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Il dilemma tra natura e cultura (terza parte)

Post n°49 pubblicato il 31 Agosto 2007 da Giubizza

Identitarismo contro paritarismo
Anni fa in un corso di formazione a cui partecipai ebbi il piacere di discutere con un mio amico e collega riguardo un libro che lui stava leggendo. Il libro si intitolava “Comunitari e liberal, lo scontro del prossimo secolo?” (eravamo nel 2000). Detto in modo semplicistico all’ennesima potenza, il libro trattava di due atteggiamenti, due modi di rapportarsi col mondo, uno, quello comunitario, che prende come riferimento le caratteristiche specifiche della propria comunità (o categoria se vogliamo metterla in senso più generico) mentre l’altro, quello liberal, proporrebbe un modello universale considerato come il non plus ultra del modo di essere uomini ed essere liberi. Si tratterebbe però più che di un vero e proprio modello, di un meta-modello. Quello liberal è solo una serie di principi che lascia la libertà a ognuno di scegliere il proprio modo di essere e di rapportarsi col mondo indipendentemente dalla propria naturale categoria di appartenenza. Questo mentre invece il modello comunitario suggerirebbe di rispettare e conformarsi al modo di essere della categoria a cui l’individuo appartiene.
Cosa c’entra col discorso tra natura e cultura? C’entra perché non di rado i “comunitari”, per oggettivare e sublimare le proprie argomentazioni, fanno ricorso alla visione naturalista dell’essere umano, mentre invece i liberal intendono svincolare l’essere umano dall’ordine naturale e affidarlo alla propria libera scelta dettata più dal contesto sociale. Per i “comunitari” (e non solo: http://xoomer.alice.it/giubizza/pezzo01.htm) questa libertà può però essere una nuova trappola che da una parte renderebbe gli individui dei meri numeri in balìa delle mode della società consumistica e dall’altra li abbandonerebbe a se stessi senza una guida e senza una vera libertà.
Ma qual è l’origine di questi due atteggiamenti? Nel medioevo non esisteva una distinzione tra naturale e divino. Ciò che era naturale era considerato opera divina e ciò che era divino si esprimeva in maniera visibile nella natura. Solo con l’avvento della scienza moderna, per l’appunto definita scienza della natura, si iniziò a concepire la natura come un sistema a sé stante e concettualmente indipendente dall’ordine divino. Il tutto aveva una funzione rivoluzionaria: porre una visione del mondo alternativa e più avanzata, più profonda, più raffinata, rispetto a quella tradizionale.
Col tempo però, una volta impostosi il sistema naturalistico, questo assunse finalità conservatrici. Al posto dell’ordine divino si poneva come sacro e inviolabile l’ordine naturale delle cose. Gli individui occupavano un certo posto, avevano un certo atteggiamento, erano sottoposti a determinate cose, non per volontà divina, ma per uno stato di natura del mondo. Al concetto di anima e destino tracciato da dio si sostituì quello di eredità biologica e natura umana. Ma in sostanza tutto tornò come prima.
Nacque pertanto l’esigenza di stravolgere ulteriormente le carte. Così molte correnti di pensiero iniziarono a concepire l’Uomo non più come prodotto della natura, ma della società. L’Uomo è ciò che viene a essere in base ai condizionamenti che la società gli incute e gli impone e non ciò che è. Perché sia ciò che è bisogna fare in modo che egli sia consapevole di tali condizionamenti o che questi si riducano il più possibile oppure, per la gran parte, che siano input corretti e non alienanti. Con gli input sociali adeguati si può formare un tipo di Umanità più avanzata e civile. Questa visione ha poi portato a quella moralistica da una parte (che per la precisione affonda le radici anche in varie dottrine religiose) la quale affida all’educazione individuale la soluzione alle problematiche sociali, migliorando gli individui si milgiorala società in quanto questa è la somma degli individui che la compongono. Dall’altra parte invece vi è quella di tipo collettivistico rivoluzionario o riformistico che si dà a una programmazione di rinnovamento socio-economico di tipo rivoluzionario, ma anche riformistico. Secondo tale impostazione la società è qualcosa di più del semplice insieme dei soggetti che ne fanno parte, essa ricomprende anche i rapporti che questi hanno tra loro e con tutto l’ambiente socio-economico e culturale.
