarda i catastrofisti: la fabbrica della paura

Post n°2609 pubblicato il 05 Aprile 2009 da Antalb
 

La fabbrica della paura funziona così. Joaquin Almunia, commissario europeo all’Economia, parla al German Marshall Fund e cerca di non drammatizzare. Sorride, non nasconde i rischi, ma dice che l’Europa ce la farà. «Possiamo aspettarci altre crisi, anche nella zona euro, ma siamo attrezzati per contrastarle». I piani di salvataggio sono pronti, anche per chi sta peggio, come Ungheria, Lettonia e Romania. Il tono di Almunia è niente panico. È chiaro, aggiunge, che ci sono Paesi che in passato non hanno fatto gli sforzi necessari, quelli con un grosso debito e pochi margini di manovra. È un discorso vecchio. Anche Tremonti vorrebbe abbassare le tasse, ma non può. L’Italia ha un passato di welfare sprecone e «capitalismo di Stato». Questa è la colpa dei padri che cade sulla testa dei figli. E la stanno pagando, da tempo. Cosa c’è di nuovo? Nulla. Le parole di Almunia finiscono nel tritacarne di quelli che sognano l’apocalisse economica. E vai con la paura: «L’Italia tra i Paesi a rischio». L’Italia come la Grecia. L’Italia in bilico. L’Italia che non ce la fa. L’Italia appestata, prossimo focolaio della crisi. L’Italia ventre molle, come quelli che stanno peggio.
Il giorno dopo tocca ad Amelia Torres, portavoce di Almunia, smentire, chiarire, svelare la fabbrica della paura. «Almunia non ha detto quello che leggo su Repubblica. Articoli tendenziosi e non molto responsabili. La situazione è abbastanza seria e i mercati sono così nervosi che non è proprio necessario rincarare la dose». Qualcosa, a quanto pare, si è perso nella traduzione. Il sospetto è che gran parte della stampa italiana abbia preso la crisi dal lato oscuro, nero. E gli stessi italiani si chiedono se questa lunga litania che dura da mesi, di titoli sempre più cupi, tragici, senza rimedio, sia la realtà o uno specchio deformato, che vede il futuro più nero della mezzanotte. Titoli così. «Allarme cassaintegrati: più 553%. Bankitalia vede nero» (Repubblica, 2 marzo). «Gli scenari neri dell’Fmi: declino giapponese» (Corriere della Sera, 16 marzo). «Fmi, il peggio deve ancora arrivare» (Repubblica, 20 marzo). «Si salvi chi può» con la foto di un salvagente (L’Unità, 30 novembre). È una colonna sonora da tutti a casa, da 8 settembre, da fallimento, da Titanic che affonda. E poi, all’interno, pezzi di costume sull’amore al tempo della crisi, sulla riscoperta del vintage, vestiti usati e mercatini, diete da grande depressione e parcheggi vuoti, perché con la crisi nessuno più va al lavoro con la macchina. Non ci sono più soldi per pagare le multe?
Questo è l’orizzonte. Chi ci salverà dalla peste economica? Nessuna via d’uscita. Il mondo può anche resistere, ma l’Italia è condannata perché segnata da un peccato originale, metafisico. L’Italia di Berlusconi non merita alcuna speranza. È come se questa crisi fosse una maledizione (o benedizione) del cielo che viene a colpire un governo sconsacrato. Muoia Berlusconi con tutti i filistei. Non importa se questi, i filistei, hanno famiglia, figli, una vita da mandare avanti. E intanto la paura corrode la fiducia, chiude i mercati, i negozi, le aziende e i posti di lavoro. Tutta la fiducia, la speranza, è altrove, viaggia oltre l’Atlantico e illumina un solo uomo: Barack Obama. Un sospetto. Non è che i fabbricanti della paura vogliono farci emigrare?

 
 
 

C'era una volta una fiamma

Post n°2608 pubblicato il 05 Aprile 2009 da Antalb
 

Che cos’è rimasto del vecchio Movimento Sociale? Delle sue idee sulla politica, sullo Stato e anche - diciamolo con franchezza - sulla democrazia? Praticamente più nulla. Molto probabilmente fra gli elettori, soprattutto fra coloro che a causa di quelle idee ormai archiviate hanno trascorso una giovinezza da emarginati, in questi giorni c’è chi mastica amaro. Per alcuni, più che un archiviare è stato un rinnegare. È vero che al congresso di scioglimento sono stati pochissimi i nostalgici, scarse e flebili le voci dei contrari al Pdl. Però non è azzardato pensare che nella base un diffuso sentimento di delusione ci sia.
D’altra parte, anche chi non è mai stato missino non può non interrogarsi su come sia stata possibile una trasformazione tanto radicale. Il Msi nacque per dare continuità, dopo la sconfitta, all’idea del fascismo; era composto in gran parte da quella «generazione che non si è arresa» che aveva combattuto a Salò; la stessa fiamma del simbolo poggiava su una base che stava a rappresentare la bara di Mussolini. Com’è possibile passare da una simile identità a un partito che aspira all’imprimatur del Ppe? Dove ci sono i democristiani, gente «dagli occhiali e dal collo storto» come diceva Almirante?
Più che una svolta è una rivoluzione copernicana, tale da sembrare quasi incredibile.
Eppure, pare anche qui di scorgere una lezione della storia. Tutte e due le grandi religioni laiche della Modernità - la Destra e la Sinistra, categorie inesistenti prima della Rivoluzione francese - hanno dovuto abbandonare le loro forme più estreme, il fascismo e il comunismo, i cui eredi sono stati costretti a smantellare le proprie strutture ideologiche, rinnovare le proprie biblioteche, aggiornare i propri Pantheon. Ma quel che è successo in questi giorni con lo scioglimento di An sembra dimostrare che l’operazione di cambiamento sia stata più facile per la Destra che per la Sinistra.
Probabilmente è perché c’era una differenza ontologica persino tra le dittature di destra e quelle di sinistra. Le prime (eccetto il nazionalsocialismo, che è un caso particolare) erano autoritarie, le seconde totalitarie. Le prime erano spesso concepite come «dittature a tempo determinato»: è il caso della Spagna di Franco, ma anche di tanti regimi sudamericani. Perfino il fascismo italiano - benché Mussolini lo prevedesse millenario - era nato come una risposta «pragmatica» a un periodo di turbolenze: la sconfitta mutilata, il biennio rosso, un ordine da contrapporre alla debolezza dello Stato liberale. Solo dopo essere arrivato al potere il fascismo cercò di darsi, con Gentile, un collante ideologico.
Il comunismo, al contrario, partiva con una visione già perfettamente delineata, molto più precisa, molto più rigida. Il suo era un progetto definitivo sull’uomo e sul mondo. Per questo, quando hanno dovuto ammainare la bandiera, gli ex comunisti hanno faticato e ancora oggi faticano a cambiare pelle. È vero che anche la Sinistra - dopo la caduta del Muro di Berlino - è andata al governo in Italia. Però è vero pure che quei governi sono caduti proprio per l’incompatibilità tra i centristi e coloro che, invece, venivano dall’eredità comunista.
Oggi invece assistiamo a un fatto che mai, trenta o anche venti anni fa, avremmo immaginato: vediamo seduti su poltrone da ministro uomini che pensavamo irrimediabilmente condannati a un’eterna marginalità. Chi l’avrebbe mai detto? Coloro che parevano aver di fronte il sole dell’avvenire e le «magnifiche sorti e progressive» oggi non solo sono esclusi dal parlamento, ma stentano a ritrovare una propria identità. Al contrario, chi pareva destinato a restare «nelle fogne» ha cambiato quasi tutto di sé ed è al governo.
Degli eredi delle grandi dittature del Novecento, la Destra si è rivelata dunque più duttile. Non sto dicendo che per questo sia migliore: nella vicenda Msi-An, qualcuno può vedere anche il vecchio vizio del trasformismo. Sto dicendo solo che c’era, già in partenza, una maggiore possibilità di cambiare. Paradossalmente, proprio il difetto che la Sinistra le rimproverava - una base culturale debole - si è rivelato per la Destra un’arma vincente. Non avendo alle spalle un’ideologia filosofica come il marxismo, ha potuto liberarsi più facilmente del proprio passato.
A lungo andare, questa «debolezza» che si è rivelata «una forza» potrebbe però tornare a essere una debolezza. Perché il pragmatismo non basta, e senza un progetto sulla società si rischia solo di essere alleati di un cartello elettorale. E i cartelli elettorali hanno vita breve.

 
 
 

De Benedetti: caro Ingegnere, lei sì che è esperto di catastrofi

Post n°2607 pubblicato il 05 Aprile 2009 da Antalb
 

Editoriale di Mario Giordano su il Giornale di domenica 22 marzo.

Caro Ingegnere, per cortesia si contenga. Ho letto sui giornali che va in giro per l’Italia a dire che siamo così disperati che la gente, per la fame, ruba nei supermercati. Ho letto che descrive un Paese allo stremo delle forze, con le formaggette che spariscono dal reparto alimentari, pane e latte che vanno a ruba, causa epidemia di disperazione cleptomane. Ho letto pure che fa una previsione: dopo le sottilette Kraft e il mezzo litro di pastorizzato cominceranno a scippare le borsette (e poi magari andranno a svuotare i caveau delle banche).

Ho letto che annuncia 3milioni di precari e parla di città sull’orlo del collasso, roba che al confronto il ’29 era la festa della cuccagna. Ho letto tutto ciò e non mi sono sorpreso più di tanto: in fondo è il quadro che i suoi giornali, Repubblica in testa, descrivono ogni giorno. Allarmismo e catastrofismo, unalitania di titoli angoscianti, paurasupaura, terrore e baratro, spavento, tragedia e crollo: le pagine più divertenti sono quelle dei necrologi. Nemmeno con il meteo c’è mai un momento di gioia: se vengono giù due gocce, c’è il rischio inondazione; se fa due giorni di sole, arriva l’incubo siccità. Se il tempo è variabile, comunque, è colpa del surriscaldamento del pianeta che ci ammazzerà tutti.

Era un po’ di tempo che mi chiedevo se ci fosse qualcosa di più catastrofista di quel giornale. Adesso l’ho trovato: il suo editore. Però ecco, mi scusi Ingegnere, se mi permetto di rivolgermi direttamente a lei, ma c’è un dubbio che mi insegue. Volevo sapere se il Carlo De Benedetti che si preoccupa molto per l’aumento dei disoccupati in questo Paese è lo stesso che ha appena messo sulla strada 29 dipendenti su 37dellasua tv All Music. Volevo sapere se quello che si preoccupa dell’aumento dei precari è lo stesso che sta facendo aumentare il precariato. E volevo sapere se, prima di dare consigli su come aiutare i lavoratori di tutto il Paese, per caso, lei fosse riuscito ad aiutare i lavoratori della sua azienda. O, se non altro, a dare loro retta. Lo chiedono da tempo, ma non mi pare lei abbia risposto.

