Creato da Antalb il 28/07/2006
Confronto tra i giovani e la politica

TRIONFO E FESTA AL SENATO

 
 

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Fine del buonismo: la scuola torna severa. E noi?

Post n°2589 pubblicato il 08 Marzo 2009 da Antalb
 
Tag: Scuola

Editoriale di Michele Brambilla su il Giornale di lunedì 2 marzo.

Pare che finalmente la scuola italiana, conosciuta come la più permissiva del globo terracqueo, si sia decisa a dare un giro di vite. Gli ultimi scrutini hanno fatto registrare un aumento delle insufficienze e una pioggia di 5 in condotta, sembra incredibile ma tirare un righello in testa a un professore non è più consentito.
La scuola dunque ha deciso di fare la sua parte. Bene. Ma ora tocca a noi.
Per «noi» intendo noi genitori della sciagurata generazione cresciuta con lo slogan sessantottino «vietato vietare» e con l’incubo del giudizio del dottor Spock: il piccolo andava nutrito non quando aveva fame ma rispettando gli orari di una tabella prestabilita, una sculacciata ci faceva precipitare in angosciosi sensi di colpa, alla prima insubordinazione dovevamo abbozzare senza reagire perché il pargolo stava semplicemente separando il proprio sé dal nostro noi.
Siamo una generazione traumatizzata dalla paura di traumatizzare i figli. Qualunque cambiamento era percepito come un attentato all’integrità psicologica dell’erede: la nascita del fratellino, l’inizio dell’asilo, la scoperta dell’inesistenza di Babbo Natale.
Naturalmente anche il brutto voto a scuola richiedeva uno psychiatric help di quelli appresi leggendo Charlie Brown. Dimentichi dei ceffoni e dei sequestri di bicicletta subiti nella nostra infanzia ad ogni cinque e mezzo, non appena i nostri figli prendevano un quattro andavamo un po’ seccati a chiedere spiegazioni al prof: ma come si permette. Una pagella così-così comporta ormai, di routine, il cambio di scuola; una bocciatura un ricorso al Tar.
Ma è nei giorni di pioggia che noi genitori diamo il peggio. Non appena cadono due gocce, il traffico cittadino si blocca improvvisamente per la concentrazione di migliaia di automobili che convergono verso asili, scuole, licei, istituti tecnici per trarre in salvo i nostri figli. I più previdenti partono a metà mattina per trovare posto sul marciapiedi subito accanto al portone, chissà mai che il ragazzo sia costretto a camminare qualche metro sotto l’acqua. È in quei giorni che ci si accorge che il drammatico problema strutturale delle nostre scuole non è la mancanza di aule ma la mancanza di parcheggi.
Questa ossessione di non traumatizzare i figli, dicevo, i traumi li ha provocati a noi. Ad esempio al maledetto giorno del quattordicesimo compleanno. Si è cominciato negli anni Settanta, quelli delle grandi rivendicazioni sindacali: compiuti i 14 anni, si apriva la vertenza per il 50 cc. Cominciava una trattativa, la promozione era una conditio sine qua non, intanto incombeva l’incubo dell’incidente, molti genitori arrivavano ad augurarsi la bocciatura per rinviare l’acquisto. Oggi il trauma per noi non è più solo la paura dell’incidente, ma anche quella della situazione di emarginazione che il ragazzo potrebbe patire se fosse l’unico, nel branco, a non essere motorizzato.
Il nostro lassismo non ha condizionato solo il mondo della scuola, ma quello dell’intera società, pure del mondo del lavoro. Licenziare un fannullone o anche un ladro è diventato un attentato alla Costituzione, tenere in galera un rapinatore o uno stupratore è un intollerabile ritorno al Codice Rocco (del resto anche noi giornalisti siamo rimasti condizionati, non appena qualcuno viene ammazzato, mettiamo il microfono sotto il naso dei familiari della vittima e chiediamo: vero che ha perdonato?).
Il buonismo e il perdonismo, ecco i pilastri sui quali abbiamo costruito la nostra società. Così abbiamo allevato una generazione con gli attributi che abbiamo mostrato noi: inconsistenti. Uno dei pochi primati che l’Italia detiene attualmente è quello dei bamboccioni: da noi i ragazzi di età compresa fra i diciotto e i trentaquattro anni che stanno ancora in famiglia sono il 59 per cento, nel resto d’Europa il 29. Si dice che uno dei motivi sia la difficoltà a trovare un posto di lavoro: ma ieri il Sole 24 Ore ha spiegato che metà delle offerte di lavoro ai giovani rimangono inevase perché si tratta di contratti a tempo determinato, oppure perché c’è da spostarsi da casa anche di pochi chilometri.
Ben venga l’inversione di tendenza nella scuola, dunque. Per una volta, si dimostra più avanti del resto del Paese.

 
 
 

Quando antirazzismo fa rima con antisemitismo

Post n°2588 pubblicato il 06 Marzo 2009 da Antalb
 

Obama non ci andrà, ed è una grande notizia. Chi c’era, come è capitato a questa cronista, sa che cosa è stato e quanto sia importante che gli Usa abbiano fatto la cosa giusta. A Durban, in Sud Africa, nel 2001, giusto alla vigilia dell’11 settembre, la scena stessa era paradossale: una selva di follie antiamericane e antisemite celebrava quella che avrebbe dovuto essere una conferenza contro il razzismo... Cortei di Ong che affiancavano la conferenza dell’Onu marciavano sotto ritratti di Bin Laden urlando slogan jihadisti e bruciando bandiere americane, se appariva un ragazzo che indossava una kippà la caccia all’uomo si faceva inseguimento; nei corridoi dello stadio, sede delle Ong, poco lontano dal Palazzo dei Congressi, si distribuivano volantini in cui gli israeliani venivano chiamati nazisti, gli americani boia e sfruttatori; Israele era divenuto uno Stato di apartheid con astuto riferimento al Sud Africa in cui ci trovavamo. Nei corridoi del palazzo dei congressi le folle dei giornalisti seguivano Arafat, Fidel Castro, Mugabe, che nei loro interventi disegnavano un mondo in cui la giustizia era dipinta alla rovescia, i diritti umani seguivano lo schema dello scontro “antimperialista”, il dittatore Mugabe diventava un santo protettore dei figli degli schiavi deportati dall’Occidente capitalista (per carità, mai dagli arabi), e ora reclamanti risarcimenti dagli Usa per i loro regimi oppressivi. Israele era senz’altro definito come un’entità del tutto illegittima, avida di sangue, la costruzione di uno Stato ebraico, espressione della volontà nazionale del popolo ebraico eguale a ogni altro popolo e approvata da tutto il mondo, un muro di apartheid pari a quello che aveva separato bianchi e neri in Sud Africa fino alla rivoluzione di Mandela. Il terrorismo appariva una legittima, addirittura indiscutibile lotta per la libertà. La delegazione canadese fu la prima ad andarsene, poi seguirono, incerti e stupefatti, Israele e gli Usa.
Le follie di Durban sono diventate discorso pubblico comune. Sull’onda di un antisemitismo che non ha avuto pari negli ultimi anni, mentre si sollevava una nera schiuma di odio in cui i termini apartheid, razzista, nazisti, si diffondevano insieme alla negazione della Shoah, guardando solo agli ultimi giorni si trovano un riverito autore di teatro inglese che rappresenta a Londra una piece dove insegna come i bambini ebrei sono educati a uccidere e a odiare e studenti che spazzano l’Università di Toronto gridando «Crepate ebrei, via dai campus».
In questa atmosfera le commissioni nominate dall’Onu per preparare per i giorni fra il 20 e il 25 aprile a Ginevra la seconda puntata della conferenza antisemita in nome dell’antirazzismo, hanno tessuto la tela sotto la presidenza della Libia e l’attiva collaborazione dell’Iran (vicepresidente) e di Cuba. I documenti, pur negoziati anche con emissari di Obama, i cui sforzi per salvare la conferenza erano stati rafforzati nell’ultima settimana, erano tuttavia di nuovo quelli del 2001: razzismo, apartheid, crudeltà gratuita verso i palestinesi... Israele delenda est. Una condanna senza appello al diritto stesso di esistenza secondo i valori contemporanei correnti. Ma Obama ha dovuto prendere atto che l’odio verso Israele non è negoziabile, come non lo è la scelta di condannarlo innanzitutto alla morte morale, metterlo fuori dalla comunità degli Stati viventi, come fu per il Sud Africa, per collocarlo fra quelli in via di estinzione. Così Obama, a meno, dicono gli Usa, di cambiamenti drammatici, non andrà a Ginevra.
Ora tocca a noi: Frattini ha già dichiarato che l’Italia non vuole fare parte dello sporco giuoco della criminalizzazione. Il Parlamento ha già votato una mozione in cui si condanna il tentativo razzista della conferenza antirazzista. Adesso, il compito dei Paesi europei insieme agli Usa e al Canada è chiudere questo capitolo, lasciare soli i pazzi. Chi vuole raccontarsi fantasie razziste, non le venga a raccontare a noi.

 
 
 

Il governo dica no all'esclusione di Israele dai Giochi

Post n°2587 pubblicato il 06 Marzo 2009 da Antalb
 

Nell’indifferenza più totale, si sta consumando un torto gravissimo nei confronti di un popolo che di torti ne ha già subiti tanti. E l’Italia, in questo volgare attacco a Israele, ha l’antipatico e imperdonabile ruolo di protagonista. Il fatto, da raccontare, è presto detto: quest’anno si disputano i Giochi del Mediterraneo (una specie di mini Olimpiade, riservata ai Paesi che s’affacciano, appunto, sul mar Mediterraneo) e, nemmeno questa volta, gli atleti dello Stato di Israele sono stati ammessi per non dispiacere ai Paesi arabi iscritti alla manifestazione. A rendere il fatto ancora più insopportabile - per noi - è che sarà proprio l’Italia il palcoscenico di questi Giochi. Inutile dire: qual è il problema, se mai vi hanno partecipato.
Per chi ci vorrà giudicare benevolmente, l’accusa sarà di non aver saputo tenere la schiena ben dritta davanti alle pressioni delle nazioni musulmane. Per quanti, invece, vorranno criticarci duramente, l’accusa sarà di aver discriminato un Paese nostro alleato. Per quelli che non conoscono mezze misure, sarà fin troppo facile parlare di razzismo serpeggiante nei confronti del popolo israeliano. Comunque vada, l’Italia rischia più che seriamente di rovinare i rapporti con Gerusalemme.
E allo stesso tempo, anche con il governo palestinese. Già, perché, nel tentativo di trovare una soluzione «democristiana» alla vicenda, a qualcuno è venuta la balzana idea di invitare insieme con gli israeliani anche i palestinesi. Al di là dell’ignoranza geopolitica, la Palestina non è ancora uno Stato (tant’è che mai ha partecipato a una manifestazione sportiva con la propria nazionale), c’è la scarsa conoscenza della situazione diplomatica di quella parte del mondo: i Paesi arabi si servono dei palestinesi per fronteggiare Israele, ma non li stimano per nulla e sempre si sono opposti alla nascita di uno Stato palestinese. E, infatti, all’interno del Comitato internazionale dei Giochi del Mediterraneo i rappresentanti musulmani hanno detto «no» pure ai fratelli palestinesi.
Insomma, una vera e propria patata bollente che il nostro governo farebbe bene ad affrontare ora, prima che diventi rovente. Per di più visto che il Comitato organizzatore dei Giochi del Mediterraneo fa capo direttamente a Palazzo Chigi. Troppo importante il filo politico che lega Roma a Gerusalemme per permettere a chiunque di logorarlo a causa di una mini Olimpiade. Troppo delicata la situazione per lasciarla ancora nelle mani degli uomini dello sport. Tant’è che perfino un dirigente navigato come Mario Pescante, membro dell’esecutivo Cio e commissario governativo della manifestazione che si terrà a Pescara ha tenuto a precisare che «è improprio continuare a scaricare sul mondo dello sport l’impossibilità o il fallimento della diplomazia ufficiale».
Occorre, dunque, che anche se in clamoroso ritardo, di questi Giochi del Mediterraneo si occupi la politica. E in fretta. Perché l’Italia - come padrona di casa della manifestazione - non può permettere che uno Stato democratico come Israele non venga ammesso solo e soltanto per non irritare il mondo arabo. Non c’è in gioco solo la diplomazia. È una sfida che vale molto di più.