Fin qui abbiamo sintetizzato per sommi capi e in maniera molto semplicistica (esageratamente direi…) l’evoluzione dei due sistemi di pensiero socio-umanitario. A fianco a queste e spesso intrecciate ad esse vi sono i due atteggiamenti, comunitari e liberal, di cui ho detto sopra. I due termini indicano il rapporto tra la comunità etnica di appartenenza e gli individui che ne fanno parte, io invece preferisco allargare il discorso alla categoria di appartenenza in generale e non limitarmi solo al contesto etnico. Utilizzerò pertanto i termini “identitarismo” ed “egualitarismo” interessandomi di come questi due atteggiamenti hanno interpretato il processo di liberazione ed emancipazione di categorie considerate sottomesse in rapporto alle categorie considerate dominanti. La questione della sottomissione reale o presunta è alquanto controversa e la lascio stare affidandomi al banale senso comune.
Dunque, l’identitarismo starebbe ad indicare l’esaltazione e la conservazione delle specificità della propria categoria di appartenenza, mentre l’egualitarismo invece rappresenta la rivendicazione di uguaglianza tra le categorie sottomesse, o considerate sottomesse dal senso comune, le quali troverebbero la propria via di liberazione e di emancipazione attraverso la propria parificazione con le categorie dominanti o considerate dominanti dal senso comune. Insomma mentre l’eugualitarismo vede l’emancipazione nell’essere o divenire uguali agli attuali o vecchi dominatori, l’identitarismo invece vede l’emancipazione come la libertà di esprimere la propria identità, nel liberare il modo di essere a seconda della propria categoria di appartenenza.
L’egualitarismo era per lo più predominante fino alla caduta dell’Unione Sovietica. Il crollo del gigante sovietico e il successivo periodo che ha visto un certo fallimento delle politiche economiche volte a imitare e seguire i diktat dei paesi occidentali, la delusione che l’imitazione dei modelli di vita occidentali ha comportato nei paesi dell’est europeo, nel terzo mondo e nel mondo intero, anche nello stesso occidente, tutto questo ha comportato la crisi del mito dell’industrialismo “buono”, del paradigma dei modelli di civiltà e di avanguardia e roba del genere. Così se prima i paesi coloniali dovevano imitare il modello di sviluppo dei paesi più avanzati, se le donne dovevano essere come gli uomini, i neri come i bianchi, gli “schiavi” come i padroni, da circa una ventina di anni tutto è mutato. Se prima si rivendicava il diritto a essere uguali, a ripercorrere le stesse strade e gli stessi modi di essere, ora si è scoperto il diritto a essere diversi, a ripercorrere proprie strade e propri modi di essere. Così i popoli coloniali non devono essere come i paesi avanzati ma a modo proprio, le donne non devono essere come gli uomini, i bianchi non come i neri, gli “schiavi” non come i padroni e così via.
E datosi che i vecchi o attuali dominatori o “dominatori” sono ora i cattivi di turno e che c’è sempre la tendenza a sublimare il tutto, ecco che il modo di essere dei dominati o dei “dominati” diviene la bontà per eccellenza. Così la cultura e la visione del mondo dei popolo coloniali sono più aperte, rispettose e civili di quelle dei paesi avanzati, la psiche e la sessualità femminile sono più “compless(at)e” e “complete” di quelle maschili, le qualità psicofisiche dei neri sono migliori di quelle dei bianchi, la tempra degli “schiavi” è superiore a quella dei padroni e via cantando. E chi osa contraddire tali “verità” allora è razzista, maschilista, imperialista, misogino, schiavista etc. E come se non bastasse l’esaltare una parte bisogna anche denigrare l’altra. La denigrazione nasce da diverse “teorie” tra cui quella più o meno vera o più o meno presunta che afferma che il rapporto di dominio impoverisce sotto molti aspetti il dominatore mentre arricchisce il dominato. Nel rapporto di domino insomma, mentre il dominato si vedrebbe costretto ad affrontare la dura realtà e a sviluppare strategie di gestione della propria vita più complesse e ricche, il dominatore si curerebbe solo di conservare il proprio dominio e ricavarne dei vantaggi. Così si “spiegherebbe” la grettezza e la rapacità vera o presunta dei paesi avanzati, del genere maschile, dei bianchi, dei padroni e così via. Modi di essere, insomma, non più da imitare ma da cui allontanarsi. Anzi sono i vecchi e nuovi veri o presunti dominatori a dover essere “rieducati”…
Grosso modo l’atteggiamento identitarista fa uso della visione naturalista, questo ovviamente quando può permetterselo, in quanto è un po’ difficile sostenere che un operaio o un bracciante agricolo sia geneticamente diverso dal suo padrone. Mentre invece l’atteggiamento egualitario si rifà alla visione sociale sostenendo che le differenze sono in gran parte prodotto della sottomissione e funzionali a queste, quando tra le categorie in questione c’è stato da sempre un rapporto, o invece costituiscono segno di arretratezza da superare, quando le categorie in questione non sono sempre state in contatto tra loro e il rapporto vero o presunto di dominazione è piuttosto recente. In effetti nel primo caso costituisce un paradosso voler conservare tutte le caratteristiche della categoria considerata sottomessa e liberata, sarebbe come un galeotto che rivendica la sua divisa da carcerato anche quando è stato liberato.