Ha visto che cosa le hanno scritto nei giorni scorsi? Citavano Vasco Rossi: «C’è qualcuno che non ha rispetto per nessuno». Quel qualcuno è lei, evidentemente. Si dia da fare. Non vorrà mica che i primi a dar l’assalto al reparto formaggi del supermercato siano proprio i suoi dipendenti? Le devo fare una confidenza, caro Ingegnere. In questi giorni, in redazione, si parlava spesso degli imprenditori illuminati della sinistra che di fronte alla crisi si comportano come i più feroci padroni delle ferriere. È successo alla Merloni, deputata del Pd, che sta chiudendo lo stabilimento di None ed è contestata dal suo stesso partito. Succede a lei.

Si rifletteva del fatto che molto spesso voi principi del politicamente corretto parlate assai bene e razzolate male. Ma non me la sentivo di infierire. «La crisi c’è, è dura per tutti. In questo momento bisogna usare moderazione e buonsenso», pensavo. Moderazione e buonsenso, non crede Ingegnere? Quando ho letto le sue dichiarazioni sui furti nei supermercati non mi sono più tenuto: descrivere un Paese pronto all’assalto ai forni le sembra una prova di moderazione? Le sembra buon senso? Immaginare folle di affamati che fanno razzie di groviera le pare realistico? E ragionevole?

Mi scusi se le do un consiglio, caro Ingegnere: si contenga. Si trattenga. Delle sue lezioni sull’occupazione, per altro, credo che possiamo fare tranquillamente a meno. Ci basta quello che ci ha dimostrato nei fatti. Con l’Olivetti, per esempio. Ricorda? In dieci anni, fra il 1985 e il1996, riuscì a bruciare 15mila miliardi di lire. Decine di migliaia di persone persero il lavoro, tante professionalità furono mandate al macero. Una storia industriale gloriosa venne distrutta. Quando lasciò la fabbrica sull’orlo del baratro gli operai le dedicarono una pièce teatrale. Titolo: l’Ingegnere De Maledetti.

Io non riesco a togliermela dalla testa. Tutte le volte che la sento fornire al mondo le sue nobili ricette su come risolvere i problemi del lavoro nei cinque continenti, io rimango estasiato. Epperò poi penso all’Ingegner De Maledetti e mi domando: con tutto il rispetto per i cinque continenti, non era meglio se quelle ricette così nobili cominciava ad applicarle a Ivrea? Lo so che lei è fatto così. Le piace essere l’imprenditore dal volto buono. La tessera numero uno del Pd, quello che discetta di etica, servizio al Paese e rinnovamento della politica. E non prova vergogna mai. Dà lezioni di moralità, dimenticando i computer sbolognati alle Poste. Dà lezioni di italianità, dimenticando di aver ceduto i telefonini Omnitel ai tedeschi. Parla di concertazione, ma con i suoi dipendenti usa il machete. Da Olivetti a All Music, passando per tante altre esperienze.

Per dire: nel 2006 assunse il controllo della celebre Domopack. Ricorda? Una belle impresa, tanti progetti, pagine sui giornali. Ebbene nel febbraio2007 gli operai della Domopack erano già in strada per protestare contro i tagli all’occupazione. L’Ingegner De Maledetti aveva colpito ancora. Adesso, con lo spirito del tenente Colombo, si mette a indagare sui furti al supermercato. E imputa i furti al supermercato alla crisi economica. Costruendo, sulla base delle sue osservazioni e (forse) del manuale del piccolo detective, preoccupanti carriere criminali che partono dalla cassa integrazione e possono finire anche a Al Capone, passando per scippi, e poi magari rapine, sequestri lampo, Arsenio Lupin, Ali Babà e i quaranta ladroni.

Sia buono, caro Ingegnere, ci rifletta su. Secondo me lei e il suo club del catastrofismo state esagerando. Così rischiate di cadere nel ridicolo. Ci pensi. E se poi è proprio convinto che l’aumento dei licenziamenti faccia crescere proporzionalmente i furti, almeno eviti di licenziare i suoi 29 dipendenti (su 37) di All Music. Non so se i supermercati ne trarranno giovamento. La sua faccia di sicuro sì.

 
 
 

Nel futuro con allegria

Post n°2606 pubblicato il 01 Aprile 2009 da Antalb
 

Nessuno farà cambiare idea a chi è convinto a priori che - nel passaggio dall’Msi a An al Pdl - ci siano soltanto opportunismo, calcolo, interessi meschini. È vero, nel grande cambiamento ci saranno anche gli opportunisti, i calcolatori, i meschini che mascherano la libidine di potere (e il pelo sullo stomaco) con gli ideali politici. Tuttavia una trasformazione del genere non può avvenire senza il consenso della base, ovvero dei molti elettori del Movimento Sociale prima, di Alleanza nazionale dopo: un cambiamento oggi possibile perché è cambiata la destra rappresentata da quei due partiti ormai storici.

È stato un cammino lunghissimo - sessant’anni e passa sono un’eternità nella storia di un gruppo politico – per una trasformazione radicale, enorme. Basti pensare che il Movimento Sociale, alla sua nascita e per decenni, era composto per la maggior parte da uomini che rimpiangevano il regime fascista, Mussolini, la Repubblica di Salò, il saluto romano e la camicia nera. I missini cambiarono per motivi generazionali, prima di tutto, poi perché in molti si resero conto di quanto fosse assurdo – irreale – credere di poter guidare una società nuova con strumenti ormai antichi e già falliti. Non a caso la svolta fu decisa internamente, con il congresso di Fiuggi e la nascita di Alleanza nazionale. La maggiore concessione al passato fu il permanere di quella fiamma tricolore che, per molti, simboleggiava lo spirito di Mussolini risorgente da un’urna. Da allora, però, lo spirito nostalgico di quella fiamma si è allontanato da An con le numerose scissioni che hanno formato gruppi e gruppetti alla sua destra. La grande maggioranza dei dirigenti di An, e della base, non si è mai più voltata indietro, sia pure con contrasti naturali fra conservatori e innovatori. Merito di Gianfranco Fini, ovvio, ma bisogna ricordare la spinta dello scomparso Pinuccio Tatarella; e che lo «sdoganamento» voluto da Berlusconi fu determinante.

Il ricordo più forte di chi è stato a Fiuggi è la commozione, il turbamento, i pianti della maggior parte dei presenti. Razionalmente convinti della necessità di ciò che stava avvenendo, era diffuso lo stato d’animo di chi assiste a una morte, più che a una nuova nascita. Si lasciavano alle spalle le sicurezze, la tradizione, il noto, per avventurarsi verso lidi sconosciuti e incerti, dal futuro enigmatico. Non è accaduto niente di simile a Roma, quando il simbolo di An si è oscurato per lasciare spazio soltanto a quello del Popolo della Libertà. Sono prevalse la gioia e l’allegria, e sarebbe troppo semplice spiegarlo con la minore affezione a Alleanza nazionale, per motivi temporali e ideali. È che il destino non appare più incerto, stavolta si sa dove si va.

Di nuovo: ci sarà chi ha pensato soltanto, stropicciandosi le mani, che sta andando ancora più vicino al Potere, ormai consolidato e probabilmente duraturo. Ci saranno anche gli onesti cinici, convinti che il Potere serve a realizzare le proprie idee, e che quindi i fini (minuscolo) giustificano i mezzi. Però, di nuovo, credo che la maggioranza degli aennini sia semplicemente convinta della bontà dell’ulteriore passaggio. Forse la migliore sintesi di questo atteggiamento l’ha data Maurizio Gasparri: «Un appuntamento con la storia. Nasce il grande partito degli italiani. Che si fa carico della cultura e dell’identità dell’Italia e del suo futuro. Essere stato fra i primi a crederci è motivo d’orgoglio».

Chiunque potrà obiettare che tutti i partiti italiani sono partiti degli italiani, e sarà un gioco facile. Epperò sarà difficile negare che, fondendosi con un partito nato come Forza Italia, Alleanza nazionale porterà nel Popolo della Libertà una maggiore dose di passione non più nazionalista, bensì sanamente nazionale. È un buon risultato, per un Paese minacciato, come tutti, dalla standardizzazione, dall’europeizzazione, dalla globalizzazione. Minacciato, anche, da localismi, campanilismi, regionalismi che niente hanno a che fare con un federalismo sensato.

Basta che il nuovo partito sia sempre presente al suo nome: Popolo della Libertà.

 
 
 

L'ergastolo al "mostro": giustizia lampo, una lezione dall'Austria

Post n°2605 pubblicato il 01 Aprile 2009 da Antalb

Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se Josef Fritzl, il «mostro» di Amstetten, si fosse chiamato Giuseppe Frizzi e se i suoi orrori, anziché in Austria, li avesse consumati in Italia. Dopo l’iniziale e unanime indignazione, l’inchiesta si sarebbe rapidamente trasferita dalle aule di giustizia agli studi tv dei più seguiti talk show. Qui, in nome della par condicio, accanto ai colpevolisti avrebbero trovato posto anche gli innocentisti: e siccome in un caso del genere cercare di dimostrare l’innocenza dell’imputato sarebbe stato arduo perfino in Italia, l’innocentista sarebbe stato sostituito da un paio di figure comunque molto diffuse tra noi.

La prima è quella del complottista, il quale avrebbe sostenuto che, indizi alla mano, la vicenda non era poi così chiara: siamo sicuri che Fritzl-Frizzi abbia agito da solo? E i vicini, possibile che non si siano accorti di niente? Insomma, che cosa c’è «dietro»? Alla fine sarebbe spuntata l’ombra dei servizi segreti. Seconda figura schierata in opposizione ai colpevolisti sarebbe stata quella del garantista: occhio, avrebbe detto, ad assecondare la sete di giustizia sommaria che viene dal popolo; niente foto del presunto mostro sui giornali; e poi la ragazza era maggiorenne e, Codice alla mano, potrebbe essere considerata consenziente.

In soccorso dei garantisti sarebbero presto intervenuti «Nessuno tocchi Caino» e forse qualche ultrà pro life che avrebbe sostenuto che, in fondo, il «mostro» aveva messo al mondo dei figli. Non sarebbe mancato neppure qualche psichiatra con ciuffo ribelle e maglione per cercare di «capire le ragioni» di Fritzl-Frizzi: «Se qualcuno gli avesse chiesto qualche volta “come stai?” non sarebbe diventato così.