 
 
 

L'ingiustizia di morire per legittima difesa

Post n°2586 pubblicato il 06 Marzo 2009 da Antalb
 

Si dirà, nel tentativo di sopire le polemiche, che l’orefice Massimo Mastrolorenzi era psicologicamente instabile e che a quella sua mente turbata dev’essere addebitato il gesto estremo con cui s’è tolta la vita. Ma sarebbe troppo semplice e anche troppo comodo passare così all’archivio una tragedia che invece ci scuote e ci angoscia. Voglio scrivere con pacatezza, perché l’argomento l’impone

. Voglio inoltre evitare attacchi personali. Penso, molto semplicemente, che il gioielliere sia stato vittima della giustizia. La decisione ultima del pm Erminio Amelio - che a Massimo Mastrolorenzi imputava addirittura l’omicidio volontario per aver ucciso due rapinatori che erano entrati nel suo negozio, l’avevano picchiato, l’avevano legato - è stata a mio avviso insensata. Contrastante cioè con il giudizio che una schiacciante maggioranza di cittadini, inclusi autorevoli Soloni del diritto, avrebbe dato valutando questo stesso fatto. Si eviti pure d’associarsi a chi al gioielliere avrebbe dato una medaglia, per il coraggio con cui s’è liberato dei legacci che lo imprigionavano ed ha reagito ad una violenza criminale. Si ammetta pure che il gioielliere, preso da una comprensibile furia, abbia sparato ai delinquenti mentre fuggivano. Ma l’equipararlo a un volgare assassino è un affronto al semplice ragionare dell’uomo della strada (e delle donne non della strada).

Niente strumentalizzazioni, d’accordo. Riconosco che il magistrato ha diritto alle sue convinzioni, quando incrimina, così come il professore ha diritto alle sue convinzioni quando boccia, e che né l’uno né l’altro possono prevedere una reazione tragica. Tuttavia il «caso» Mastrolorenzi è sconvolgente. Risalgono al 2003 la rapina e l’uccisione dei rapinatori. L’11 marzo del 2005 il gup Giorgio Maria Rossi si espresse sulla posizione di Mastrolorenzi prosciogliendolo per legittima difesa. Annullata in Appello, per vizio di forma, questa sentenza, il gioielliere era stato nuovamente imputato per eccesso colposo di legittima difesa. Era stata proposta per lui una condanna a otto anni di reclusione, senza le attenuanti generiche che in Italia vengono elargite a delinquenti efferati e professionali. Poi, una settimana fa, il colpo di scena. Non più eccesso colposo di legittima difesa ma omicidio volontario. Un seguito di deliberazioni contraddittorie, e progressivamente più severe, in una escalation implacabile. Massimo Mastrolorenzi non è un soggetto equilibrato, anzi. Sono emerse le sue intemperanze e le sue violenze, l’ultima esercitata contro la compagna prima del suicidio. Ma anche un individuo dalla calma solida l’avrebbe di sicuro persa in un calvario giudiziario di sei anni (e ancora lontano dalla conclusione).

Concedo ai magistrati la possibilità d’essere di pareri discordanti. Ma in una vicenda che nelle sue linee essenziali è sempre stata chiarissima, come è potuto avvenire che in tre tappe diverse si siano avuti tre diversissimi responsi umani e tecnici? L’impressione, che mi piacerebbe tanto di veder smentita, è che vi sia una sorta di accanimento verso l’aggredito che, come usa dire banalmente, si fa giustizia da sé, e invece un’indulgenza bonaria per certi brutti ceffi. Che, se aggrediscono, picchiano, legano, impugnando una finta pistola anziché vere armi, diventano nelle ricostruzioni giudiziarie poveri agnellini braccati. Io la penso diversamente, e tantissimi come me, suppongo.

 
 
 

La morale di Obama: se la ricchezza diventa una colpa

Post n°2585 pubblicato il 28 Febbraio 2009 da Antalb
 

Il presidente degli Stati Uniti, Obama, giovedì ha annunciato il suo piano economico e fiscale. Una Finanziaria che vale, tanto per dare una dimensione, la ricchezza prodotta in Italia in un anno. Ma soprattutto ha lanciato un messaggio che certamente non resterà confinato negli Usa. Gli scarsi investimenti, ha detto, nella salute, nell’ambiente, nell’educazione sono dovuti alle forti riduzioni fiscali del passato. In particolare per la fascia più ricca della popolazione. Ha ribaltato il sogno americano degli ultimi trent’anni. La ricchezza deve essere tassata più di quanto sia avvenuto sino a oggi. Le fasce più abbienti della popolazione, le grandi multinazionali devono pagare un prezzo più alto alla società. Il messaggio obamiano prova a scardinare un principio fondante della storia americana: la ricchezza può diventare ora una colpa. La crisi in cui viviamo diventa così figlia della disuguaglianza, della scorretta distribuzione del reddito, dall’incapacità del mercato di avere atteggiamenti virtuosi. Ne discende la necessità per lo Stato di riprendere in mano le redini dell’economia e della società. Più dei singoli interventi e dei progetti di spesa annunciati giovedì, è questo, banalmente, il punto fondamentale della rivoluzione obamiana: c’è un colpevole di questa crisi. È la ricchezza. È difficile oggi mettersi dalla parte dei ricchi banchieri con stock option milionarie. È impossibile solidarizzare con i manager del settore automobilistico che si spostano con i jet privati. Ma siamo sicuri che il pianto dei ricchi sia la soluzione ai nostri problemi? Siamo convinti che il mito americano per il quale la ricchezza è lo specchio del buon successo si possa liquidare con una finanziaria? Ha senso credere che una redistribuzione per via fiscale sia la soluzione finale? Il rischio del messaggio obamiano è tutto qua. Un Presidente che si trova ad affrontare una grande recessione trova un capro espiatorio. Individua, con la complicità dell’evidenza, una classe sociale da tenere a bada. La preoccupazione non riguarda tanto e solo gli Stati Uniti, patria del sogno meritocratico. Riguarda piuttosto l’altra parte della luna. La parte in ombra, quella che non ha mai dato un’adesione completa ai principi liberali di oltreoceano. La nostra parte. Quella del vecchio Continente. Che ha fatto i conti per secoli con le proprie ipocrisie pauperiste ed egualitarie. I conti con le nostre pulsioni storiche; che hanno preferito nascondere il frutto del successo quando esso si esprimeva con gli alti gradi del termometro della ricchezza. Il rischio, grande, enorme, che corriamo, è compiacerci dell’ultima grande ed efficace comunicazione obamiana. Il rischio di approfittare dell’America per recuperare quell’atteggiamento redistributivo che ha impantanato le nostre società, rendendoci tutti un po’ più uguali, ma anche tutti un po’ meno liberi.

 
 
 

Basta privilegi per gli statali

Post n°2584 pubblicato il 28 Febbraio 2009 da Antalb
 

È annunciata una riforma, d’iniziativa governativa, delle regole che disciplinano - troppo blandamente - gli scioperi nei servizi pubblici in generale e nei trasporti in particolare. Ecco una notizia che farà sicuramente piacere a una maggioranza schiacciante di italiani, periodicamente vessati dalla paralisi di treni, tram, autobus, traghetti, controllori di volo e via dicendo; e che si presta a qualche considerazione riguardante l’immane esercito dei dipendenti pubblici nel suo complesso.

Per ogni loro sciopero sono addotti motivi seri d’insoddisfazione: per il trattamento retributivo e per il trattamento normativo. Mi guardo bene dal mettere in dubbio la legittimità dello scontento. Le strutture e la filosofia d’uno Stato che non punisce i fannulloni - ci prova Brunetta, auguri - e non premia i suoi migliori servitori sembrano fatte apposta per generare inquietudini. Ma con grande franchezza e amicizia, in un momento di terribile crisi dell’economia mondiale - e italiana - devono essere rammentate agli irrequieti “pubblici” alcune elementari verità.

La prima è che il personale “privato” vive attualmente una duplice angoscia: quella di buste paga che non reggono il confronto con il rincaro dei prezzi, e quella d’una possibile bancarotta della loro azienda. Bancarotta alla quale seguirebbero i drammi del licenziamento o della cassa integrazione. Proprio perché consapevoli della drammaticità di questo momento alcune maestranze hanno accettato riduzioni d’orario - che significano riduzioni di salario - o addirittura decurtazioni del salario stesso. Il “pubblico” è al riparo da queste incognite. La sua “azienda” - si tratti di una municipalizzata o di un’amministrazione regionale o d’un ministero - non fallisce anche se è gestita malissimo, se ha conti in rosso profondo, se fornisce al cittadino un “prodotto scadente”.

Non basta. Negli ultimi quindici anni, secondo statistiche attendibili, i “pubblici” hanno ottenuto aumenti retributivi nettamente superiori a quelli dei privati. Il fenomeno ha una spiegazione semplice. Il dipendente privato deve confrontarsi con un interlocutore grintoso, perché ne va dell’azienda, il “pubblico” ha per interlocutore un politico che non paga di tasca sua. E sia. Ma è inammissibile che poi i “pubblici” si agitino e scioperino più dei privati. Questo era sempre, a mio avviso, sbagliato. Diventa indecoroso quando sul Paese si addensano i nuvoloni neri della recessione.