C’è anche da dire che tale correlazione non è che sia poi tanto necessaria, e in effetti non sempre esiste, in quanto una certa caratteristica può voler essere conservata o superata indipendentemente dal fatto che sia naturale o sociale. Ma c’è comunque una vaga tendenza a identificare col naturale tutto ciò che è immodificabile e per sociale tutto ciò che è da modificare, e così il ricorso a una visione o a un’altra rafforza le tesi a sostegno dell’uno o dell’altro atteggiamento.
I punti deboli di tali impostazioni consistono secondo me in primo luogo nel prendere come punto di riferimento costante l’altro, il modo di essere che pertiene l’altra categoria e non se stessi o le proprie aspirazioni, come si è in realtà o in potenza. Il ragionamento, che sia “io sono uguale” o “io sono diverso”, che sia “io devo essere uguale” o “io devo essere diverso”, si riferisce sempre all’altro e mai in un modo di essere secondo le proprie esigenze, le proprie caratteristiche, le proprie aspirazioni. E ciò ricomprende anche una certa obbligatorietà in quanto il concetto è che bisogna essere in un dato modo, riferito all’altro.
Altro punto debole è la netta catalogazione di tutto un insieme di variabili che non per forza devono farsi ricomprendere in gruppi monolitici. Non è detto che una persona sia di tipo A o di tipo B, una persona è se stessa e basta. È ovvio che molte cose prendono per forza spunto da input esterni, ma ognuno deve scegliere “usi” e “costumi” confacenti a se stesso e non farsi imporre conformazioni di qualsiasi tipo. È ovvio altresì che questa autoreferenzialità non deve trasformarsi in una chiusura a riccio, bisogna essere aperti anche verso gli altri, verso le proprie esigenze, ma è sempre il proprio “sé” che deve in qualche modo “decidere” come esprimersi e formarsi.
Forse questo mio ragionamento mi farà etichettare da qualcuno come un “liberal”. Fa niente, non mi offenderò per questo.

Natura contro natura
Faremo quindi bene a chiederci che, se è vero che magari abbiamo una struttura psichica ben definita dalla nascita, perché desideriamo comunque mutarla? Perché desideriamo essere diversi da quel che siamo? Perché sogniamo una natura diversa dalla nostra? Perché desideriamo essere privi di quegli istinti che non a caso definiamo “negativi” come la violenza, la voglia di prevaricazione, la volontà di potenza (intesa in senso negativo)?
Una strana natura quella umana, una natura che nega se stessa, che continuamente vuole mutarsi e rinnovarsi. Una natura che da una parte si esprime in un modo ma che però desidera non essere in tal modo. Che la maggior parte dei nostri problemi derivi da questa nostra duplice natura? Una natura composta da istinti che si esprimono in maniera che non piace ad altre “parti” della nostra stessa natura. Faremo quindi bene a chiederci se la nostra non sia una duplice natura, che il sogno e l’utopia non facciano parte di questa nostra struttura e pertanto anche nell’ottica del naturalismo non vada respinta e soppressa.
La nostra natura è quindi una corda tesa tra conservazione e mutamento, tra reazione istintiva agli eventi e pianificazione per il miglioramento della situazione globale, tra l’aridezza della realtà e la dolcezza del sogno, tra una posizione di partenza e un traguardo da raggiungere.
Chi ha detto che la ragione non è un istinto? Che l’apprendimento non fa parte del nostro istinto? Che le predisposizioni innate non siano modellabili con facilità? Magari esistono predisposizioni più forti e meno forti, di diversa gradazione. Magari la razionalità è quell’istinto, quella parte di nostra natura che coordina, corregge e integra una buona parte del tutto.
E per quanto riguarda la “definizione” dei nostri istinti, del loro esprimersi in maniera definita in quanto così strutturati oppure in quanto definiti dall’ambiente circostante? Qui bisogna considerare che noi siamo una specie con una vita sociale complessa e con una grossa massa cerebrale preposta all'apprendimento. Quindi fino a che punto la nostra specie avrebbe convenienza ad avere individui con spinte innate e fino a che punto invece lasciar fare all'apprendimento.