È una vittima della nostra indifferenza, non abbiamo saputo ascoltarlo». Parallelamente, la macchina della giustizia si sarebbe arenata tra perizie e contro-perizie, pm e gup, tribunali del riesame e incidenti probatori. Quando finalmente, dopo alcuni anni, si sarebbe aperto il processo, alla prima udienza i difensori lo avrebbero bloccato con le cosiddette «eccezioni procedurali», che non si capisce perché si chiamino eccezioni visto che sono diventate una regola. Morale: tra una balla e l’altra, la sentenza definitiva sarebbe arrivata dopo una decina di anni, con il «mostro» presumibilmente già al cimitero.

Quattro giorni: tanto è durato invece il processo nel piccolo tribunale austriaco di St. Pölten, che ha condannato Fritzl all’ergastolo. Siccome tutto il mondo è Paese, e ciascuno critica i suoi, ieri il premio Nobel Elfriede Jelinek, austriaca, ha detto che da loro si «vuol tenere tutto nascosto», e forse tanta rapidità è anche un modo per spegnere i riflettori su tanto orrore. A noi però resta l’impressione di una lezione di efficienza e civiltà.

 
 
 

Indulgenti a senso unico: il "poverinismo" che beffa gli onesti

Post n°2604 pubblicato il 27 Marzo 2009 da Antalb
 

Niente regole, siamo italiani. A un governo che si provi a introdurne, ad attrezzarci finalmente contro i pericoli di qualsiasi emergenza sociale, dalla sicurezza nazionale alla lotta al randagismo, rispondiamo tirando fuori i sentimenti più deteriori di compassione, solidarietà, rinuncia. Almeno questo fanno i membri più esposti e appariscenti, che siano giornalisti lanciati in ruoli pedagogici non richiesti, che siano politici dimentichi del mandato ricevuto; gli altri, maggioranza onesta turbata, non sanno a che santo votarsi per sperare in una vita tranquilla.
In due episodi recenti emblematici dell’emergenza nazionale le polemiche ruotano tutte nella direzione infelice che si potrebbe definire come sindrome del «poverinismo», ovvero poverino lui, poverina lei, ma mai una volta poveri noi che ci siamo capitati e siamo vivi per caso.
Stupratori e maniaci sono un problema serio e grave, ma guai a proporre la castrazione, chimica e reversibile, intendiamoci, come possibile strumento di difesa, peraltro a volte richiesto anche dai condannati che si sentono impotenti a cambiare comportamento. Immediatamente vengono giù tutte le sacre geremiadi sull’inciviltà e la disumanità, e mentre si difendono i criminali, le vittime scivolano nell’ombra, come se di qualcosa fossero colpevoli.
Ai medici che si trovino nelle condizioni di assistere e curare degli stranieri clandestini e dunque illegali nel nostro Paese, si chiede di segnalarne la presenza. Il giuramento di Ippocrate non impedisce di denunciare la presenza di un ferito da un colpo d’arma da fuoco, di un bambino con ferite sospette, di una donna picchiata, anzi questo dovere fa parte del giuramento. Si può legittimamente esigere dal governo rigore nei confronti di chi consente gli sbarchi dei clandestini, un esempio per tutti la Libia di Gheddafi, ma non ha senso gridare alla barbarie se lo stesso governo impone regole e controlli contro l’impunità di chi circola clandestino in Italia. A forza di gridare al razzismo per impedire che i cittadini vengano garantiti, finirà che il razzismo lo provocheranno sul serio. Non facciamoci intimidire.

 
 
 

Non sprecate l'Expo di Milano

Post n°2603 pubblicato il 27 Marzo 2009 da Antalb
 

Squilli di tromba e stentorei urrah! della dirigenza politica e imprenditoriale accompagnarono, un anno fa, l’annuncio che Milano avrebbe avuto l’Expo del 2015. Tanti cuori lombardi furono colmi di gioia per il riconoscimento finalmente toccato, dopo lunga e dolorosa sudditanza a Roma ladrona, alla capitale morale. Una grande occasione. Che pareva fatta apposta per dare sfogo alle migliori qualità d’una metropoli moderna, e di quel Nord che se ne sente rappresentato. Era diffusa la convinzione che gli specialisti del «fare», gli imbattibili nell’opporre le loro doti di concretezza e di capacità realizzativa ai vaniloqui degli azzeccagarbugli politici, avrebbero mostrato il meglio di sé in questa sfida epocale.
Milano in lotta per riaffermare il suo primato italiano. Milano in lotta per smentire le diffidenze straniere nei confronti dell’Italia. Tutto era possibile, ma non che fuori d’Italia ci si rammaricasse per non avere scelto Smirne. Sotto la Madonnina - lo dicevano, potremmo giurarci, anche a Smirne - si rimboccheranno le maniche, e avvieranno l’Expo senza perdere nemmeno un giorno. Il pronostico sembrava fondato. L’oroscopo era non favorevole ma favorevolissimo. Milano poteva contare, nel suo sforzo, su fattori positivi molto importanti. A Palazzo Chigi siede un milanese che oltretutto è uomo d’impresa e uomo di decisioni. A Palazzo Marino siede Letizia Moratti della quale tutto si potrà dire, ma non che le manchino la grinta e l’esperienza aziendale. Per farla breve: di meglio non si poteva sperare.
Infatti. Un anno dopo i clangori degli ottoni sono spenti, l’enfasi dei discorsi ammosciata, le bandiere ammainate. L’Expo del fare somiglia piuttosto all’Expo del sostare nell’attesa che siano risolti innumerevoli problemi. Ci sono difficoltà finanziarie - grasso che cola non se ne vede da nessuna parte - ma quelle si trova sempre il modo di risolverle, di fronte alle emergenze. O meglio, il modo lo si trova se gli uomini, e le donne, e le strutture implicati nell’operazione collaborano, e raggiungono un accordo. In caso contrario è un giuoco da bambini, per chi abbia obbiezioni, fermare un ingranaggio che in buona sostanza non si è ancora messo in moto.
Le chiacchiere di corridoio e d’anticamera - ma anche qualche più esplicita presa di posizione alla luce del sole - consentono anche a chi non sia molto addentro nei misteri municipali di percepire qualche aspetto del contenzioso. Il dualismo tra Milano e Roma può riprospettarsi, quando si tratta di poltrone e di stanziamenti, anche se al sindaco Moratti si contrappongono il milanese Berlusconi e il valtellinese Tremonti. Può darsi che qualche rapporto spigoloso - né la Moratti né Tremonti sono mansueti agnellini - contribuisca a generare ostacoli. Può darsi tutto, tranne una sola cosa. Che Milano butti via per beghe dirigenziali o frizioni caratteriali o pigrizie o scetticismi o egoismi una chance che nessuno sa quando e come potrebbe ripresentarsi (forse mai, se adesso ci fosse un naufragio). L’Expo s’ha da fare, e bene. Via i don Rodrigo che complottano per impedirla, via i don Abbondio che non prendono partito. Dopodiché sarà la perfetta Letizia.

 
 
 

Polemiche in Vaticano: se si trasforma la Chiesa in un talk-show

Post n°2602 pubblicato il 25 Marzo 2009 da Antalb
 

Molti dei commenti e delle reazioni alla lettera sofferta che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi di tutto il mondo per spiegare il vero significato della revoca della scomunica ai lefebvriani e spegnere le polemiche suscitate dall’intervista negazionista di monsignor Williamson, hanno indugiato sulla solitudine del Papa, sui problemi del governo curiale, sull’opposizione da parte degli episcopati progressisti e sulle rigidezze dei tradizionalisti, sugli errori di comunicazione. E si sono concentrati infine sulle fughe di notizie «miserande», secondo la definizione del direttore de L’Osservatore Romano, che con un suo editoriale ha attirato l’attenzione mediatica proprio su questo argomento.
Eppure il cuore dell’inconsueto messaggio papale – una lettera coraggiosa e umile allo stesso tempo, con la quale Benedetto ha preso su di sé le responsabilità della macchina curiale – ha rischiato e rischia di rimanere ancora sotto traccia. È vero: Ratzinger non nasconde, nelle sette pagine inviate ai «confratelli nel ministero episcopale», di essere stato profondamente colpito non dalle polemiche esterne, dalle strumentalizzazioni mediatiche del suo gesto di misericordia e riconciliazione nei confronti dei lefebvriani, quanto piuttosto dall’asprezza e dall’ostilità delle reazioni in campo cattolico, nella Chiesa. Vescovi e cardinali lo hanno attaccato, hanno ritenuto che il Pontefice volesse fare un’inversione di marcia rispetto al Concilio Vaticano II. Una «valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento». Con il suo gesto solitario e sofferto, il Papa ha voluto, ancora una volta, richiamare tutti alla necessità di uno sguardo diverso, lo sguardo della fede: «Sempre e di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore». Non per appiattire il dibattito e il confronto interno alla Chiesa, non per fare tabula rasa delle differenze e delle diversità, che da sempre hanno caratterizzato la «catholica», che si chiama così proprio perché include e non esclude, e al cui interno la stessa fede può essere vissuta secondo esperienze, modalità e sensibilità diversissime tra di loro.
No, l’amarezza del Papa non è stata determinata dal fatto che siano stati espressi giudizi diversi sulla revoca della scomunica. La sofferenza che traspare dalle pagine della lettera è legata al fatto che in quei giudizi, in quelle critiche che gli hanno fatto ricordare la frase paolina sui cristiani che si mordono e divorano a vicenda, non c’era carità. Prevalevano le logiche delle fazioni contrapposte, che finiscono per trasformare anche la Chiesa in un talk show o in un congresso di partito, con tanto di correnti contrapposte e cordate che mirano soltanto alla gestione del potere.
Questo Papa anziano, che all’inizio del suo pontificato disse che il suo compito «è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo», chiede ancora una volta alla Chiesa e a tutti i suoi membri, come pure alla sua Curia, un cambiamento di sguardo e di mentalità. Quello sguardo che si può cogliere nel commento pubblicato su L’Osservatore Romano dal vescovo Rino Fisichella, dedicato al caso della bambina brasiliana stuprata dal patrigno, rimasta incinta di due gemelli e fatta abortire. Una storia tragica, che ha visto il vescovo di Recife salire alla ribalta delle cronache internazionali per aver immediatamente annunciato che i medici che hanno praticato l’aborto sono incorsi nella scomunica. «Prima di pensare alla scomunica – scrive Fisichella – era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri».
Ecco, questo stesso sguardo di misericordia è quello che Benedetto XVI testimonia alla Chiesa. Pensare che il cuore del problema siano solo le poltrone della Segreteria di Stato – dove pure esistono innegabili disfunzioni - o lo studio di più efficaci strategie comunicative, o ancora le divisioni secondo logiche politiche tra conservatori e progressisti, significa, una volta di più, ridurre la profondità dell’insegnamento papale a logiche di potere mondano. Il Papa non ha bisogno di interpreti autorizzati: comunica benissimo e dà il meglio di sé anche quando parla a braccio. In un momento della storia in cui Dio «sparisce dall’orizzonte degli uomini» c’è bisogno di riscoprire che alla Chiesa non si possono applicare le logiche aziendali, né può rimanere ripiegata su se stessa, concentrata sui suoi organigrammi. La Chiesa vive spalancata verso il mondo. Proprio per questo il vescovo di Roma ha visitato l’Africa, il continente dimenticato.