Ho letto che per iniziativa della Cgil - per fortuna gli altri sindacati non partecipano - il 18 marzo dovrebbe fermarsi la scuola. Senza dubbio lo sciopero appartiene a una fallimentare strategia antiberlusconiana. Ma un altro suo ingrediente sta nel totale disprezzo per la realtà, in uno sfascismo incosciente e insolente. Non è che la scuola sia senza problemi, ci mancherebbe. Ma il personale che ne fa parte non dovrebbe dimenticare un solo istante, in questi frangenti, che il suo salario è certo, e quello di tanti bravi impiegati e operai incertissimo.

Appartiene ai paradossi dell’Italia in cui viviamo il fatto che la Cgil, ossia il sindacato ritenuto difensore degli operai, sembri poco interessato alla loro sorte. Infatti, non è un caso, gli operai in gran numero votano per Berlusconi. Nessun pregiudizio, sia chiaro, nei confronti dei dipendenti pubblici. Ma anche nessun privilegio da aggiungere ai molti di cui godono.

 
 
 

E' finita l'era degli scioperi selvaggi

Post n°2583 pubblicato il 27 Febbraio 2009 da Antalb
 

A coloro che immancabilmente grideranno all’attentato alla Costituzione per l’annunciata legge che introdurrà lo «sciopero virtuale», occorrerà ricordare che fino ad oggi di «virtuale» gli italiani hanno avuto solo la certezza di poter contare sui trasporti pubblici. Sono almeno trent’anni che nel nostro Paese prendere un bus, una metropolitana, un treno, un aereo, un traghetto rientra fra gli imprevisti. Il grado di attendibilità degli orari dei trasporti pubblici è largamente inferiore a quello delle previsioni del tempo, e appena superiore a quello degli oroscopi.

Esageriamo? Tenendo conto che in un anno ci sono circa 240 giorni lavorativi, sappiate che: 1) tra servizi di terra, di mare e dell’aria, nel 2004 ci sono stati 83 giorni di sciopero; nel 2005 51; nel 2006 69; nel 2007 86; 2) tradotti in ore, gli scioperi hanno totalizzato 418.000 ore nel 2004; 358.000 nel 2005; 410.000 nel 2006; 861.000 nel 2007. Lo sciopero è certamente un diritto del lavoratore. Si è sempre pensato tuttavia che fosse un diritto da esercitare a fronte di una situazione eccezionalmente grave, di una vertenza particolarmente aspra, di un sopruso da fronteggiare con urgenza. In Italia pare però che lo sciopero sia diventato ormai una ricorrenza fissa, un naturale intervallo tra i giorni di lavoro, una festività come quelle consacrate alla Patria o al santo patrono. Pietro Ichino, che è un uomo di sinistra, nel suo libro A che cosa serve il sindacato ha scritto ad esempio che i controllori di volo dell’Enav alla fine dell’estate del 2005 avevano già programmato l’agenda di astensioni dal lavoro per l’autunno. Un po’ come il piano-ferie.

Chi volesse avere un’idea dell’impatto che hanno avuto gli scioperi sull’economia, e più in generale sulla vita quotidiana di ogni comune cittadino (i cittadini non comuni se ne fregano dei mezzi pubblici: si muovono con i mezzi loro, jet privati compresi) può trovare dati interessanti in un altro libro, L’altra casta, di Stefano Livadiotti. Ad esempio. Tra il 1° gennaio del 2005 e il 30 giugno del 2006 sono stati proclamati, secondo le cifre fornite dalla Commissione di garanzia, 2.621 scioperi, cioè 4,8 ore al giorno. Di questi scioperi solo il 60 per cento («solo» per modo di dire) si è regolarmente svolto. Il resto è stato proclamato in base alla strategia del cosiddetto «effetto annuncio»: noi diciamo che scioperiamo così la gente rinuncia all’aereo e prende la macchina invece del tram, poi invece lavoriamo lo stesso, così noi non perdiamo un centesimo sulla busta paga ma i cittadini hanno comunque avuto i loro bravi disagi.

È una delle tante furbate con cui si danneggia il prossimo senza la seccatura di una trattenuta. Un’altra è lo «sciopero bianco»: ciascun lavoratore decide di attenersi scrupolosamente a tutte le mansioni previste dal contratto, dettaglio per dettaglio. Di questa cristallina strategia hanno dato recentemente una brillantissima prova i dipendenti Alitalia: si va dal «briefing» (il pilota studia tutte le informazioni sul volo previste dal regolamento, accumulando un ritardo di 10-15 minuti) all’ispezione nelle tasche dei sedili che fa perdere un’altra mezz’ora; dalla lettura integrale di tutte le scartoffie da firmare (che sono sempre le stesse) al rigorosissimo rispetto dei limiti di velocità del pulmino che porta i passeggeri. Operazioni di routine ormai memorizzate al punto da essere solitamente eseguite in automatico, nei giorni di «sciopero bianco» vengono svolte alla stessa velocità di una melina, anzi di una moviola. Colpisce poi la sproporzione tra le richieste sindacali e il danno procurato. Il 1° dicembre del 2003 Milano fu paralizzata da uno sciopero motivato da una richiesta di aumento di stipendio che sarebbe costato all’azienda dei trasporti pubblici, per i successivi due anni, 45 milioni; ma solo quella giornata di blocco costò alla città 60 milioni di euro.

Sempre a Milano, lo sciopero del 30 novembre 2007 costò alla collettività ancora di più: 254 milioni. Eppure, tanto per dare un’idea di quanto sia efficace l’attuale autoregolamentazione, il totale delle sanzioni inflitte dal garante nel periodo 2004-2007 è stato di 167.870 euro. Siamo la maglia nera dell’Europa. Tra il 2000 e il 2004 in Germania ci sono state 561.700 giornate di sciopero; in Italia 9 milioni e 336mila, sedici volte tanto. In Danimarca negli ultimi anni ci sono state più turbolenze sindacali che da noi (tra il 2000 e il 2003 i danesi hanno avuto 4.065 vertenze industriali contro le nostre 3.036). Eppure, in Danimarca ci sono stati in quel triennio 433.000 giorni di sciopero, un ventesimo di quelli che abbiamo avuto noi, 8 milioni e 645mila (in queste statistiche i giorni sono ovviamente calcolati sommando azienda per azienda). Uno dei motivi di questa, chiamiamola così, «anomalia italiana», è il proliferare incontrollato di sindacati. Una volta c’era la Triplice: Cgil, Cisl e Uil. Non si incrociavano le braccia senza la loro benedizione. Adesso le sigle sono infinite, ci sono sindacati che hanno un solo iscritto (il segretario) ma lo stesso diritto di proclamare uno sciopero, e quindi di procurare l’«effetto annuncio» che dicevamo.

Urge una regolamentazione. «I tempi sono maturi per studiare autonomamente delle regole per un uso corretto del diritto di sciopero»: è una dichiarazione della Cgil. La data: 1975. Dopo quattro anni di elaborazione delle regole, nel 1979 Luciano Lama annunciò: «I tempi sono maturi». Nel marzo del 1981, in pieno caos, l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli dichiarò: «I tempi sono maturi per una forma legislativa che regolamenti lo sciopero nei pubblici servizi». Nel luglio del 1982 un giornale titolava: «Braccio di ferro a Fiumicino, il governo è per la linea dura, i tempi sono maturi per una legge». Ritrovo le stesse parole in un’intervista del ministro dei Trasporti nel 1985: «Credo nell’autoregolamentazione, i tempi sono maturi». Lascio queste citazioni, e i dati precedenti, a chi fra trent’anni troverà questo scritto, nel giorno in cui qualcuno avrà detto che i tempi sono maturi.

 
 
 

Amici della natura: raid ecologista allo zoo, strage di animali a Torino

Post n°2582 pubblicato il 27 Febbraio 2009 da Antalb
 

Articolo di Paolo Granzotto su il Giornale di giovedì 26 febbraio.

Ai Verdi, fossero ambientalisti o animalisti, ormai non glie ne va a segno una. Spariscono dalla scena politica italiana; i ghiacciai, che volevano disciolti, ivi comprese le calotte artiche, entro l’estate aumentano in volume a vista d’occhio; l’Orbiting Carbon Observatory, il satellite lanciato negli spazi siderali per studiare l’effetto serra, dopo 17 minuti di volo precipita in mare (schiantandosi, va da sé). Ora ci si mette anche l’italianissimo Animal Liberation Front del quale un commando, nel corso di una azione «dimostrativa» in quel di Cumiana, tra Torino e Pinerolo, ha pensato bene di lanciare - sempre dimostrativamente, ovvio - venti molotov contro le strutture di uno zoo-parco, lo «Zoom». Risultato, la voliera in fiamme e quaranta uccelli fra poiane, gufi e falchi - gli stessi che il Liberation Front pretendeva fossero rimessi in libertà - finiti arrosto. In fiamme anche un capannone, alcuni uffici e parte della casa del custode. Di quei gaglioffi ora si occuperanno i Carabinieri e la Magistratura ed io mi auguro che ci vada giù, la Magistratura, con mano pesante. Così che la criminale bravata del Liberation Front animalista serva da monito agli ambientalisti tutti che con i loro isterismi, i loro allarmismi, il loro catastrofismo (e le loro molotov, per non parlare, visto com’è finito il satellite Ocb, della iella, del loro potere iettatorio) stando ai fatti arrecano più danni di quanti ne cagionò il buon vecchio Attila. Ce l’hanno nel sangue, di combinare guai. Fu infatti grazie a loro e alla loro rabbiosa campagna, massicciamente sostenuta dal trinariciutismo di sinistra, che passò lo sventurato referendum e che l’Italia chiuse i conti col nucleare. Conti che ora, se non vogliamo precipitare nel Quinto mondo e svenarci per pagare la bolletta energetica, dobbiamo necessariamente riaprire. Come li riapre quel sant’uomo, quel campione del nuovo mondo rispettoso della natura e apostolo del polmone verde che si chiama Barack Obama. E chi non segue Obama, chi non si spella le mani per ogni suo gesto e provvedimento, si sa: è un fascista.
Di che razza siano i componenti del commando dell’Animal Liberation Front non è un mistero. Ecoterroristi, così sono definiti i bombaroli e i dinamitardi Verdi. Anche avvelenatori. Perché anni fa, sotto le feste di Natale, furono proprio quelli dell’Animal Liberation Front a iniettare in un certo numero di panettoni, sostanze topicide. Come atto dimostrativo, va da sé, contro la Nestlè e le multinazionali in genere. Questo, e il nome che si son scelto, lascia intendere che siano nostalgici della guerriglia e che con la scusa della difesa degli animali si divertano a giocare al Che Guevara. Mostrandosi indifferenti - la guerriglia non è un pranzo di gala, diceva Mao - ai danni collaterali; al fuoco amico, dovremmo proprio dire, che giusto ieri ha fatto strage di uccelli. Altra conferma di quella universale verità che vuole la mamma dei fessi sempre incinta.