Voglio dire: un orso solitario ha bisogno di spinte innate perché non ha una vita sociale che gli insegni i comportamenti idonei a garantire la propria sopravvivenza e riproduzione. Così anche molti tipi di insetti, come le api e le formiche, in quanto non hanno una grossa massa cerebrale e inoltre fanno sempre le stesse cose da milioni di anni.
Ma gli esseri umani, con una vita sociale dinamica e varia, con una grossa massa cerebrale, fino a che punto hanno la convenienza biologica ad avere un numero eccessivo di istinti innati e definiti in modo preciso e fino a che punto invece hanno la convenienza biologica a lasciar fare alla società? In fondo i comportamenti finalizzati alla sopravvivenza e alla riproduzione possono essere anche facilmente acquisiti e così sarebbero più "elastici" e più adattabili ai vari contesti.
Ma forse è anche necessario avere un certo bagaglio di input innati datosi che non di rado conduciamo vita solitaria e non tutto può esserci tramandato dalla società. Ma nessuno ci vieta di pensare che tali input possano essere molto mutabili. Se si benda un occhio a un gatto l’area visiva della sua corteccia cerebrale non formerà le striature in cui si incrociano le aree di competenza dei due occhi. Ma queste striature si formano però se si bendano entrambi gli occhi. Sono parte di un programma innato che si forma senza input ambientali, ma che si modifica con questi con relativa semplicità.
Noi stessi entriamo spesso in conflitto con le nostre esigenze, saltiamo i pasti, ci sottoponiamo a ferree discipline pur d raggiungere dei fini senza i quali la nostra esistenza non avrebbe senso. Si, è vero che in gran parte siamo costretti a fare tutto questo per necessità, come per esempio per motivi di lavoro, di cui magari ne faremo volentieri a meno, ma non di rado siamo costretti a reprimere alcuni aspetti della nostra natura per esaltarne altri. E l’educazione ci spinge a fare altrettanto. Pare proprio che la natura non sia un sistema lineare e coerente, ma composta da varie parti spesso in lotta tra loro. E il processo utopistico è una di questa parti come quella attinente l’ordine e gli istinti più basilari. Forse tra i più importanti e da non reprimere né da prendere sotto gamba. La stessa religione costituisce un’utopia, seppure di stampo metafisico e non sociale e immanente alla storia.
Quindi non è tanto l’utopia in sé ma come viene perseguita a essere dannosa, quando pochi oligarchi vogliono imporla ad ogni costo e quando questa smarrisce la sua funzione di guida ideale e di luce in fondo al tunnel. Bisogna si gestire il dato, ma in questo dato va ricompreso anche il cambiamento, un cambiamento che non va né frenato, né imposto e né subito passivamente, ma guidato verso il soddisfacimento massimo dei bisogni umani.
L’utopia deve quindi essere un sogno che si propone e non si impone, così come la realtà deve essere una base che non debella il sogno. Voler imporre il sogno, trasformarlo in un mito che distorce la realtà anziché colorirla, che forza lo stato di cose invece di plasmarlo, fa in modo che questo sogno venga poi spazzato via. E quando l’uomo non ha più sogni, non ha più miti che gli danno senso, perde la parte considerata comunemente più nobile e più pura di sé. Ma è soprattutto necessario che ogni utopia sia la NOSTRA utopia.
Modellare la propria natura può essere cosa giusta e buona se non fatta con imposizione ma per una scelta piuttosto libera. Bisogna però tenere conto che fare dei passi verso il mito comporta comunque il rischio di errori, e questi devono essere a loro volta un insegnamento e non uno scoraggiamento per il nostro cammino.
Partorire utopie, coltivarle, muoversi verso di esse può costituire uno dei bisogni umani più basilari. Sia a livello individuale che collettivo una certa opzione, una data strada da intraprendere dovrebbe essere scartata solo se ne è verificata la sua nocività, ma ci si dovrebbe anche muovere per realizzarla solo dopo averne attestato la non nocività, o la sua necessità o vantaggiosità e il fatto che gli svantaggi che può comportare non siano troppo radicali per l’essere umano. Un duplice controllo, quindi, a livello sia ideale che in corso di realizzazione, ma che ad ogni modo non escluderà mai del tutto la possibilità di errore per cui bisogna sempre essere preparati.
È giusto che un certo prudente rispetto verso la nostra natura non si trasformi in pigrizia verso il cambiamento, ma è anche giusto che il sogno, l’utopia, non si trasformi in un incubo.
 
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Postato da Giubizza su Il blog di Giubizza il 8/31/2007 10:08:00 AM

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