 
 
 

La filastrocca dell'elemosina

Post n°2601 pubblicato il 25 Marzo 2009 da Antalb
 

Attenti, è scoppiata la guerra dell’elemosina. Ci avete fatto caso? «Elemosina» è diventata la nuova parola chiave, il marchio d’infamia, il liquidatore rapido di ogni proposta. Il governo non ha fatto in tempo a presentare il piano di aiuti per chi perde il lavoro e già era arrivata la bolla epifanica della Cgil: «È un’elemosina». Sono stati velocissimi, davvero: roba che al confronto Speedy Gonzales è un tricheco. Probabilmente non avevano nemmeno letto fino in fondo il provvedimento, ma che importa? «Un’elemosina», e via. Il certificato di fetenzia, ormai, non si nega più a nessuno.
La social card? Un’elemosina di Stato. Il bonus per le famiglie? Un’elemosina di Stato. Il prestito per bebé? Un’elemosina di Stato. L’intervento sui mutui? Un’elemosina di Stato. E quello sulle bollette? Pure. Il contratto con gli statali? Va da sé: un’elemosina di Stato. L’elemosina è più trasversale di Mastella, più presenzialista di Crepet e salta fuori ormai con una frequenza da far invidia a Pippo Baudo in tv. Ne parlano tutti, dai radicali ai vecchi democristiani, da Berlusconi a Ferrero. C’è qualcosa che non ti va? È un’elemosina. C’è qualcosa che non ti piace? È elemosina. Ancora un po’ e, vedrete, i politici useranno la filastrocca anche per scaricare le amanti sgradite: «Ti lascio, sei solo un’elemosina...».
Vi dico la verità: non ho mai amato molto l’elemosina, ma a questo punto comincia a diventarmi persino simpatica. Ne parlano tutti così male che mi viene da pensare, non foss’altro per spirito di contraddizione, che bisognerebbe cominciare a dirne bene. Elogio dell’elemosina: perché no? In fondo dietro a tante prese di posizione contro gli aiuti, si possono leggere segni evidenti dello snobismo radical chic di chi i poveri li ha visti, al massimo, dalle finestre del salotto di casa Angiolillo.
A conti fatti non so se gli aiuti decisi per chi ha perso il lavoro siano un’elemosina. Così come non so se la social card e il bonus famiglie siano elemosine. Quello che so è che, un’elemosina dopo l'altra, mai erano stati fatti tanti interventi a sostegno delle famiglie e di chi è in difficoltà. Quello che so è che, per quanto i soldi siano pochi, è sempre meglio un governo che li mette in tasca di uno che li toglie, come erano soliti fare l’aspiratutto Visco e il suo sodale, Padoa-Schioppa, l’uomo per cui le tasse erano bellissime. E quello che so, infine, è che prima di parlare di vergogna dell’elemosina, bisognerebbe almeno aver imparato cos’è l’elemosina. E, soprattutto, cos’è la vergogna.
Mi spiego. Uno dei più scatenati nella guerra dell’elemosina è il nuovo segretario del Pd, il leggenDario Franceschini. Boccia ogni iniziativa del governo con toni da Savonarola all’emiliana con contorno di salama da sugo. E lui che cosa propone in cambio? La Franceschini Tax, l’una tantum sui redditi oltre 120mila euro da ridistribuire agli italiani che hanno redditi inferiori ai 6mila euro. Perfetto. Ma basta fare due calcoli per scoprire la vera faccia dell’elemosina (e della vergogna). A pagare la Franceschini Tax, infatti, sarebbero circa 176mila contribuenti (lo 0,43 per cento del totale) per un gettito complessivo di 500 milioni di euro. A incassare il bonus sarebbero invece 9 milioni e 300mila italiani (il 23 per cento del totale). Ma sapete quanto incasserebbe ognuno di loro? 53 euro l’anno. Cioè 4 euro e 40 centesimi al mese. Un caffè al bar a settimana.
Per cortesia, rileggetevi bene le cifre. Ne vale la pena. 4 euro e 40 centesimi. Questo sarebbe il contributo dell’una tantum sui redditi alti, questo sarebbe l’aiuto che Franceschini darebbe a chi ha bisogno. E poi parlano di elemosina? Ma con che coraggio? La tanto vituperata social card, per dire, viene «caricata» con 40 euro al mese, per un totale di 480 euro l’anno. Dieci volte di più di quello che darebbe il rivoluzionario contributo suggerito da Franceschini. Il quale, se proprio ci tiene a vestirsi da Robin Hood per la festa dell’oratorio, dovrebbe almeno premurarsi prima di imparare a far di conto: con le parole si può anche ingannare, con i numeri no.
E i numeri, infatti, ci aiutano a capire quanta ipocrisia si nasconda dietro la nuova guerra che si è scatenata nei palazzi, vale a dire la guerra dell’elemosina. Per rispetto di chi sta vivendo davvero momenti di difficoltà ci sentiremmo di proporre una piccola moratoria, una tregua linguistica, una sospensione cautelare: non usate più a sproposito la parola «elemosina». Come sapete deriva da un termine greco che significa «avere compassione». Sentimento nobile, come dicevamo. Ma a forza di pronunciarla a sproposito molti dimostrano che non hanno affatto compassione. Tutt’al più la fanno.

 
 
 

Complessi d'inferiorità: perché copiare la sinistra che ha perso?

Post n°2600 pubblicato il 16 Marzo 2009 da Antalb
 

In un’intervista, il politologo Gianfranco Pasquino ha ammesso, anzi denunciato, la bancarotta intellettuale dell’Associazione Il Mulino, prestigioso pensatoio del mondo progressista italiano. Particolare non irrilevante, Pasquino della rivista del Mulino è stato anche direttore: parla, quindi, di qualcosa che ben conosce.

Fin qui non ci sarebbe nulla di sorprendente. Che gli intellettuali «non capiscano la società che dovrebbero interpretare e migliorare» (parole di Pasquino) non è una novità. L’intellettuale cade spesso nella tentazione di commentare e ridisegnare il mondo a tavolino, restando curvo sui libri anziché mettere il naso fuori dalla biblioteca per osservare e ascoltare quel che realmente avviene. La teoria - la propria teoria, naturalmente - è considerata più importante della realtà. E «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», diceva Hegel.

Pasquino ha esteso il fallimento del Mulino a tutto il milieu intellettuale della sinistra, espressione tautologica perché in Italia, come sappiamo, non può esserci «intellettuale» se non «di sinistra». Dice testualmente il politologo ex direttore del Mulino: «L’elaborazione teorica della sinistra avviene a livello di idee e non di confronto con quello che succede, col Paese reale». A questo punto la vera novità potrebbe essere questo onesto mea culpa. Ma in fondo, a ben pensarci, non è nemmeno la prima volta che da sinistra filtrano voci autocritiche, ammissioni di un distacco dalla realtà, autodenunce di una po’ grottesca spocchia intellettuale.

L’ha fatto coraggiosamente anche Edmondo Berselli, pure lui ex direttore del Mulino, nei suoi libri Venerati maestri e Sinistrati. E poi, benemeriti furono già certi film di Nanni Moretti, a partire da Ecce Bombo, per mettere alla berlina un mondo che si ritiene «antropologicamente superiore», come da definizione, sommamente modesta, di Eugenio Scalfari. E allora, quel che ci pare veramente sorprendente è altro. È che proprio mentre il mito progressista vacilla e si autoflagella, proprio mentre un ex direttore del Mulino dice «non abbiamo capito niente» e il Pd annaspa in una crisi più di identità che di risultati elettorali, una strana sindrome sembra colpire coloro che avrebbero pieno titolo, oggi, per alzare la mano e dire: dunque avevamo anche noi le nostre ragioni. Lo vediamo in tanti uomini politici che proprio da una certa intellighenzia di sinistra sono stati, per decenni, emarginati, considerati carcasse del passato. Giovedì, tanto per fare uno solo dei possibili esempi, Gianfranco Fini ha detto a Porta a porta di non trovarci «nulla di male» se a volte viene «etichettato come uno di sinistra».

E non l’ha detto per caso. L’ha detto perché ormai è qualche anno che Fini sorprende per affermazioni in piena sintonia con quel mondo politically correct da cui era lontanissimo negli anni in cui esserne lontanissimi era tutt’altro che facile. È vero che non c’è nulla di male, per un uomo di destra, nell’avere anche pensieri di sinistra: solo gli ottusi non sanno riconoscere, di volta in volta, le ragioni degli altri. Sono però il numero e la frequenza di certe uscite - quasi sempre in contraddizione con i propri convincimenti passati - a stupire. La battuta di un «Fini candidato ideale per la guida del Pd» l’ha lanciata Solinas su il Giornale, ma non è nata dal nulla. Anche nella Chiesa - che pure avrebbe molti motivi per avvertire una sorta di rivincita - si sprecano le sortite di vescovi e teologi che sembrano più preoccupati di avere il plauso di Repubblica che non quello del proprio gregge. Ecco: il plauso di Repubblica; l’imprimatur di un certo «giro» progressista nei confronti del quale si continua ad avvertire un complesso di inferiorità. Sembra questa la sindrome di cui parlavamo. È qualcosa di molto simile alla «sindrome di Stoccolma», che porta gli ostaggi, una volta liberati, a prendere le difese dei propri rapitori. Per decenni, chi non stava a sinistra si è sentito ostaggio di un’egemonia culturale che non gli concedeva lo status di essere pensante. E ora che potrebbero sentirsi «liberati», molti paiono ossessionati dal bisogno di una legittimazione da parte degli ex «nemici». È comprensibile, perché la sindrome di Stoccolma esiste ed è stata ampiamente studiata. Come patologia, però.