 
 
 

Ritorna il nucleare: un regalo a due generazioni

Post n°2581 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale di Franco Battaglia su il Giornale di mercoledì 25 febbraio.

Il ritorno italiano al nucleare sarà la cosa più importante che si sarà decisa in questo Paese negli ultimi 30 anni. Dobbiamo rendercene conto: la nostra civiltà è fondata sulla disponibilità di energia abbondante, economica e garantita secondo i nostri bisogni. E i nostri bisogni sono che essa deve essere erogata nel momento in cui viene richiesta e con la potenza richiesta. Non aver compreso quanto appena detto ha indotto la sbornia da eolico e fotovoltaico che il mondo, purtroppo, non ha ancora sbollito. Quando accadrà, sarà sempre tardi.

I combustibili fossili contribuiscono all’85% del fabbisogno d’energia primaria dell’umanità. Contribuiscono anche, nel mondo, al 66% del fabbisogno elettrico: per il resto, l’energia elettrica è prodotta da idro (17%) e nucleare (15%). Il restante 2% da geotermia e termovalorizzatori: come vedete, vento e fotovoltaico sono inesistenti (oddio, gli impianti - costosissimi - ci sono: sono solo inutili).

L’Italia è messa peggio del resto del mondo: i combustibili fossili soddisfano il 73% del nostro fabbisogno elettrico, l’idro il 10%, geotermia e rifiuti solidi urbani il 3%: anche in Italia, a dispetto dei colossali sperperi del precedente governo su eolico e fotovoltaico, questi sono quasi assenti. Se avete fatto le addizioni, rimane un 13% di fabbisogno: esso è coperto dal nucleare che importiamo dalla Francia. Insomma, nel mondo il nucleare è a +15% da noi, unici al mondo, a -13%. Non avete idea del danno economico che il Paese ha dovuto subire. Per farla breve: è da 20 anni che paghiamo alla Francia, ogni anno, l’equivalente di un reattore nucleare: come dire che un quarto del parco elettronucleare francese l’abbiamo pagato noi contribuenti italiani.

C’è però una ragione più profonda della necessità del ritorno al nucleare in Italia, ed è la stessa della necessità del suo potenziamento nel mondo: bisogna programmare una lenta e dolce uscita dall’economia del carbonio. Non, naturalmente, per via del riscaldamento globale - che è un colossale falso scientifico - ma perché la Terra non è piatta e infinita ma tonda e finita, e finiti sono petrolio, gas e carbone. La loro produzione, cominciata a zero nel passato, ha continuato ad aumentare finché, prima o poi, raggiungerà un picco massimo; che è stato anzi già raggiunto dal petrolio e il gas ci è vicino (il picco del carbone è ancora lontano, grazie alla sua maggiore abbondanza). Quel picco è un grave campanello d'allarme: da esso in poi la produzione della risorsa sarà inferiore alla domanda. O si corre ai ripari o saranno guai che non oso nemmeno immaginare.

I ripari non possono essere né eolico né fotovoltaico perché, per ragioni tecniche, queste tecnologie hanno una sola funzione: fanno evitare la combustione di combustibile convenzionale quando il sole brilla o il vento soffia. Quando il combustibile convenzionale sarà esaurito, non potranno far evitare la combustione di alcunché, e non avranno alcuna funzione. Qualcuno, con poca dimestichezza con la fisica, si illude coi pregi dell’accumulo della energia elettrica prodotta dal vento o dal fotovoltaico: mi spiace deludere, ma non è possibile, e alla prima occasione lo chiarirò.

L’unico riparo possibile è il nucleare: il buon Dio ci ha dato uranio e torio a sufficienza per alimentare il fabbisogno elettrico dell’umanità per oltre 10.000 anni, per cui la nostra civiltà, fondata sulla disponibilità di energia abbondante e garantita, avrebbe ancora lunga vita. Quella dei reattori nucleari è di 60 anni: installarli oggi, significa lasciare un bel regalo a ben due generazioni future. Se in Italia riusciremo a farlo, dovremmo esserne orgogliosi.

 
 
 

Senza regole: cari magistrati, perché Romeo è ancora in cella?

Post n°2580 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da Antalb
 

Noi qui a discutere e a polemizzare perché ci sono stupratori conclamati che lasciano il carcere dopo due giorni, e però intanto: che fine ha fatto Alfredo Romeo? Altri lì a litigare e addirittura a legiferare perché ogni volta c’è da capire se le famose esigenze cautelari siano davvero tali, se ci sia «pericolo di fuga» per chi fugge da una vita intera e neppure ha un domicilio, o se possa «reiterare il reato» chi l’ha già reiterato una decina di volte, o se possa «inquinare le prove» e intimidire i testimoni chi spesso gli unici testimoni li ha solamente già stuprati una volta: e però intanto, ecco, perché Alfredo Romeo è ancora in carcere?

Alfredo Romeo, di cui personalmente non ci frega niente, è in custodia cautelare da 73 giorni ed è rimasto il solo carcerato delle inchieste napoletane.

Altri appartenenti al suo «sodalizio» intanto sono usciti o sono ai domiciliari. E allora vediamo: come potrebbe inquinare le prove? La giunta partenopea è stata azzerata, tutti i partecipi del sodalizio sono fuori gioco o in un caso suicidati, per il troncone principale dell’inchiesta oltretutto c’è già stata la richiesta di rinvio a giudizio il che significa che le indagini sono chiuse. Lo stesso giudice delle indagini preliminari, da subito, aveva escluso che Romeo potesse inquinare alcunché. Forse è in carcere perché potrebbe fuggire? In casi come il suo, per ragioni sociali e familiari e patrimoniali, le latitanze sono rarissime e insomma non accade mai: nessuno infatti ne contempla la possibilità. Sicché rimane a disposizione solo l’ultimo dei tre requisiti per cui richiedere e ottenere una custodia cautelare: una possibile «reiterazione del reato», la celebre «pericolosità sociale».

Nel caso: è pensabile che Romeo possa lasciare il carcere e domattina macinare appalti e delinquere come nulla fosse? Questo nell’attenzione che lo circonda, nel deserto lasciato dall’inchiesta? Parrebbe ridicolo: non lo è. I magistrati infatti sostengono che possa ancora delinquere e perciò resta dentro: è l’unico cui hanno contestato il reato di associazione per delinquere: e con chi? Con quali associati? Trattasi, attenzione, di «complici non identificati». E così questa contestazione improbabile, che i magistrati potranno magari derubricare in un secondo momento, nel frattempo consente di raddoppiare i tempi di custodia cautelare per Romeo: potrebbe restar dentro sino a giugno e anche oltre.

Romeo, interrogato, non ha taciuto: ha risposto a tutte le contestazioni contenute nell’ordine d’arresto. Ha ammesso molte cose. E nessuno oserebbe sostenere che i magistrati lo tengano dentro perché possa sussurrare dei nomi magari estranei alle accuse, ma graditi agli inquirenti: e infatti noi non lo sosteniamo.

Noi sosteniamo un’altra cosa: che nei confronti di Romeo come di chiunque, colletto bianco o stupratore romeno che sia, i magistrati in Italia fanno semplicemente quello che vogliono.

 
 
 

Le intuizioni del premier

Post n°2579 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da Antalb
 

La maggioranza di Berlusconi realizzatasi per la prima volta nelle elezioni del ’94 è stata a lungo respinta dal sistema politico italiano sia in sede costituzionale che in quella dei poteri economici finanziari e dei partiti come illegittima rispetto all’acquisito politico della Costituzione repubblicana e della sua evoluzione nella prassi. La delegittimazione di quella maggioranza sino a porla in crisi più volte ha avuto protagonisti politici i postcomunisti e i democristiani di sinistra che sono riusciti a prevalere con Romano Prodi.

Ma oggi la maggioranza di Berlusconi è divenuta la sola maggioranza esistente fondata su fattori che potremmo definire strutturali e non meramente congiunturali. Il fatto più rilevante è quello più recente, cioè la crisi del sistema finanziario mondiale. Non è la crisi del capitalismo e dell’economia di mercato, ma richiede un ruolo istituzionale sia a livello dei singoli Paesi che del sistema globale. I governi nazionali divengono gli attori fondamentali del sistema sia per il governo dei singoli Paesi sia per la partecipazione alla formazione delle regole di governo dell’economia mondiale. Le istituzioni interstatali, dalle Nazioni Unite all'Unione europea, possono essere efficaci nella misura in cui lo sono i governi all’interno delle singole nazioni. Ciò li rafforza anche rispetto ai poteri regionali e locali che stavano emergendo nel quadro dell’economia globale che funzionava sulle regole delle banche. E non comportava un così accentuato ruolo dell’autorità istituzionale.

La vittoria elettorale dell’attuale maggioranza indicava già che nel sentimento del Paese prevaleva la convinzione che un declassamento del Paese a livello economico mondiale avrebbe peggiorato le condizioni di tutti. I temi della classe, della protesta, dell’anticapitalismo e della rivoluzione cadono negli anni Duemila come erano caduti negli anni Trenta. La sinistra italiana, che sulla alternativa di sistema ha sempre impostato la sua memoria rivoluzionaria in chiave postcomunista, perde le sue basi di fronte al mondo del lavoro preoccupato del sistema Paese come fondamento della sua condizione sociale.

Un altro fattore di crisi è il tema dell’immigrazione. La sinistra si è posta come partito degli immigrati e ha cercato la sua solidarietà nelle istituzioni cattoliche in questa chiave. Ma in tutta Europa il problema dell’immigrazione è sentito come un problema politico. Il diritto di emigrare ha dei limiti come il dovere di accogliere. Non si può teorizzare un diritto di immigrazione assoluto e un dovere di immigrazione assoluto. Se lo stupro è associato all’immagine dell’immigrazione in Italia, non è dovuto solo ai singoli episodi ma dal fatto che l’immigrazione, protetta dalla sinistra da parte del mondo cattolico, è avvertita come invasione. Affrontando una politica ferma sull’immigrazione regolare, il governo risponde a una necessità sentita in tutti i Paesi di immigrazione, specialmente quelli mediterranei. La legalità dell’immigrazione è giustamente impostata come fondamento della sua legittimità.

In un quadro in cui i problemi della sicurezza si pongono in modo più grave sia sul piano del governo dell’economia che in quello dell’immigrazione il governo ha diritto che l’interpretazione della Costituzione escluda la partecipazione del Presidente della Repubblica al governo e lasci piena responsabilità a quel ruolo di legittimazione della maggioranza che è il fondamento della democrazia.

La questione cattolica è stata risolta dalla nuova maggioranza con il tema della «laicità attiva» (per usare le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini), cioè del riconoscimento del ruolo della Chiesa nella società italiana. Con ciò si è superata l’idea del partito dei cattolici agitata ancora da Casini e a cui sembra inclinarsi persino la sinistra facendo di un democristiano il leader della sinistra italiana. La Chiesa di Papa Ratzinger punta sulla laicità delle istituzioni pubbliche e non sulla confessionalità di un partito.

Sono questi alcuni fattori che mostrano come la maggioranza di Berlusconi si fondi su fattori strutturali che sono emersi con la grande crisi finanziaria ma che preesistevano e che Berlusconi aveva intuito prima che essi fossero così pienamente in atto.

 
 
 

Contrordine degli ambientalisti:"Solo il nucleare salverà la Terra"

Post n°2578 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da Antalb
 

Questa è la rivincita di Enrico Fermi e dei ragazzi di via Panisperna. Le centrali nucleari non evocano più l’apocalisse, il freddo siderale di Chernobyl, le atmosfere da day after, con la neve e la polvere atomica, di certi video anni ’80. Le marce del popolo verde a Montalto di Castro sono archeologia storica. Il nucleare, quello che l’Italia ha cancellato con un referendum emotivo, non è più un tabù. Lo dicono gli ambientalisti, di tutto il mondo. Qualcosa è cambiato. Questo è il momento in cui molti ecologisti fanno outing e dicono: ci siamo sbagliati. Le centrali nucleari sono indispensabili per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Il concetto è semplice: per salvare la madre terra l’unica strada è non demonizzare il caro vecchio atomo. È quello che scrivono sull’Independent quattro inglesi «pentiti». Stephen Tindale, fino al 2005, era il direttore di Greenpeace: «È stata come una conversione religiosa. Essere contro il nucleare era il primo comandamento di un ambientalista, ma mi sono reso conto che l’energia atomica è meglio dei cambiamenti climatici». E chi sono gli altri tre? Lord Chris Smith of Finsbury non è un barone qualsiasi, ma il presidente dell’agenzia britannica per l’ambiente. Chris Goodall, uno storico pasdaran verde, e Mark Lynas, giornalista e autore di Six Degrees, i «sei gradi che possono cambiare il mondo», una sorta di cronaca sul come finiremo tutti arrosto. Questi quattro cavalieri dell’apocalisse non hanno rinnegato la propria religione, ma hanno spuntato dalla lista dei peccati mortali il nucleare. Lynas arriva perfino a dire che la moratoria sulla costruzione di nuove centrali, ora revocata dal governo di Londra, è stata un «errore enorme, per il quale ora la terra sta pagando il prezzo». Gli ecologisti si sono resi conto che l’unica alternativa al nucleare sono le vecchie centrali a carbone. Quelle che hanno riempito il cielo di nebbia verde.

Gli ecologisti, per più di vent’anni, si sono mossi nel mondo come una masnada di Savonarola. È stato il loro grande errore ideologico. Hanno trasformato la sacrosanta tutela della terra in una guerra santa, da invasati, carichi di verità assolute, di scomuniche. Questo è buono e questo è cattivo. Ma l’atomo non è il demonio e neppure la «particella di Dio». È solo l’energia più pulita e meno costosa che c’è. Ora, adesso. Come al solito è il male minore. È pericoloso se ci giochi male, se non stai attento e si porta dietro il problema delle scorie, che vanno smaltite. E non è facile. Ma questo lo sapeva anche Fermi, quando il 2 dicembre 1942 fece partire, a Chicago, il primo reattore nucleare a fissione.

La lista dei crociati pentiti è lunga. Patrick Moore, co-fondatore di Greenpeace, ha scritto un mea culpa. «Ho dovuto cancellare trent’anni della mia vita». James Lovelock, padre spirituale del «principio di Gaia», quella quasi religione olistica che adora la Terra come unico e grande essere vivente, ora sostiene: «L’opposizione al nucleare si basa su una paura irrazionale alimentata da fiction di tipo hollywoodiano, la lobby verde e i media». Stewart Brand, fondatore di The Whole Earth Catalog, assicura che lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi è «un problema sormontabile».

Qui, in Italia, ha fatto scandalo la conversione di Chicco Testa. Nel 1987 era presidente di Legambiente e fu uno dei promotori dei tre referendum anti nucleare. «Pentito? Una volta, molti anni fa, scrissi in un articolo di essermi pentito per un’opinione sostenuta. Allora ero deputato nel Pci e Pajetta mi mandò un biglietto con queste parole: un comunista può cambiare opinione, ma non pentirsi. Nelle scelte pubbliche questa parola non dovrebbe esistere. Non sono argomento di fede. Non mi piacciono gli anatemi che si scagliano contro i pentiti. E neppure le Sante Inquisizioni». Chicco Testa non si è pentito. Ha solo cambiato idea. In mezzo ci sono vent’anni senza centrali nucleari.

Tutti gli anti nuclearisti raccontano la conversione come la fine di un pregiudizio. Gwyneth Cravens, autrice di Il nucleare salverà il mondo, partecipava a tutte le manifestazioni al Greenwich Village di New York. È cresciuta a Albuquerque e da bambina immaginava montagne piene di armi nucleari, funghi atomici che avrebbero sovrastato gli altipiani e contaminato i fiumi, con l’amichetta di scuola preparava piani di evacuazione extraterrestri in caso di attacchi sovietici: «Ero terrorizzata dalla Guerra Fredda, da Chernobyl e dalle radiazioni. Poi ho scoperto i fatti, le cifre. E ho cambiato idea». La luce arriva grazie a un incontro, quello con il chimico Rip Anderson, scienziato ecologista che lavora nel laboratorio nucleare del Nuovo Messico. «Un giorno mi parlò bene del nucleare e io ero in completo disaccordo. Lui mi suggerì di andare a verificare con i miei occhi. È quello che feci». Il risultato è che il nucleare costa poco, azzera l’inquinamento da biossido di carbonio e i rischi di malattie cardio-respiratorie. L’esempio migliore è la Francia. «Il cielo francese era sporco, oggi è pulito».

I monatti della paura non fanno bene al mondo. La rivincita del nucleare, in fondo, racconta questo. La paura è terre fredde e siderali. È l’apocalisse del gelo e quella del fuoco. È il surriscaldamento e le acque che si ribellano e inondano i continenti. È il futuro prossimo venturo di Cortina con il mare. È la voglia di tirar fuori tutti i nostri incubi e poi farli diventare politica. È quel maledetto buco nell’ozono. È la primavera troppo calda o troppo fredda. È la fine delle mezze stagioni. È il bagno di qualche pesce strambo, e tropicale, nel Mediterraneo. È il cielo di Asterix, che prima o poi ti cade in testa. La fine del mondo magari è vicina, ma è meglio che non siano gli ecologisti ad annunciarla.

 
 
 

Con la crisi basta sprechi

Post n°2577 pubblicato il 23 Febbraio 2009 da Antalb
 

Fino ad oggi il governo italiano ha messo in campo risorse piuttosto limitate nel piatto della crisi. Ha iniziato per tempo, a luglio del 2008. Ha recuperato 8 miliardi per gli ammortizzatori sociali. E con il Cipe ha impostato piani infrastrutturali da miliardi. Ha messo a disposizione del settore auto un pacchetto di incentivi, che con tutta probabilità, grazie all’alta tassazione sul settore, di fatto si autofinanzieranno. Non ha fatto, quantitativamente molto, per due ordini di ragioni. La prima riguarda il vincolo del nostro bilancio pubblico, più che sufficientemente saccheggiato nei decenni scorsi. E la seconda attiene alla nostra condizione economica, meno grave che altrove. Basti pensare che da queste parti il tesoro, per il momento, non prevede di impiegare un euro dei contribuenti a difesa del sistema bancario.
La questione fondamentale del nostro bilancio pubblico non riguarda la sua dimensione, quanto la qualità della sua spesa. In Italia ogni anno vengono intermediati da Palazzo Chigi e dintorni (anche molto lontani, come nel caso degli enti locali) 750 miliardi di euro: il 50 per cento della ricchezza che gli italiani si affannano ogni dodici mesi a produrre. In una situazione di crisi, tipicamente, le entrate diminuiscono per effetto del minore giro d’affari; e le uscite si gonfiano per le maggiori esigenze di tutela sociale. Questo meccanismo da noi genera dei paradossi. Le entrate in effetti calano, ma sul fronte delle uscite non si riesce a tenere il passo. Ecco perché le richieste di protezioni, aiuti e incentivi che da più parti arrivano al Governo sono fuori luogo. Esse non fanno i conti con la radice del problema: in Italia si spende da anni troppo e quando davvero serve un po’ di spesa pubblica, le risorse mancano. In una fase come questa l’unica richiesta ragionevole che si possa fare ad un governo in carica è quella di tagliare la spesa pubblica e con il ricavato varare programmi temporanei di protezione per i più deboli.
Oggi il Giornale ha anticipato in esclusiva il piano dell’Inps per ridurre il numero dei falsi invalidi. Nei giorni scorsi si è sottolineata da più parti l’ottima decisione del Quirinale di tagliare le proprie spese. Iniziative ancora isolate, che hanno come comune denominatore il taglio delle uscite pubbliche. Ma non bastano. Il governo ha avuto fino ad oggi la forza di resistere alle sirene dello scialo impreziosito dall’emergenza della crisi, ma non deve perdere l’occasione per lasciarci una struttura dei conti migliore. Deve iniziare, anche per dare un segnale di rigore e sobrietà, dai palazzi più vicini: tagliare le spese della politica, azzerare le province, cancellare le comunità montane. Oggi ha la possibilità di spiegare agli italiani che i risparmi sono necessari per finanziare la tenuta sociale del Paese se la crisi dovesse aggravarsi e colpire duramente anche da noi. Deve procedere con la madre di tutte le riforme di spesa: cancellare la sciagurata scelta del precedente governo di abbassare l’età pensionabile che ci è costata dieci miliardi di euro. Le giovani generazioni sono talmente disilluse che non mettono più in conto di poter mai godere della pensione. Pagano contributi da usura (si pensi alle aliquote dei più deboli, i parasubordinati) e sostengono un’impalcatura di spesa folle, con scarsa, scarsissima speranza di poterne mai godere.
Si dice, e pochi lo credono più di noi, che questa sia anche una grande crisi di fiducia. Siamo passati dall’ottimismo della finanza alla più cupa disperazione. Il governo, resistendo alle pressioni della spesa allegra, ha fatto metà del suo compito. Gli resta l’altra parte. Forse la più difficile: conquistare la fiducia di una generazione che ritroverebbe nel coraggio di un governo il coraggio di lavorare e credere nel proprio futuro.

 
 
 

Ritorno al passato: la vittoria dell'apparato

Post n°2576 pubblicato il 23 Febbraio 2009 da Antalb
 

Il Time scrive che Matteo Renzi, candidato sindaco del Pd a Firenze, è l'Obama italiano. Ma questi pettegolezzi a D'Alema, Franceschini e compagni non interessano. Ora, nel Pd, contano solo le cose serie. Conta l'apparato.