 
 
 

Lo stupro di Roma: quanta fretta di scusarsi

Post n°2599 pubblicato il 15 Marzo 2009 da Antalb
 

Piano, calma. Frenate. Certo, il Tribunale della libertà ha detto che per lo stupro della Caffarella gli indizi a carico dei due romeni arrestati non sono sufficienti a tenerli in carcere. Ma non vi sembra un po’ presto per parlare di «scandalo», di «razzismo», di «risarcimenti da pagare», di «onore da ristabilire», di «immagine da restituire»? Piano, calma. Il Dna non corrisponde, ma oltre al Dna non tornano un’altra montagna di particolari. Al momento risultano innocenti della violenza, ma aspettiamo prima di cospargerci il capo di cenere e implorare il perdono di Loyos Isztoika e Karol Racz: in fondo, qualche cosuccia ce la devono spiegare.
Prendiamo Isztoika, il biondino. Abbiamo visto tutti il video della sua confessione, la glaciale indifferenza, i dettagli sconvolgenti: «Abbiamo deciso di rapinare quei due ragazzi, ma lei era bella e così abbiamo deciso di violentarla, per dispetto. Lei urlava e anche lui. Ma l’abbiamo picchiato e uno a turno lo teneva fermo mentre l’altro stuprava la ragazza. Gli dicevamo: guarda come deve fare un uomo con una donna. A vederli così spaventati ci prendevamo ancora più gusto». Parole estorte? Non sembrava, ma questa è solo un’impressione e vale quel che vale. È più importante sapere che i poliziotti, i pm, il gip e il referto medico smentiscono che Loyos Isztoika sia stato sottoposto a violenza. E altrettanto importante è chiedersi come il biondino fosse a conoscenza di particolari che non erano di dominio pubblico o che, addirittura, al momento delle sue dichiarazioni non erano noti neppure agli inquirenti e sono stati verificati soltanto in seguito. Ecco, prima di chiedergli scusa, ci piacerebbe che svelasse questi misteri.
Quanto all’«immagine», vorremmo ricordare che Isztoika, 20 anni ancora da compiere, in Italia era stato arrestato tre volte in 14 giorni per i seguenti reati: rapina, lesioni personali, furto aggravato, ricettazione. Successivamente, era stato colpito da un decreto di espulsione da parte del prefetto di Roma che lo giudicava «incompatibile con la sicura e civile convivenza». Insomma, vedremo che ruolo ha avuto (se lo ha avuto) nel tremendo episodio della Caffarella. Ma diciamo che i gentiluomini generalmente esibiscono un altro curriculum.
Karol Racz, «faccia da pugile», ha già scontato quattro anni per furto in Romania. Ora resta in carcere perché è sospettato di un’altra violenza carnale, compiuta il 21 gennaio a Primavalle: la vittima dice di averlo riconosciuto. Ma «il pugile» si trova a Regina Coeli anzitutto perché indicato come complice dallo stesso Isztoika. Il quale ha pure rivelato alla polizia dove Racz si era rifugiato, lasciando Roma in gran fretta, proprio il giorno dopo lo stupro: in un campo rom di Livorno dove a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarlo se il compare non avesse «cantato». Perché? Racz sostiene che Isztoika l’ha accusato e si è autoaccusato per proteggere due rom di cui ha un sacro terrore e che sarebbero i veri autori dello stupro.
Non sappiamo se le cose stiano così. Pensiamo però che, Dna o non Dna, i due amici romeni abbiano ancora tante cose da chiarire su questo delitto. E questa ci pare ragione sufficiente per esimerci dal profonderci nelle scuse che vengono richieste a gran voce da molti specchiati progressisti. A nostro sommesso modo di vedere, la vittima in questa vicenda, continua a essere la povera ragazzina di 14 anni brutalmente abusata. E il primo obbiettivo dovrebbe essere cercare di renderle giustizia. L’«onore» di qualcuno che, evidentemente, non ha detto tutto quel che sa sul crimine perpetrato nei suoi confronti, può aspettare.
Ps: avremmo scritto il medesimo articolo anche se i due protagonisti non fossero romeni, ma italiani. Vorremmo poter dire che anche chi in queste ore si percuote il petto con la prova del Dna naufragata avrebbe fatto lo stesso. Vorremmo. Ma il friulano Elvo Zornitta, scagionato dopo essere stato indicato per 5 anni come il famigerato Unabomber, sta ancora aspettando che qualche anima bella chieda di restituirgli l’immagine e l’onore.

 
 
 

La fiction su Di Vittorio: non santificate quel sindacalista, non capì Stalin

Post n°2598 pubblicato il 15 Marzo 2009 da Antalb

«La figura di Giuseppe Di Vittorio appartiene a pieno titolo alla storia di tutti gli italiani. La sua opera fa parte del patrimonio ideale della Repubblica e della Nazione». Queste le parole pronunciate martedì dal presidente della Camera Gianfranco Fini alla presentazione della fiction «Pane e libertà» ispirata alla figura dello storico leader della Cgil. Sono parole che sottoscrivo senza alcuna perplessità.

La vicenda di quel povero ragazzo pugliese, quasi analfabeta e orfano di padre, che divenuto uomo seppe lottare per la libertà sua e degli umili come lui, merita ricordo, rispetto, ammirazione. Spero soltanto - non avendo avuto modo di vedere il filmato - che si sia evitato, in questa biografia, il dolciastro che è sempre in agguato. Per la sua genuinità umana e per la sua dura coerenza politica, il comunista Di Vittorio non può diventare un santino del politicamente corretto. Era impregnato d’ideologia fino al midollo, anche se riuscì a non diventare mai schiavo del settarismo. Manteneva un forte contatto con la «base» che allora era composta soprattutto da operai e contadini, non come oggi da pensionati.

Giusto rievocare lo strappo doloroso con Togliatti dopo la rivolta di Budapest. «Il Migliore» - che nell’occasione diede il peggio di sé - lo costrinse a un penoso mea culpa per avere riconosciuto la matrice popolare dell’insurrezione ungherese. Dopo quella resa «scoppiò a piangere... diceva singhiozzando che la classe operaia non meritava cose simili». Teniamolo bene a mente, tutto questo. Senza fare a Di Vittorio il torto di presentarlo come un sentimentalone.

I dirigenti comunisti battevano l’Urss staliniana molto più di chiunque altro, ma sembrava non vedessero e capissero nulla. Le diagnosi economiche del Congresso che la Cgil tenne a Genova nell’ottobre del 1949 furono scoraggianti per superficialità e faziosità. L’Italia, fu detto, va alla rovina, importa troppo dagli Stati Uniti ed esporta troppo poco nei Paesi dell’est, meravigliosi clienti potenziali. L’avvenire era buio. Reso tale dalle catastrofiche adesioni, volute da De Gasperi, al piano Marshall e al Patto Atlantico. La scissione sindacale avvenne soprattutto perché i comunisti egemonizzavano al di là del tollerabile, incessantemente proponendo come stupendo il modello sovietico, la Cgil. Che poi Di Vittorio riuscisse, con buon senso, a intendersi con il leggendario presidente di Confindustria Angelo Costa, è altra faccenda.

Gli esseri umani, soprattutto quelli a forte caratura - e di Vittorio sicuramente lo era - sono complessi. Di Vittorio è stato intrepido e onesto nel difendere le sue idee. Ma le scelte decisive per il «miracolo» italiano le ha fatte De Gasperi.

 
 
 

Repressione in Cina: l'inutile spirito olimpico

Post n°2597 pubblicato il 15 Marzo 2009 da Antalb
 
Tag: Cina, Tibet

Dite, accade qualcosa che non sapevamo? Prendiamoci qualche responsabilità, allora: prendiamocele noi cittadini che puerilmente dicevamo che sport e politica non andavano mischiati e buonasera, tutti davanti alla tv; prendiamole noi imprenditori che passando da quelle parti non ci lamentiamo perché ci pare sempre tutto abbastanza normale, o non esagerato come dicono; o ancora noi governo incapace semplicemente di disertare una cerimonia d’apertura che era farlocca come tutto il resto, coi tibetani trucidati mentre una bambina fantastica cantava l’Ode alla madrepatria ma con la voce di un’altra, che aveva denti meno perfetti, mentre i fuochi d’artificio in tv erano generati al computer e scorrevano immagini con laghi azzurri e foreste verdi e panda giocosi e vie della seta e insomma tutto, fuorché il Partito che storicamente ha distrutto tutto questo; noi atleti incapaci di fare come la tedesca Imke Duplitzer, che ha disertato perlomeno la cerimonia d’apertura e si è chiesta se fosse più importante la giustizia o la sua medaglia, incapaci di parlare anche solo come Margherita Granbassi, secondo la quale «per il Tibet libero rinuncerei ai giochi»; le responsabilità prendiamocele noi ministero degli Esteri o se volete del Commercio estero, capace di far la voce grossa solo con chi non conta niente, e attentissimo, solo pochi giorni fa, a prender le distanze dai sindaci Alemanno e Cacciari perché colpevoli di una mera ospitata a quel reietto del Dalai Lama: mentre noi, noi Farnesina, «ribadiamo il nostro sostegno alla politica di una sola Cina».
Quale Cina? Quella che arrestava la 79enne Wu Dianyuan perché aveva chiesto il permesso di protestare durante le Olimpiadi, condannata perciò a un anno di lavoro forzato? O quella del 24enne tibetano Pema Tsepak, morto di percosse della polizia qualche giorno fa? Oh, ma di elenchi ne abbiamo davvero abbastanza. Dov’è l’elenco delle multinazionali che hanno sospinto Pechino in barba a qualsiasi spirito Olimpico? Dov’è, colleghi, una bella inchiesta sulle motivazioni olimpiche di Coca-Cola, Kodak, Visa, Samsung, Swatch e Panasonic? O una sulle due ditte canadesi, Bombardier e SNC-Lavalin, che sostennero la candidatura di Pechino anche contro la loro connazionale Toronto?
E perché il 21 giugno non fece gran rumore, durante il passaggio della torcia a Lhasa, quel capo del Partito comunista del Tibet che urlò «Possiamo sconfiggere in modo definitivo la cricca del Dalai Lama»? Di che ci lamentiamo? Ce l’hanno raccontata, ce la siamo fatta raccontare. «Se assegnerete i Giochi a Pechino, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani» disse nel 2001 Kiu Jingmin, buffonesco vice presidente del comitato olimpico cinese. E dopo l’assegnazione, nello stesso anno, il presidente Jacques Rogge disse che la situazione dei diritti umani sarebbe migliorata, e aggiunse che il Cio altrimenti avrebbe preso dei provvedimenti. Da allora, letteralmente inventando, il Cio ha sostenuto per anni che la Cina avesse fatto progressi: ha smesso i primi di settembre. Poco prima delle Olimpiadi c’era poi quell’altro fenomeno, Wang Wei, il segretario del Comitato promotore di Pechino, che assicurava come «i giochi miglioreranno tutte le condizioni sociali, compresa l’educazione, la salute e i diritti umani». Non hanno garantito niente, non è migliorato niente. La repressione, in Tibet, è tornata ai livelli della Rivoluzione culturale. E il Cio, come massima esposizione, se l’è presa col giamaicano Usain Bolt per il suo stile nel festeggiare le vittorie. E tutte le organizzazioni umanitarie non smettevano di documentare come la Cina stesse tradendo qualsiasi spirito olimpico. Prendiamocela, qualche responsabilità: sono tutte libere e disponibili.