Questa volta non ci sono sorrisi. Nel cuore, poche bandiere, aboliti i we can, nei capannoni grigi della Fiera di Roma ci sono facce tese e stanche che guardano, giù, verso l'assemblea dei delegati con un certo sospetto. L'era di Veltroni è passata, lui qui non c'è, chiuso in un silenzio che sa di disillusione, amaro, con tutte le ferite di chi si è sentito azzoppato in volo. Ci sono gli altri. C'è la Finocchiaro che cerca di fare gli onori di casa, come una brava mamma, prova a dire che questo è un "momento importante nella storia di questo partito". Ma nessuno più ci crede. Non ci crede il delegato emiliano che beve il caffè e bofonchia:"E' una vita che vedo momenti storici e importanti. Tutti uguali, tutti inutili, tutta melassa. Qui anche andare in bagno diventa un momento storico e importante". Davanti al cancello qualcuno aveva scritto, su uno striscione, "congresso e primarie adesso". Dentro si grida "tutti a casa" che innervosisce non poco Anna Finocchiaro:"Vorrei dire agli urlatori che l'unico effetto è di richiamare le telecamere e dare una rappresentazione falsata dell'assemblea". Questa non è la terra di Obama. Qui non si può.

Basta guardare le facce in prima fila, matrioske senza espressione, per capire che la discussione è una parola che nel Pd non è più di moda. D'Alema, Bersani, Marini, Turco si piazzano in prima fila. Rutelli più indietro. Follini si confonde in mezzo alla sala. Fassino scuote la testa. Se questo è il Pd, assomiglia davvero alla Ddr. Il colpo d'occhio ricorda certe immagini d'oltrecortina, quelle scene di triste tramonto prima della caduta del Muro, un'intera classe dirigente che vedeva la fine, ma andava avanti per inerzia, abitudine, fedeltà a qualcosa che non esiste più, perché non avevano altro da fare. Ecco, l'atmosfera ricorda Good Bye Lenin o i romanzi tragicomici di Ingo Schultz. La parola d'ordine è Ostalgia e a quanto pare anche gli ex democristiani si trovano bene in questa ricostruzione della Berlino anni '80.

La platea urla:"Primarie". I capi rispondono "nisba". La dialettica è tutta qui. Dicono che sia stato lo stesso D'Alema, con una telefonata fredda e sbrigativa, a chiudere le porte al popolo del Pd. Lasciate che Parisi vada in giro, rileggendo a bassa voce il suo discorso, tanto la storia ha già un finale. Franceschini segretario, con pieni poteri, ma a tempo determinato. Il resto sono chiacchiere. Il nuovo segretario deve traghettare il partito fino alle elezioni europee. Poi ci sarà il congresso e lì ci si scanna. Franceschini segretario precario, con un contratto a progetto, otto mesi e poi a casa. Questa è l'unica cosa vagamente di sinistra che è atterrata a Roma, zona Fiumicino. "Le primarie? - si stupisce Fassino -. C'è il rischio che siano uno strumento plebiscitario e non democratico". Serve un partito vero, insomma. Con iscritti, circoli e non solo gazebo dove si raccolgono le firme.

Le parole di Mario Draghi, governatore di Bankitalia, qui arrivano smorzate. Quello che lui dice al Forex sembra un futuro lontano:"La caduta della domanda può colpire con particolare intensità le fasce deboli e meno protette, i lavoratori precari, i giovani, le famiglie a basso reddito". Tutte cose che la sinistra tardo Ddr non ha in agenda. Non interessano. Quali sono le parole che Franceschini evoca per disegnare l'anima del Pd? Resistenza, costituzione, antiberlusconismo. Il lavoro è una variabile indipendente e se uno ha nostalgia delle lotte di Di Vittorio deve rivolgersi altrove, magari in un'intervista a Donna Assunta Almirante. Qui di precario c'è solo il segretario.

La base è stanca. Niente emozioni. L'unico momento di calore arriva quando Gad Lerner fa il capopopolo e dice all'apparato:"Non possiamo continuare a farci del male". L'apparato, questa volta, non muove una ruga. Va bene così. Non importa che sia arrivata poca gente. Dovevano essere 2.384 delegati e sono poco più di mille. I più furbi sono rimasti a casa. Non a tutti, d'altra parte, piace il wrestling. E lì, come qui, la sceneggiatura è già scritta. Fanno solo finta di chiamarlo sport.

Quando arriva il risultato non c'è nessuno che fa "oh!". Neppure Parisi, lo sconfitto. Il risultato è, chiaramente, bulgaro: 1047 a 92. Le parole di Franceschini fanno il resto. Questo signore che molti disegnano mite, o inutile, è uno cresciuto a tessere di partito. E' qui a tempo, ma decide lui. Tutte le cariche azzerate. Il governo ombra non è una cosa seria. Via anche lui. Franceschini dice:"E' inutile telefonare. Non ascolto nessuno". Bisogna serrare i ranghi. Veltroni, assente, fa sapere:"Dario è l'uomo giusto". Ma al di là delle parole c'è una cosa che appare chiara. La classe dirigente del Pd sta cancellando l'estetica veltroniana. Il "buonismo" e le belle parole non abitano più da queste parti. La democrazia dal basso fa solo confusione. La festa non è più qui. La parola d'ordine è fare sul serio. Apparire seri. Il resto non conta. Non importa questa carestia di leader, di programmi, d'identità. Quando i muri crollano bisogna mettersi tutti in fila e guardare il mondo a muso duro. Questo dice la legge della Ddr. E' quasi la rivincita di Prodi. Il riso, suggerisce l'apparato, abbonda sulla faccia degli sciocchi.

 
 
 

Crollo di un'idea: stanno insieme ma non c'è un perché

Post n°2575 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 


Se stiamo insieme ci sarà un perché, e vorrei riscoprirlo stasera, cantava Riccardo Cocciante. Anche lo stare insieme dei leader (ma non solo dei leader) del Pd dovrebbe avere un perché, ma dubitiamo che una sera possa essere sufficiente per riscoprirlo. Nel giorno in cui si discute del fallimento di Veltroni, e deinomi dei suoi improbabili successori (D’Alema è ormai un fanfaniano Arieccolo, e su Bersani ha ragione Guzzanti: sembra il Ferrini di «Quelli della notte»), sarebbe forse più opportuno spostare il dibattito dalle persone ai contenuti, alle idee, e a quel «perché».


Perché è fallito il progetto-Pd? Veltroni mercoledì s’è generosamente assunto ogni responsabilità. Ma il suo mea culpa rischia di essere fuorviante. L’impressione è che il Pd sia naufragato non a causa di una cattiva gestione, ma più tragicamente per l’assenza di una ragione sociale. Qual è infatti la ragione sociale del Pd? Quale il suo progetto di società? Quale la sua idea fondante?


Mercoledì Peppino Caldarola ha scritto sul Giornale che il Pd, così com’è stato concepito e allevato, è un partito senza identità, «non è più di sinistra ma neppure di centro, non è praticamente nulla». Verissimo. Ma ci chiediamo se avrebbe potuto essere altrimenti. Non bisogna dimenticare, infatti, che quella del Pd è una storia che non parte dalle primarie di un anno e mezzo fa, e nemmeno dalla fusione tra Ds e Margherita. Parte da molto più lontano, parte dal Partito comunista italiano, e ancor prima da un’ideologia - il comunismo, appunto - che sul mondo aveva una visione chiara, forte, precisa, dogmatica.


Il Pci era una Chiesa, e le Chiese possono anche riformarsi nella liturgia, nell’organizzazione interna e nella strategia comunicativa: ma non sulla fede. Se crolla quella, crolla tutto. Quando il Pci ha dovuto prendere atto del fallimento del suo Verbo fondante, è stato come se il Vaticano avesse dichiarato l’inesistenza di Dio. È stato, più in concreto, il prendere atto che la lotta tra le due grandi ideologie ottocentesche, il socialismo e il liberalismo, si era conclusa con la vittoria della seconda. E si era conclusa così proprio perché il liberalismo non ha una visione totalitaria sulla vita e sull’uomo,non si basa su una Verità assoluta,e quindi èriformabile. Al contrario, il marxismo- leninismo non può essere riformato.


La sinistra italiana, a differenza di quella di altri Paesi occidentali, viene da quella visione del mondo non riformabile. E quando il comunismo ha cominciato amostrare i suoi errori e i suoi orrori, il Pci ha cercato di smarcarsi, anche coraggiosamente, ma ottenendo il solo risultato di arrivare all’autodistruzione. Prima ha cambiato nome,da Pci a Pds; poi in Ds; poi in Pd, con un patto disperato con una parte degli ex nemici della Dc.


È stato un lungo processo di erosione dei propri principi e dei propri punti di riferimento. Si è iniziato con il rinnegare modelli stranieri prima esaltati; poi facendo sparire simboli e padri fondatori dal proprio Pantheon; infine accettando una visione dell’economia magari ancora un po’ statalista, ma di fatto totalmente integrata nell’una volta aborrito capitalismo.



Che cosa è rimasto di quell’Idea, di quel Dogma, di quella Fede? Nulla, e qui risuonano profetiche le parole pronunciate già quarant’anni fada Augusto Del Noce: il Pci, diceva, è destinato a diventare un grande partito radicale di massa. E infatti, in che cosa si distingue oggi il Pd se non nell’appoggio - peraltro condizionato dalla presenza dei teodem al proprio interno- a battaglie quali quelle sui cosiddetti «diritti civili» dei radicali? Ma i radicali c’erano eci sono già, senza il bisogno del Pd: e il loro pensiero è ormai largamente trasversale tra destra e sinistra.


Veltroni non ha fallito. È soltanto l’erede di un fallimento, e di un fallimento che nessun amministratore delegato sarebbe riuscito a evitare. Chi è rimasto attaccato all’Idea, e continua orgogliosamente a chiamarsi «comunista», è stato spazzato via dal parlamento per volontà popolare. Chi ha cercato di riformare l’irriformabile, ha sostituito le vecchie idee - cupe e anche terribili, machiare e forti - con generiche parole d’ordine: la solidarietà, il progresso, l’onestà. Faceva perfino tenerezza, mercoledì, vedere alle spalle di un esponente del Pd un poster con l’immagine di Berlinguer e la scritta «Nel cuore degli italiani onesti». Troppo vago, troppo vacuo, troppo poco, troppo retorico per essere un «perché» che faccia stare insieme.