 
 
 

Quelli che non vogliono far ripartire l'Italia: il cemento del no

Post n°2596 pubblicato il 13 Marzo 2009 da Antalb
 

Non vogliono le case, non vogliono il ponte, non vogliono le strade. Temono la «cementificazione», come dice il leader del Pd Franceschini, sguardo da iena dentro occhi da boyscout, che adesso ha scoperto il nuovo look del maglioncino. La cementificazione? Ma quale cementificazione? Da anni l’unico cemento che soffoca questo Paese è quello dei no: no alla Tav, no alle discariche, no alle centrali, no ai rigassificatori. No ai cantieri. No alle riforme. No al cambiamento. La cementificazione che fa davvero paura è quella delle idee, sono gli encefali a presa lenta, le meningi asfaltate. È questo il cemento che ha bloccato l’Italia. È questo il cemento da cui ci dobbiamo salvare.

Avete notato? Il governo non ha fatto in tempo ad annunciare l’esistenza di un piano per la casa e, ancor prima di conoscerlo nei dettagli, è partita la guerra del no. Alte grida. Lamenti. «Una sciagura che impoverisce il Paese», dice l’urbanista di sinistra. «Un delirio», dice l’architetto di sinistra. «Torna la speculazione anni ’60», sbraitano gli ambientalisti. E poi avanti: «deregulation selvaggia» (la deregulation si sa, è sempre selvaggia. O non è); «proposta indecente»; «casa delle libertà abusive»; «affari per i furbetti»; «condono mascherato»; «scempio», «messaggio devastante per il futuro». Naturalmente, per condire l’orrore, si scomodano Francesco Rosi, «Mani sulla città», Alberto Sordi palazzinaro con annessa locandina di film. Manca solo la copertina del manifesto con un grattacielo che spunta dentro il Colosseo, poi il quadro sarebbe completo. E, intanto, benvenuti nella nuova mansarda costruita al posto della Madonnina...

Assurdo? Macché. Le regioni rosse, tanto per dire, hanno già annunciato che non collaboreranno al rilancio dell’edilizia. Lo boicotteranno. E siccome il piano avrà bisogno, per una parte, dell’appoggio delle regioni, significherà che lo bloccheranno. La lezione di Soru in Sardegna, mandato a casa dagli elettori perché, fermando cantieri e turismo, aveva sclerotizzato l’isola e l’aveva condannata alla povertà, evidentemente non è servita. Così è, anche se non vi pare: c’è un’idea per dare lavoro ai disoccupati e slancio all’economia a costo zero. Ma sembra che non importi a nessuno. Perché non si discute nel merito? Perché non si cerca di migliorarla? Perché si cerca di stroncarla? Perché si parte subito lancia in resta parlando di «interessi illegali» e «scena del delitto», come fa il responsabile Ambiente del Pd Ermete Realacci? Siamo d’accordo o no che questo Paese è bloccato da troppi anni di «non fare»? Siamo d’accordo o no che farlo ripartire ora significa anche rispondere alla crisi? E dare lavoro a imprese e operai? Allora perché questa corsa al no per il no, questi toni apocalittici, questa cementificazione del parencefalo? E quanto dobbiamo aspettare perché Franceschini e Realacci si accorgano che queste posizioni assurde e conservatrici ci fanno perdere contatto con il mondo? Vent’anni, come per il nucleare?

Il Paese oggi si sta dividendo in due. Ma la vera divisione non è fra destra e sinistra, popolari o socialisti, laici o cattolici. La vera divisione è fra chi cerca di disegnare il futuro e, dentro la crisi, cerca soluzioni nuove. E chi rimane ancorato a un passato vecchio e indifendibile, e che mai come oggi appare letale. E per dimostrare che quest’ottusità è un cancro devastante che va oltre il limite dell’antiberlusconismo, basta guardare quello che sta succedendo alla Tod's. Il titolare, Diego Della Valle, che è sempre stato coccolato e riverito nei salotti della sinistra, ha deciso per il secondo anno consecutivo di concedere ai dipendenti un bonus di 1400 euro l’anno, 116 euro mensili. Voi capite: in un momento di crisi, mentre tutti pensano a tagliare e magari a mettere in cassa integrazione, c’è un’azienda che non solo non taglia e non mette in cassa integrazione, ma regala 116 euro mensili a ogni dipendente. Risultato? La Cgil protesta. Si oppone. S’indigna. Motivo: «Non siamo stati consultati». Ma vi sembra possibile? Vi sembra possibile che ci sia qualcuno che antepone, così sfacciatamente, l’antica ideologia all’interesse presente degli operai, le stanche liturgie sindacali agli effetti concreti di una buona decisione? Dalle regioni rosse alla Cgil, da Epifani a Franceschini: quello che si sta rinsaldando è un nuovo e ottuso asse del no. Ma non dovevano essere riformisti? E che cosa si può riformare riducendosi a spuntoni archeologici, a reperti del mesozoico, a distributori di paure e pasdaran del rifiuto assoluto? Per andare verso il futuro l’Italia ha bisogno di fantasia, coraggio, soluzioni innovative. Ha bisogno di liberarsi dei più oscuri retaggi del passato. La gran parte del Paese è pronta. È pronta a lanciarsi. È pronta a trasformarsi. Che non si faccia sviare da quelli che la vogliono cementificare nell’immobilismo: sono i rappresentanti di un mondo destinato a scomparire. L’unica cosa che riescono a cambiare, in effetti, è il look: si mettono il maglioncino. Ma solo per non far vedere che sono rimasti in mutande.

 
 
 

Le banche strangolano le imprese: tornate a fare il vostro mestiere

Post n°2595 pubblicato il 13 Marzo 2009 da Antalb
 

Adesso basta scherzare. Non c’era bisogno di scorrere il rapporto degli informati artigiani della Cgia di Mestre, che afferma che le nostre banche sono le «meno efficienti d’Europa» per costi e velocità di concessioni prestiti, non era necessario attendere le parole di monito di Bossi o di Tremonti, preoccupati dell’effettivo uso degli aiuti statali agli enti finanziari: basta entrare in banca e chiedere un mutuo o un finanziamento per rendersi conto che la «stretta creditizia» è una realtà, tanto più evidente quanto più decisamente negata dai vertici degli istituti di credito.
Le banche non prestano più denaro. Sono loro, non gli imprenditori, non i consumatori ad essere paralizzate dalla paura, gelate dal timore di non rientrare nei parametri di sicurezza, in particolare dal temuto indicatore del «tier one», in nome del mantenimento del quale ogni cosa deve essere sacrificata. Peccato che il giorno prima di fallire, il «tier one» di Lehman Brothers fosse all’11%, praticamente nella fascia della sicurezza assoluta, eppure si continua a dar peso a questi indici che, evidentemente, mal si adattano a periodi eccezionali.
La realtà è invece più semplice di quanto si pensi: una banca non può prescindere dal suo tessuto economico. Non esiste una banca sana se i suoi clienti falliscono, così come non può esistere un cuore sano in un corpo morto. Diamo atto che buona parte delle nostre banche non si sono fatte ingolosire in passato dalle dissennate speculazioni che hanno già decretato la fine di molte blasonate istituzioni; diamo anche atto che una tradizione di prudenza ha consentito al nostro sistema di reggere meglio di altri alla prima fase della crisi. Adesso però smettere di erogare credito non sarebbe più prudenza bensì suicidio. È necessario che al cliente della banca, specialmente se ha una lunga storia di affidabilità e correttezza (e chi se non un istituto di credito dispone di tali informazioni?), venga riservata la stessa cura che i governi stanno riservando alle banche medesime. Il prestito, il credito e il mutuo andrebbero offerti spontaneamente. Respingere, con espressione fintamente contrita perché «c’è la crisi», la richiesta di finanziamento di un imprenditore che in passato ha sempre onorato i suoi impegni, o di un correntista fedele che vuole rimodulare il mutuo, equivale a scavarsi la fossa da soli e non è il caso di offrirgli pure la vanga.
Pur di non prestare denaro il sistema bancario lascia ogni notte cento miliardi improduttivi nei depositi della Bce. La lunga abitudine alla posizione di forza non insegna né la lungimiranza né l’umiltà, ma non c’è tempo di imparare lentamente, bisogna farlo domani.

 
 
 

Non c'è spazio per gli avvoltoi

Post n°2594 pubblicato il 13 Marzo 2009 da Antalb
 

Anche Giulio Tremonti vede profilarsi un 2009 peggiore del 2008. Non vi è più differenza tra le previsioni del ministro dell’Economia e quelle del governatore della Banca d’Italia. Gli elettori che andranno alle urne nel 2009 per votare i parlamentari europei e le amministrazioni locali si troveranno di fronte una situazione economica peggiorata rispetto a quella delle elezioni politiche del 2008. Democrazia, mercato e Stato sociale sono sempre andati insieme: un modello consolidato oggi giunge a un punto d’inattesa difficoltà.
Accadrà così che il livello economico della vita e la sua gestione sociale saranno al primo punto nelle valutazioni degli elettori, sopra ogni altra questione: sia il testamento biologico che il federalismo fiscale perderanno il loro fascino primario di fronte alla crisi dei redditi e dei consumi.
Si può pensare che ciò possa dar luogo alla protesta sociale: qualche segno di ciò si è visto nei tumulti in Grecia e in Francia. Ma, in realtà, la crisi del livello di vita non dà luogo a una protesta sociale: ognuno si trova solo con il suo problema e non pensa che un movimento collettivo possa risolvere la sua condizione individuale.
La sinistra era forte sul tema della protesta quando il capitalismo era in fiore e quando il fattore lavoro incideva profondamente sul rendimento dell’economia. Ma nella crisi di sistema, che si chiami essa recessione o depressione, il fattore lavoro non è più un elemento decisionale per la tenuta del sistema stesso. E quindi la protesta e la piazza non sono più strumenti utili, e lo sciopero diviene un’arma spuntata.
È pensando invece a uno scenario sociale agitato che si è mossa la Cgil con le sue manifestazioni di piazza. Essa ha dovuto pagare la sua scelta con la rottura dell’unità sindacale e non ha potuto che appellarsi alle altre confederazioni, che hanno scelto una via diversa.
È significativo che gli studenti abbiano potuto costruire l’Onda, anche se questa è risultata ben altro dall’Onda «anomala» ipotizzata da Micromega, e si è dissolta rapidamente con le feste del Natale. Ma gli studenti sono ancora una categoria protetta e hanno potuto fare un’azione di piazza. Quello che non è pensabile è che coloro che hanno un contratto a tempo determinato possano scegliere un’azione di protesta: non lo possono fare a causa della loro debolezza sociale. Tale debolezza è stata causata proprio dai sindacati confederali e autonomi, che hanno puntato tutto su un sistema di Stato sociale fondato su coloro che lavorano o hanno lavorato, e quindi hanno fatto delle pensioni la forma sociale di protezione che determina gran parte della spesa pubblica.
Franceschini pensava forse di utilizzare i precari come soggetto di azione politica e di protesta sociale, ma non ha tenuto conto del fatto che i precari sono un insieme di casi singoli, non fanno massa o movimento. La protezione sociale delle categorie non protette dal sistema è quindi affidata alla politica del governo. Per questo il ministro dell’Economia ha esteso ai precari la protezione istituzionale.
Gli elettori del 2009 voteranno avendo innanzi il problema del futuro globale del Paese. È ben chiaro che il tema posto dalla crisi mondiale è il livello economico dei Paesi occidentali e, in particolare, di quelli europei. Riusciranno essi, in un momento di crisi che vede più forti le potenze asiatiche, a mantenere nel mondo il livello economico e sociale che è ora il loro? Il problema nazionale diviene dunque essenziale, perché è il sistema-Paese ad essere in gioco. Ciò non riguarda soltanto il singolo Stato, ma l’Europa nel suo insieme, che gioca nella crisi il suo posto nell’economia mondiale.
Le elezioni del 2009 saranno affrontate da un elettorato che ha preoccupazioni per il livello di vita dei singoli, inserite in quelle per il livello del sistema-Paese. Il governo è interlocutore inevitabile di questo corpo elettorale e non può non fare delle elezioni di giugno la sua battaglia politica per mostrare ai cittadini che esso ha a cuore il destino del sistema-Italia e quindi il futuro di tutti.

 
 
 

Emergenza economica: i dimenticati della crisi

Post n°2593 pubblicato il 10 Marzo 2009 da Antalb
 

Editoriale di Mario Giordano su il Giornale di venerdì 6 marzo.

«In tempo di crisi, sembra un paradosso, un artigiano lavora il doppio di quando c’è lavoro. Lavora per produrre. E poi lavora per trovare una soluzione, perché non c’è nessuno che si batte o fa rumore per dare un sussidio a un artigiano che ha perso il lavoro. Perché non si concepisce che anche noi possiamo rimanere senza reddito?». La e-mail è stata spedita alle 2 di notte. Alle 2.38, per la precisione. «Stamattina ho cominciato a lavorare alle 7, finisco ora», scrive Franco Ferretto. Ha 47 anni, 3 figli, una moglie, una piccola impresa artigiana con sette dipendenti in provincia di Padova. «Ormai per la normale conduzione della famiglia ho iniziato a intaccare i risparmi degli anni migliori in attesa che il vento torni a gonfiare le vele. Accadrà? Non lo so. Quello che so per certo che a noi niente è dovuto. Mai. E così ci resta solo una possibilità: aiutarsi da sé».
Li abbiamo chiamati «i dimenticati della crisi». Sono i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi, gli artigiani, sono la forza di questo Paese, la grande ricchezza, la spina dorsale, sempre celebrata nei volumi dei Censis e nei convegni della Bocconi. Sono quelli, però, a cui, appena il convegno finisce e il volume del Censis si chiude, nessuno pensa più. C’è la crisi? Ci vogliono i soldi per i precari, ci mancherebbe. E poi ci vogliono i soldi per la Fiat, chi li può negare? E poi ci vogliono i soldi per le banche, si capisce: non si muove foglia che sportello non voglia. E i piccoli imprenditori? Niente. Per loro niente. Possono rimanere a pancia vuota. Possono accontentarsi della Bocconi. I bocconi se li prendono altri. E così, come dice il padovano, alle 2.38 di mattina, «a noi non resta che una possibilità: aiutarsi da sé».
Abbiamo deciso di raccogliere le voci delle piccole imprese, i loro racconti, i loro sfoghi. Quando abbiamo iniziato ci aspettavamo di trovare rabbia, frustrazione, delusione. Le notizie che arrivano dal fronte economico in effetti fanno paura. Piazza Affari crolla di giorno in giorno. Wall Street pure. I centri studi e le organizzazioni internazionali si danno il turno a diffondere ogni mattina una statistica più spaventosa dell'altra. Siamo in mezzo al tunnel, ma a volte abbiamo l’impressione di essere in un pozzo nero. Nessuno sa dire se, come e quando si uscirà. Per questo ci aspettavamo di trovare solo desolazione, stanchezza, un po' di sfiducia. Invece. «Anche questa mattina», dice una delle prime mail arrivate, «mi sono alzato con il solito entusiasmo per affrontare la giornata con atteggiamento positivo... ». Anche questa mattina. Atteggiamento positivo. Proprio così.
Dove avevamo lasciato l’Italia che ci crede? Eccola qui. Un po’ depressa, incavolata nera con le banche, inferocita con il fisco e la burocrazia, esigente con il governo («aiuta la Fiat, e noi?»), però sempre vitale. Coraggiosa. Daniele Barbone ci scrive da Shangai: «Siamo partiti nel 2005, in un sottoscala di Varese, con un gruppo di ex colleghi rimasti disoccupati, tutti sotto i quarant’anni. Ora abbiamo due belle sedi (una vicina a Malpensa, una qui a Shangai) e siamo in pieno sviluppo. Nel gennaio 2009 abbiamo vinto il China Trader Award, per la posizione strategica raggiunta sul mercato cinese. Basta per far capire che alla crisi bisogna saltarle incontro con idee e determinazione?».
Certo: la carenza di liquidità è un problema grave, che rischia di diventare letale. «Ognuno paga quando può o quando vuole», ripetono molti imprenditori. Le grandi imprese ritardano i versamenti a loro piacimento, gli enti pubblici pure. E le banche non solo tagliano i finanziamenti, ma hanno pure atteggiamenti che molti artigiani definiscono «sleali» o di «strafottenza». Molti chiedono l’intervento del governo: «Intervenga e le bacchetti». Altri tagliano corto: «L’unico modo per salvarsi è starne alla larga... ». Pochi, però, si arrendono. Quasi tutti rispondono con un tono quasi di sfida. «La crisi? Ne approfitto per crescere», racconta il veneto Fazioli, produttore di rinomatissimi pianoforti. «Europa e America comprano meno? Io sto cercando di entrare in Sudafrica, Sudamerica e Australia». E un piccolo imprenditore lombardo, capo di un’impresa di 200 dipendenti, chiude la sua accorata mail dicendo: «Fare impresa in Italia significa, come si dice da noi, rangess... ». Post scriptum: «Adesso scendo in trincea a combattere».
Ecco: in trincea a combattere. È lo spirito, è la forza, è l’Italia che ci crede. E noi continueremo a raccogliere qui in redazione e sul sito Internet le testimonianze degli imprenditori. Perché rangess (arrangiarsi) va bene, ma fino a un certo punto. Diciamocelo: per le pensioni si mobilita il sindacato; per gli ammortizzatori sociali si mobilita la piazza; per i precari si mobilitano tutti. Ma chi si muove per artigiani e piccole aziende? Non è giusto che le loro voci rimangano inascoltate. Non è giusto che la famosa «spina dorsale» del Paese resti dimenticata. Anche perché a prestare orecchio, si sentono testimonianze semplici e belle, come quella di Franco Gai, di Villarbasse, hinterland di Torino. Gli affari della sua azienda diminuiscono (-35 per cento), la Fiat paga in ritardo, le difficoltà aumentano. «Pensate di ricorrere alla cassa integrazione?», chiede loro il nostro Stefano Filippi. E lui risponde sicuro: «No. Né cassa integrazione né licenziamenti. Resisto perché sono un imprenditore, non un finanziere. Ho un’etica. Finché posso tiro fuori i soldi di tasca mia... ». Finché può, proprio così. È un imprenditore, non un finanziere. E finché può noi, almeno, dobbiamo dargli la possibilità di raccontarlo.

 
 
 

Ecco chi è davvero l'ex pm: Tangentopoli morale di Tonino

Post n°2592 pubblicato il 10 Marzo 2009 da Antalb
 

Questa è la storia di un’amicizia il cui epilogo si rivelerà così sconcertante da spiegare chi è Antonio Di Pietro meglio di cento altri episodi. È la storia di un uomo, Di Pietro, che in vita sua ha avuto un solo amico del cuore; ma questo amico, nel 2002, fu accusato d’aver ucciso la moglie e allora l’ex magistrato accorse, divenne suo avvocato, lo difese pubblicamente, lo valorizzò come amico d’infanzia: ma poi l’amico venne arrestato, l’aria cambiò e Di Pietro passò ad accusarlo con gli stessi materiali che da avvocato aveva raccolto per difenderlo. Lo denunciò persino, e davanti ai giornalisti intanto l’amica d’infanzia era diventata la moglie uccisa. L’amico è stato condannato anche grazie al suo avvocato, che perciò è stato sospeso dall’Ordine. Ma non se ne duole.
Per figurare come paladino vincente del giusto contro lo sbagliato, per quattro voti straccioni, è disposto a pagare qualsiasi prezzo. Erano amici dal settembre 1961. Si conobbero 11enni al seminario diocesano di Termoli, quando in convento si andava a star meglio. Pasqualino Cianci era un coetaneo di Tavenna, e non ci fu ora o giornata o stagione che i due non divisero per tre lunghi anni. Era un complice inseparabile anche nei periodi estivi passati alla masseria di Tonino, dove divisero la stagione più bella della campagna e della giovinezza. Pasqualino ha sposato una paesana, ed è andato a vivere proprio di fronte alla masseria. Durante Mani pulite era l’unico ad avere libero accesso alla casa colonica della famiglia, e divenne un riferimento per i giornalisti.
Poi, l’8 marzo 2002, Pasqualino e la moglie vennero trovati a terra nella loro casa: lei morta strangolata, lui tramortito. Di Pietro, allora in disarmo perché non rieletto in Parlamento, si precipitò e pretese la veste di avvocato di parte civile. Immaginarsi la fiera. Giuliana, la moglie, diceva di ricordarla: era quella bambina di dieci anni con cui lui e Pasqualino giocavano d’estate. Si erano incontrati anche la domenica precedente al fattaccio, a Termoli. Cianci era assistito anche da un altro legale, Domenico Porfido, e intanto Di Pietro faceva un baccano d’inferno. Si scagliò contro i giornalisti che sospettavano dell’amico, e al funerale eccoli uno accanto all’altro. Dormivano assieme nella masseria, come nelle estati di quarant’anni prima. Ma poi Pasqualino fu arrestato, e il linguaggio dell’amico prese a cambiare: «Ho svolto le mie indagini sull’omicidio della mia amica d’infanzia», disse. Stava mettendo il cappello sull’inchiesta, e la rinnovata «amica d’infanzia» era diventata lei. La figlia, Debora, gridò l’innocenza del padre come sempre farà. E Tonino sempre più ambiguo: «Difenderò la vittima, chiunque sia l’assassino».
Al processo, nel gennaio 2005, Di Pietro era diventato avvocato di parte civile contro l’amico. Non pensò che i diritti di un assistito, peraltro il suo migliore amico, andassero garantiti in ogni caso. Verità e la verità processuale non sempre coincidono, ma molto lasciava intendere che Pasqualino sarebbe stato condannato in ogni caso. Neppure pensò di astenersi, Di Pietro: non è un modus compatibile con la sua immagine pubblica. Può darsi che l’abbia abbandonato perché lo riteneva colpevole, o può darsi che l’abbia abbandonato perché pensava che il tribunale l’avrebbe comunque condannato. Il 31 gennaio 2007 Pasqualino ha preso 21 anni e 6 mesi. Attende l’Appello. L’Ordine degli avvocati sospenderà Di Pietro perché fu provato che le sue attività da difensore si erano rivelate utili per la condanna.
Da allora, Tonino ha continuato a fare la morale al Pianeta come sempre, e a parlare di «valori». Solo lui e Pasqualino sanno chi dei due scenderà all’inferno, o se si ritroveranno ancora.