 
 
 

Liberi di delinquere con la benedizione dei giudici

Post n°2574 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 

Hanno stuprato due bambine e non dovevano neppure essere in Italia. A pochi giorni di distanza da quella del tunisino di Bologna, ecco la storia emblematica del rumeno di Roma: entrambi fermati, entrambi espulsi, entrambi lasciati liberi di girare per le nostre strade. Di rubare, di rapinare, di violentare. C’è un problema? Il ventriloquo delle procure, che ha in testa solo i reati dei colletti bianchi e farnetica sull’Unità e su Raidue, lo nega e preferisce dilettarsi con i disegnini. Ma un problema c’è, grande come una casa.

Il tunisino Jamel Moamid, che ha selvaggiamente sconciato una quindicenne a Bologna la settimana scorsa, e il rumeno Loyos Isztoika, coautore della barbarie di San Valentino su una ragazzina di 14 anni, sono solo gli ultimi esempi: quando ha a che fare con gli immigrati, una larga frangia dei nostri magistrati viene colta da improvvisa magnanimità, da un inedito formalismo, da una volontà tenace di contraddire le richieste delle forze dell’ordine. «Sostenete che questo individuo è pericoloso? E io non ci credo. Volete l’accompagnamento coatto al confine? Ma nemmeno per sogno. C’è un decreto di espulsione firmato dal prefetto? E io lo cancello». Esattamente questo è avvenuto con Loyos, lo stupratore «per dispetto», al quale un giudice ha spensieratamente restituito la libertà di delinquere, mettendo delle metaforiche manette ai poliziotti che lo fermavano la mattina ed erano costretti a lasciarlo andare la sera.

Chi è l’autore del capolavoro giuridico? Non si sa, non ce lo dicono. C’è una levata di scudi se appena si propone di vietare per legge di citare i pm titolari delle inchieste, in modo da evitare di creare star più inclini a processi mediatici che giudiziari. Ma, chissà perché, in questo caso nessuno si presenta davanti alle telecamere per rivendicare la paternità di un atto per il quale sarà ricordato per sempre da una ragazzina romana e dai suoi cari. Il palazzo di giustizia di Bologna fa quadrato: nessun parli. E così non si riesce neppure a sapere chi faceva parte del collegio che ha beneficiato il tunisino, scarcerato perché, malgrado i precedenti per droga e i provvedimenti di espulsione già disattesi, non si è ritenuto esistesse pericolo di fuga o di reiterazione del reato: difatti, anziché spacciare eroina, stavolta Jamel Moamid ha preferito stuprare una giovinetta. Chi dobbiamo ringraziare? Mistero.

Chiunque sia, però, si trova in buona compagnia. Di magistrati attivamente impegnati a scardinare ogni provvedimento (sia esso del governo Berlusconi o del governo Prodi) studiato per proteggerci dagli immigrati criminali ce ne sono infatti a decine. Il nostro Stefano Zurlo ha recentemente fatto un racconto magistrale di una giornata-tipo in un tribunale: come in una catena di montaggio, i clandestini arrestati vengono processati o rinviati a giudizio e poi, immancabilmente, rilasciati. Tutti (ma proprio tutti) sanno che cosa faranno appena varcato il portone. Eppure nessuno fa nulla per impedirglielo. Salvo poi indignarsi quando l’algerino Yousef Maazi (20 tra denunce e condanne, due decreti di espulsione sulle spalle) stupra un disabile nella stazione di Milano. O quando due albanesi (clandestini, ladri, rapinatori, violentatori e puntualmente scarcerati) torturano e massacrano due custodi in provincia di Treviso. Ma c’è poco da meravigliarsi se loro, come Loyos Isztoika, come Jamel Moamid, dalla frequentazione con la nostra giustizia hanno tratto la convinzione che in Italia un immigrato, meglio se clandestino, possa macchiarsi di qualsiasi crimine senza pagare pegno.

Un sociologo di sinistra come Marzio Barbagli da anni lancia allarmi sul rapporto tra stranieri presenti in Italia e reati commessi: gli immigrati sono il 6 per cento della popolazione, ma sono responsabili del 40% delle violenze carnali, del 49% dei furti, del 24% degli omicidi, del 32% dei tentati omicidi, del 30% dei traffici di droga. Non è un problema? E non è un problema doppio se, anziché essere rigorosa, con loro la giustizia tende troppo spesso a mostrarsi «buonista»? Forse sì. Ora, con calma, qualcuno dovrebbe spiegare il tutto a Travaglio e all’Unità. Magari con un disegnino.

 
 
 

Danni collaterali: ci ha lasciato col Tonino acceso

Post n°2573 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 

Viene quasi da ridere, in questo ventunesimo secolo dove la realtà è una macedonia di frammenti, la sinistra porta il nome e il cognome di un ex poliziotto: Tonino Di Pietro. Basta poco per raccontare il miracolo veltroniano. Basta questo.


Il resto è la biografia di un fallimento. Walter Veltroni, raccontano i suoi amici, non è mai stato un lottatore. È il suo punto debole. È un uomo che deve sentirsi amato, come la versione italiana di certi poster globali. Veltroni soffre le personalità dure, decise, i cinici e i contadini. Quest’uomo era la speranza della sinistra raffinata, con una mano sul cuore e i mercatini vintage dietro piazza San Giovanni, un po’ equa, un po’ solidale, disgustata, sofferente, che mangia Sacher Torte e non va da McDonald’s, spesso ricca, come i figli di architetti, assessori e giornalisti fotografati, e scarnificati, nella Torino di Culicchia. Veltroni era il simbolo di ciò che resta di una certa cultura del Novecento, quella che si racconta moderna, ma vive di nostalgia: elitaria, oligarchica, lontana dai precari e dagli operai, velleitaria, senza carisma, con un retrogusto di muffa e di retorica. Quella con i libri giusti, in biblioteche tutte uguali, dove non spunta mai uno scrittore a sorpresa, un romanzo fuori posto. Veltroni, per questi figli del Novecento perduto, era come un vecchio amico, qualcuno che magari non ti affascina più, ma di cui ti puoi fidare.


Il fallimento di Veltroni è il segno che questa sinistra è ormai fuori dalla storia. È una finzione letteraria. È una madeleine, un club di statue di cera, che si porta dietro qualcosa di patetico, come una partita di calcio in bianco e nero, con la retorica delle magliette di lana senza sponsor e i numeri dall’uno all’undici. Tutto questo condito con una certa dose di masochismo, che ricorda l’Inter delle tante sconfitte, con i tifosi che si crogiolavano nell’etica del pessimismo. Questo è stato il Pd di Veltroni, la sua creatura. Ci aveva messo dentro tutte le parole che si possono trovare su Google alla categoria “frasi celebri”, una sorta di baci perugina della politica. Tutto spazzato via. Inutile, fragile, retorico, banale. Dannoso. Forse alla fine lo stesso Walter si è ribellato al suo masochismo e ha scelto di lasciare con una frase, questa volta, sincera: «Basta farsi del male». Il guaio è quello che resta. È il suo fallimento.


Il guaio è che questa sinistra moribonda si è lasciata succhiare il sangue, giorno dopo giorno, da un vampiro giacobino. Quello che resta, a sinistra, è Di Pietro, le sue manette, le sue piazze di comici e saltimbanchi, l’astio, il livore, le parole sempre più grezze e grosse, l’astuzia contadina, il giustizialismo. È lui l’opposizione. È la sua voglia di guerra civile. È l’antiberlusconismo come religione. Lo dice anche Di Pietro: «Noi siamo l’unica opposizione rimasta nel Paese. Quando uno non decide se essere maschio o femmina finisce per non essere nessuno». Questa è la filosofia dell’uomo di Montenero di Bisaccia (con buona pace dell’identità gay). Ecco, alla fine Veltroni è rimasto nudo, orfano delle sue maschere. Sono caduti uno alla volta tutti i suoi vestiti, come foglie d’autunno: via Obama, via Kennedy, via Clinton, Blair, Martin Luther King, Gandhi, via anche Madre Teresa di Calcutta, via il missionario, via l’Africa, via tutto. È rimasto solo lui, la maschera non voluta, l’uomo che ha cannibalizzato i suoi voti, le sue tante identità, la sua visione del mondo. È rimasto il poliziotto, il pubblico ministero, quello con l’indice alzato e la forca all’orizzonte. Veltroni è riuscito a cancellare anche l’odore della sinistra. È questo il suo più grande, paradossale, assoluto fallimento. Sognava Obama e ha partorito Di Pietro. Qui finisce l’avventura di Walter Veltroni. Lui magari andrà in Africa e lascia l’Italia con un Tonino acceso tra le mani.

 
 
 

Il voto sardo: il Pdl ha sfondato, ora Berlusconi è ancora più forte

Post n°2572 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 


Le elezioni sarde consentono due giudizi, ambedue significativi per la sostanza della politica italiana. Il primo è che una sinistra incardinata sul partito postcomunista non è più una forza di governo in Italia, nonostante sia rimasta la sua egemonia sulla cultura politica del Paese, anche nel mondo cattolico. La seconda affermazione che le elezioni sarde confermano è che la chiave della maggioranza del centrodestra è legata alla leadership di Silvio Berlusconi. I due giudizi dicono cose diverse, perché il primo potrebbe essere vero anche se non fosse vero il secondo. E la speranza di Casini e ora di Fini e un po' meno di Bossi è stata quella di fissare un’identità politica all'interno della maggioranza berlusconiana ma distinguendosi dal leader. Anche questa è fallita.


Il partito postcomunista si è spaccato tra la sinistra antagonista nelle sue varie forme e una rete di poteri locali in cui le stesse riforme introdotte dalla sinistra hanno finito per determinare la frantumazione del partito nelle reti di interesse dei vari assessorati. La politica della sinistra postcomunista si è spaccata tra un anticapitalismo astratto e un potere corrotto.


Il tentativo di Veltroni di nascondere questa spaccatura della figura del Partito democratico lo ha condotto paradossalmente a eliminare la componente cattolica dossettiana ancorata alla Costituzione come mito fondatore e che aveva pensato con Arturo Parisi a un Partito democratico come partito della Costituzione. Veltroni pensò di poter fare un partito neoliberale fondato sull'immagine del leader e sul suo linguaggio come diverso rispetto alle componenti politiche del Pd. Cercò di produrre una leadership personale che andasse oltre le componenti politiche strutturate che costituivano la sostanza del Pd per fondare un’alternativa a Berlusconi con Veltroni omologo a Berlusconi. Il suo tentativo significava nascondere sotto il suo volto la disgregazione ideale e pratica della sinistra. Essa ha cessato con Veltroni di essere un’alternativa di governo: e perciò la maggioranza di Berlusconi è l'unico governo possibile che abbia oggi il Paese.


La seconda notizia che viene dalle elezioni sarde è che Berlusconi va. E che nelle zone in cui è forte la crisi economica il consenso è maggiore. La grande crisi del sistema che attraversa il mondo pone l'accento sui governi nazionali, sul sistema Paese. Sia l'Unione europea che le Nazioni unite sono quadri istituzionali che divengono operativi solo a partire dagli Stati nazionali e da quello che essi decidono. Quando il capitalismo entra in crisi, le alternative rivoluzionarie e sociali perdono il loro fascino innanzi al problema della conservazione del livello di vita. Accadde negli anni Trenta del Novecento, accade negli anni Duemila.


Berlusconi si fonda su un chiaro mandato popolare che le elezioni sarde hanno riconfermato in occasione di una sfida proposta da un uomo credibile come Renato Soru, ancora più imperniato sul tentativo di riprodurre a sinistra una imitazione di Berlusconi. Ciò mostra che il nesso della leadership tra popolo e governo è la chiave in cui la democrazia può affrontare la crisi mondiale del sistema economico. Le elezioni sarde gettano luce sulla maggioranza di governo in cui sia Bossi che Fini hanno messo l'accento sulle differenze da Berlusconi. L'unità della maggioranza consente le differenze, ma chiede la loro composizione nell'unità della leadership.


Il presidente della Repubblica deve tenere conto di una realtà che si impone con urgenza del suo esistere e chiede al sistema costituzionale di accettare le novità che il nesso democratico tra leadership e maggioranza popolare impone e che la crisi del sistema economico rende necessaria.


 
 
 

L'assurda condanna: mistero, Mills corrotto senza mazzette

Post n°2571 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 


Verrebbe da sostenere che David Mills se la sia meritata, quest’assurda condanna a 4 anni e sei mesi: ma sarebbe, oltreché poco serio, ingiusto. Il problema, non da poco, è che David Donald Mackenzie Mills si è rivelato un imputato così disastroso da far pensare che le ragioni della sua condanna possano risiedere nel suo comportamento processuale: stiamo parlando di un uomo, rammentiamo, che ha dato infinite versioni della vicenda che lo riguarda. Leggere le motivazioni della sentenza, per il resto, sarà quantomeno istruttivo: il giudice Nicoletta Gandus dovrà spiegare come sia possibile condannare un uomo per corruzione nonostante l’accusa non abbia prospettato di quali soldi si parli, di quanti soldi, dati da chi, quando e persino perché.


Sino a poco tempo fa il pm Fabio De Pasquale ancora ammetteva che «per accertare l’effettiva provenienza dei fondi risulteranno prevedibilmente necessarie ulteriori ricerche», ma da allora non è cambiato niente. Di questi 600mila dollari che Mills avrebbe ricevuto per essere reticente in due processi, al dunque, non esiste traccia riconducibile a Berlusconi e a nessun altro ipotetico corruttore. Nelle varie udienze si sono succedute cifre e analisi tecniche per la noia dei cronisti che non ne potevano più, e che a loro volta hanno dovuto ammetterlo: qui non c’è niente, si parla di assassinio ma non c’è il morto.


Che cosa c’è, allora? C’è, anzitutto, una condanna che permette di impiccare lo status morale di Berlusconi allo status giuridico di Mills: questo nonostante Berlusconi non sia ancora stato processato (per via del Lodo Alfano) e nonostante il collegio che lo processerà non potrà essere lo stesso che ha condannato l’avvocato inglese. E' stata una sentenza suicida che qualsiasi Appello dovrebbe ragionevolmente smontare: anche perché la sortita del pm Fabio De Pasquale di postdatare la commissione del reato a marzo del 2000, così da evitare la prescrizione, non sta insieme neppure con lo sputo: e ne convengono davvero tutti. È lecito credere che il processo vada comunque in prescrizione, insomma, ma nondimeno che la cosa sia stata calcolata: così da poter dire, minore dei mali, che un’altra prescrizione abbia salvato Mills e di riflesso Berlusconi.


David Mills ha denotato una condotta che definire maldestra è cosa gentile. Trattasi, ricordiamolo, del creatore della galassia di società che gestiva il comparto estero di Fininvest: dunque l’amministratore della processatissima società All Iberian. Ecco: il pm Fabio De Pasquale l’ha accusato di reticenza, ma le testimonianze di Mills al processo All Iberian non furono contestate dall’accusa, bensì dalla difesa: Silvio Berlusconi, cioè, in primo grado fu condannato anche per quanto detto da Mills. Da qui, inevitabile, una prima difficoltà a credere che Berlusconi possa averlo ricompensato per una condanna. Mentre è indubbio, al di là di questo, che Mills abbia combinato degli incredibili pasticci.



Le certezze restano poche. È accertato che Mills a un certo punto ebbe la disponibilità di una certa cifra, e che su di essa non voleva pagare le tasse. La provenienza di questa cifra, morale, non è stata accertata. È accertato che Mills chiese la consulenza di uno dei suoi commercialisti, Bob Drennan, e gli lasciò una lettera dove scriveva o inventava che la cifra in questione corrispondeva al regalo di un certo Carlo Bernasconi, un premio a seguito di alcune testimonianze rese in due processi italiani. La lettera finì poi al Seriuos Fraud Office, l’antiriciclaggio inglese: che chiese spiegazioni a Mills. E da qui le versioni di quest’ultimo cominciano ufficialmente a pazziare.


Mills dapprima parlò di un ringraziamento per una dritta speculativa su alcuni fondi: ed è la seconda versione. La terza potrebbe essergli costata la condanna, e la diede alla Procura di Milano il 18 luglio 2004. Interrogato per più di dieci ore, Mills crollò ufficialmente, tirando in ballo Berlusconi. Dove? Come? Altro assurdo paradosso: non lo spiegò, e i pm non glielo chiesero. Senza contare che una versione ancora diversa, e inquietante, Mills la fornì al Daily Telegraph: disse che i magistrati l’avevano inquisito con cattiveria sino a fargli dire, estenuato, «Scrivete qualcosa e io lo firmerò». Una versione ancora diversa, ma ricorrente, Mills la ripropose poi ancora al Fisco inglese: con cui definì, perlomeno, la sua vertenza. Morale: pagò le tasse su quella famosa cifra, i 600mila dollari. Pagò le tasse su una cifra, cioè, che gli investigatori inglesi non hanno ritenuto fosse di provenienza illecita. Il fisco inglese ha creduto a Mills, insomma, e i magistrati italiani no.


La versione finale, una volta regolato il fisco, Mills l’ha immortalata in una memoria per il processo finito martedì: quei soldi, scrisse, li aveva avuti da tal Diego Attanasio, un armatore italiano. Seguiva copiosa documentazione a riguardo, nonché scuse personali a Silvio Berlusconi per averlo coinvolto. «Sono un idiota, non un malfattore» ha detto Mills di recente. Da credergli ciecamente, in ogni caso.



 
 
 

America sotto choc: l'islamico "buono"? Decapita la moglie

Post n°2570 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da Antalb
 

Quando è nata nel 2004, Bridges Tv, nel senso di «ponti», aveva un obiettivo ambizioso, che oggi suona in tutta la sua falsità: affermare la comprensione fra culture e popoli diversi, diventare una forza unificante per aiutare gli altri a comprendere il nostro mondo, attraverso l'educazione e l'intrattenimento, contribuire al superamento dei pregiudizi degli americani verso gli islamici, intensamente e giustificatamente forti dopo l'11 Settembre del 2001. Oggi sul sito web della televisione tutte le certezze sono oscurate da un testo unico che esprime grande tristezza per la morte della cofondatrice e chiede rispetto per il dolore privato della famiglia. Alla faccia della promozione della civiltà dell'islam, differente ma altrettanto valida di quella occidentale, l'altro fondatore della rete televisiva ha decapitato la moglie e socia, colpevole di aver denunciato il marito per violenza domestica e subito dopo di aver chiesto il divorzio. L'uomo, quarantaquattro anni, fiero esponente della comunità musulmana di Buffalo, nello Stato di New York, per capirci dove stanno le cascate del Niagara, aveva aperto una televisione specializzata in programmi musulmani in lingua inglese con la moglie. Ha avvisato lui stesso la polizia che lo ha naturalmente arrestato, ma non ha ancora trovato l'arma del delitto, dettaglio non trascurabile visto che la povera donna è stata decapitata, secondo l'interpretazione più tradizionale del Corano, quale giusta punizione delle donne fedifraghe, delle donne che osano denunciare le sevizie inferte loro dagli uomini. Il corpo della vittima, Assiya Zubair Hassan, di 37 anni, è stato trovato nella sede della Bridges Tv a Orchard Park, dove la donna continuava a lavorare. Muzzammil Hassan ha chiamato la polizia di Buffalo e ha riferito di aver ucciso la moglie, Assiya Hassan, trentasette anni. Il 6 febbraio la donna aveva chiesto il divorzio dopo aver denunciato di essere regolarmente picchiata dal marito, e la polizia aveva diffidato Hassan dall'avvicinarsi alla loro casa di Orchard Park. La coppia aveva due figli, di quattro e sei anni, ma Hassan ha altri due figli, diciassette e diciotto anni, da un precedente matrimonio. È successo giovedì scorso, e la notizia non sarebbe probabilmente uscita dalle cronache di Buffalo news, se le donne della più importante associazione femminista americana, la Now, National organization for women, non avesse denunciato la scarsa attenzione data all'omicidio, a causa di quella che hanno definito «una cultura di subordinazione delle donne agli uomini», e «una sorta di versione terroristica del delitto d'onore». Proprio così, l'assassino ha agito perché la denuncia e l'abbandono della donna lo avevano disonorato, e solamente la vendetta personale, l'omicidio per decapitazione, potevano sanare la tremenda onta. Hassan ha agito seguendo la legge sacra di Maometto, e nonostante abbia chiamato lui stesso la polizia, non si ritiene colpevole, perché non accetta le leggi dello Stato che lo ha accolto e gli ha dato residenza e cittadinanza. Ad Assiya Hassan non è servita la protezione delle leggi e della forza legale di un Paese che l'aveva accolta, né il ricorso alla giustizia alla quale si era, da americana, rivolta fiduciosa. Per tutti e due, carnefice e vittima, non sono bastati né l'appartenenza a una fascia influente e benestante della società, né la scelta di occuparsi di informazione, addirittura con l'intento di avvicinare due culture fra di loro, a evitare che uno fosse un marito prevaricatore, violento e alla fine assassino, l'altra una donna maltrattata, seviziata e alla fine giustiziata. Il volto umano dell'islam si è mostrato nella sua nudità a Buffalo come fa in qualunque luogo d'Europa. La legge sacra deve essere superiore a quella di qualunque Stato sovrano, non c'è emancipazione che possa affrancare il credente dall'obbligo di obbedienza. Che dietro queste ragioni si nascondano agevolmente gelosia, possesso, volontà di dominio verso le donne, conta meno. Di questo dobbiamo ricordarci quando si improvvisano preghiere nelle nostre piazze, davanti ai nostri palazzi istituzionali e alle nostre chiese, prima che sia tardi sul serio.

 
 
 
 
 

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