 
 
 

DI Pietro finge d'indignarsi ma è lui il "re dello scrocco"

Post n°2591 pubblicato il 10 Marzo 2009 da Antalb
 

«C'è bisogno di interventi di buoncostume!». Eh? «Questa è la vera vergogna italiana!». Ma chi è che urla? «Così si dà il cattivo esempio, ed è chiaro che poi diventano tutti bulli!». Ma che succede? Che bulli? «Con i bulli che abbiamo in Parlamento e al governo, così succede!». Ah, è Di Pietro.

Tranquilli. È normale. I punti esclamativi li abbiamo aggiunti noi, il resto corrisponde a una dichiarazione rilasciata martedì scorso dal leader dell'Italia di se stesso: una delle tante snocciolate ogni giorno nella speranza che i giornali ne riportino almeno una. Martedì la schermata del computer ne riportava una su Angelo Rizzoli che dovrebbe «accendere un cero a Silvio», una sulla legge elettorale «che è schifosa e va cancellata», una su «i ricchi che non pagano le tasse», una che diceva «i politici condannati non devono essere ricandidati», una «Berlusconi ha scelto l'impunità invece che la lotta al crimine», e ancora «L'Italia dei valori non vuole crescere sulle spalle del Pd», «bisogna far chiarezza sull'archivio Genchi», «il governo invece di affrontare la crisi opera per limitare i diritti dei lavoratori». Neppure una parola sulle balene spiaggiate in Tasmania.

Una, comunque, sui giornali è passata: è quella dei bulli. Sarebbero i parlamentari che hanno visto ribassarsi del 20 per cento i prezzi del bar e del ristorante del Senato. Ora il caffè costa 42 centesimi, un tramezzino ne costa 96 e un piatto di tortellini è passato da 1,80 a 1,50: da qui l'uscita su quei bulli che stanno in Parlamento. Perché proprio i bulli? È una delle tecniche minimal usate da Di Pietro per rastrellare presunti consensi; si sarà chiesto: chi è incazzato oggi? E avrà pensato che lo fossero le mamme degli scolari che hanno rimediato il 5 in condotta. Lettura: mamme, i bulli sono loro, vota Idv alle Europee. L'avrà pensato scofanandosi panini alla buvette del Senato come fa sempre, vincendo la ripugnanza per quei prezzi oltraggiosi. I questori hanno detto che il ribasso dei prezzi non incide sulle casse pubbliche, perché è dovuto all'unificazione dell'appalto per bar e ristorante. C'è semplicemente un nuovo gestore che fa prezzi più bassi: ma spiegaglielo a quello lì, che intanto avrà già fatto nuove dichiarazioni sugli infortuni di Kakà e sulla guerra civile in Angola.

Stiamo parlando, non dimentichiamolo, del principe della rendita, il sovrano dello sbafo, l'imperatore dello scrocco. Che scandalo la buvette del Senato: poi eccolo lì che s'ingolfa. Che scandalo mio figlio che chiede favori a Mautone: però non dimetterti dal Consiglio provinciale e dallo stipendio, figliolo. Che scandalo le pensioni dei parlamentari: poi scopri che il suo carnet previdenziale ne fa titolare di almeno tre pensioni, ovviamente tutte statali, perché Di Pietro con il privato non ha lavorato mai. Dal 1979 segretario comunale nel Comasco, dal 1980 vicecommissario di Polizia, dal 1981 magistrato dimessosi non appena maturata la nomina in Appello, nel 1995, così che la pensione fosse più alta. Poi europarlamentare. Poi parlamentare. E quando non lo elessero, tipo il 2001, ecco il suo pensiero: «Quell’estate, i partiti fanno una legge davvero sporca: riconoscono il diritto ad avere il rimborso elettorale anche ai partiti che nel 2001 non avevano raggiunto il quattro per cento, ma avevano superato il due per cento. Dovevano dare una mano ai tanti partitini, che avevano allevato all’interno delle loro coalizioni, che si erano indebitati fino al collo. L’Italia dei valori, che non si era alleata con nessuno, conoscendo i propri limiti, aveva fatto una campagna elettorale oculata e all’insegna del risparmio, pagandola con una fideiussione bancaria personale, mia e di altri candidati». Parole sue nel libro Il guastafeste. Dettaglio: i soldi della legge sporca, cinque miliardi di lire, poi li prese lo stesso. Li mise nella cassa centrale, non li diede ai candidati che si erano autofinanziati: così pure, oggi, la periferia del Partito è interamente autofinanziata e dalla cassa non vede un soldo. Ma poi: di chi stiamo parlando? Dobbiamo ripeterlo ancora? Di quello che da Giancarlo Gorrini scroccò cento milioni, una Mercedes sottocosto poi rivenduta, pratiche legali per la moglie, ombrelli, agende, penne e cartolame, stock di calzettoni al ginocchio, viaggi in jet privato, impiego del figlio. Di quello che da Antonio D'Adamo scroccò cento milioni, periodiche buste di contanti, Lancia Dedra per sé e la moglie, utilizzo di garçonnière dietro piazza Duomo, utilizzo di suite al Mayfair di Roma, vestiario di lusso, telefono cellulare per sé, altro telefono cellulare, biglietti aerei, appartamento per il suo collaboratore, consulenze legali per la moglie, una libreria, senza contare la casa dietro piazza della Scala elargita dal Fondo pensioni Cariplo. Di chi stiamo parlando? Ah, è Di Pietro. Tranquilli. È normale.

 
 
 

Quando muore un figlio: ecco il valore di una vita "senza valore"

Post n°2590 pubblicato il 08 Marzo 2009 da Antalb
 

Editoriale di Michele Brambilla su il Giornale di martedì 3 marzo.

È passata purtroppo inosservata la lettera che David Cameron, leader dei Conservatori inglesi, ha inviato via mail a tutti coloro che hanno espresso solidarietà a lui e a sua moglie Samantha dopo la morte del figlio Ivan, di sei anni. Peccato, perché quella lettera ha molte risposte da dare a quanti in queste settimane hanno avanzato dubbi sul valore della vita di persone gravemente handicappate, oppure in coma. «Ma è vita, quella?», si chiedono in molti, dando per scontata la risposta: no, non è vita. «Vivere così non ha senso», dicono.

Il piccolo Ivan era, dalla nascita, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia. Era destinato a una morte certamente prematura, come infatti è avvenuto, e non ha potuto godere nulla delle gioie dell’infanzia: né giochi né corse, né parole né pensieri, almeno nel senso che intendiamo noi per pensieri. Ma quale «senso» abbia avuto la sua breve vita l’ha scritto suo padre, in quella mail, con parole commoventi: «Abbiamo sempre saputo - ha scritto - che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all’improvviso».

La sua morte, per i genitori, non è stata affatto quella «liberazione» invocata da altri genitori che hanno vissuto drammi simili. «Lascia un vuoto nella nostra vita - ha scritto ancora David Cameron - così grande che le parole non riescono a descriverlo. L’ora di andare a letto, l’ora di fare il bagno, l’ora di mangiare: niente sarà più uguale a prima».

Vado avanti: «Ci consoliamo sapendo che non soffrirà più, che la sua fine è stata veloce, e che è in un posto migliore. Ma, semplicemente, manca a noi tutti disperatamente. Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di luima almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi - Sam, io, Nancy ed Elwen (la moglie e gli altri figli,ndr) - a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall’amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo».

«Ricevere»: in questo verbo semplice e straordinario c’è tutto il mistero della potenza di uno dei più grandi - forse il più grande - tabù del nostro tempo, la sofferenza. In queste settimane in cui mi sono dovuto occupare del caso di Eluana Englaro, ho ascoltato attentamente le argomentazioni di tutti, politici e filosofi e prelati, ma quella che mi ha convinto di più è contenuta nelle pochissime,scarne parole che mi ha detto, durante una chiacchierata sotto la sede del Giornale, un nostro collega, Felice Manti: «Eluana è stata eliminata perché era Cristo in croce. Era un segno visibile e tangibile dell’ineluttabilità, nella nostra vita, della sofferenza».

La sofferenza è lo scandalo supremo, e di fronte ad essa reagiamo cercando (invano) di espungerla dal nostro orizzonte. Ma David Cameron ci dice ora quello che molti altri hanno sperimentato: e cioè che la sofferenza (oserei dire: forse nulla più della sofferenza) può avere il potere di renderci migliori, più attenti al dolore degli altri; di scoprirci capaci di amare e di sentirci amati. Chi vive situazioni del genere fa spesso esperienza di una fraternità che mai, prima, avrebbe immaginato possibile. Ecco «a che cosa serve» unavita come quella di Ivan Cameron. Una vita lontana anni luce dai criteri di felicità e benessere del nostro tempo: eppure capace di produrre una catena di amore che chissà quando cesserà di dare frutti. Una vita breve. Ma che cosa è breve e che cosa durevole? «Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo» (Seconda lettera di Pietro, 3,8).

 
 
 
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