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Il dilemma tra natura e cultura (seconda parte)

Post n°50 pubblicato il 31 Agosto 2007 da Giubizza

Basi e principi dei due sistemi
Ma anche il sistema sociologico ha dei suoi principi base. Questi si fondano sul fatto che l’essere umano sia fondamentalmente buono e tutto ciò che c’è di cattivo, come la spinta alla violenza per esempio, è dovuto alla necessità di affrontare ostacoli e difficoltà che si frappongono al suo pieno sviluppo e al soddisfacimento delle sue esigenze. Pertanto questa linea teorica assume alla propria base un’idea di essere umano costituito si da pulsioni innate, ma che sono fondamentalmente buone e pacifiche, che però lo predispongono ad affrontare molte contingenze ricorrendo anche alla violenza, ma una violenza però che è risposta alla costrizione e alla repressione della natura pacifica. Questo mentre invece i sistemi naturalistici sostengono che la spinta alla violenza sia molto meno “condizionata” e “spontanea” e possa sorgere anche in assenza di circostanze che facciano particolari pressioni, magari per conservare il proprio status quo.
In effetti la costruzione di società gerarchiche e suddivise in classi, la costituzione di coppie eterosessuali per l’allevamento dei bambini e la suddivisione di ruoli in base al sesso sembrerebbero le caratteristiche fondamentali della società umana basata su un ordine naturale che rispettano quella natura umana sostenuta dal naturalismo. Mentre invece solo l’istinto alla socialità, alla comunicazione, alla condivisione e il bisogno di agire per la comunità ed essere accettati dagli altri, a inseguire il piacere e fuggire il dolore caratterizza il concetto di natura umana concepita dai sociologisti.
Quindi mentre per i primi gli esseri umani tenderebbero per natura a fondare gerarchie competitive, per i secondi invece no. Da qui la diversa concezione del contesto che avrebbe caratterizzato l’epoca di maggiore evoluzione dell’Umanità, ossia la tribù di cacciatori e raccoglitori, epoca durata milioni di anni contro i pochi millenni di storia agricola e industriale. Secondo il naturalismo nelle tribù esistevano già gerarchie competitive, gruppi interni in lotta tra loro e coppie monogamiche. Invece gli altri sostengono che le tribù primitive fossero caratterizzate dall’assenza di competizione interna, seppure vi fosse stata una specie di gerarchia, questa sarebbe stata fondata sul rispetto e l’autorevolezza e non sulla competizione. Inoltre questa impostazione teorica sostiene che le coppie monogamiche siano state un parto della società agricola e che nella tribù primitiva non avevano alcun motivo di esistere. Infatti sembrerebbe che la tribù tipo fosse di tipo matrilineare, secondo alcuni addirittura “matriarcale” e quindi fondata sulla gens matriarcale. I bambini erano educati da tutti i maschi e tutte le femmine della gens e della tribù e non dai genitori naturali i quali anzi non avevano alcun interesse a occuparsi in linea esclusiva dei propri figli, ma preferivano occuparsi, assieme a tutti i membri della gens e della tribù, dei figli di tutta la gens e tutta la tribù. Il fatto che tali tipologie di tribù siano piuttosto minoritari oggi per i naturalisti è dovuto al fatto che si tratterebbe di un sistema poco competitivo da un punto di vista evolutivo, come abbiamo visto sopra, mentre i sociologisti affermano in genere che oggi si sono estinte per motivi di evoluzione sociale, ma in passato costituivano il modello tipo dei popoli tribali.
La coppia monogamica sarebbe quindi sorta con la rivoluzione agraria, quando a seguito dell’appropriazione privata di fondi agricoli da parte di singoli guerrieri, questi avrebbero avuto l’interesse di isolare la propria femmina o le proprie femmine dagli altri maschi, allo scopo di essere sicuri di tramandare il proprio patrimonio ai figli biologici.
In effetti, come già abbiamo avuto modo di vedere, il ragionamento fila, ma non si spiegano però bene i presupposti su cui a un certo punto gli uomini abbiano abbandonato la proprietà comune della terra e delle donne e imbracciato la strada dell’appropriazione privata. Cioè un spiegazione ci sarebbe e cioè che l’aumento della popolazione modifica sempre il rapporto popolazione/risorse e questo cambiamento nel rapporto spinge a cambiare i sistemi di produzione. Ma perché l’ossessione a impossessarsi della terra e del bestiame in linea privata? E perché quella di tramandarla ai propri figli biologici? Devono esservi quindi delle basi naturali che devono aver spinto i nostri antenati a intraprendere un certo cammino.
Infine contro il sociologismo ci sarebbe da dire che le sue teorie spesso fanno capo al materialismo dialettico di ispirazione marxiana (http://it.wikipedia.org/wiki/Materialismo_dialettico). Popper (http://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Popper) affermava che il materialismo dialettico non sarebbe scientifico (http://it.wikipedia.org/wiki/Materialismo_dialettico#Popper:_il_materialismo_dialettico_non_.C3.A8_scientifico) in quanto “si presenta come una teoria capace di spiegare qualsiasi fatto ricada nel suo ambito e quindi di sottrarsi ad ogni possibile ed immaginabile confutazione (o falsificazione nel linguaggio di Popper). Appunto qui sta il vizio del materialismo dialettico: poiché rinuncia al principio di non contraddizione, se un fenomeno non è compatibile con una particolare tesi, vuol dire che ne é l' antitesi e come tale viene accettato insieme con la sua tesi. In tal modo la capacità di distinguere tra affermazioni a sostegno oppure contrarie ad una qualche teoria che poggi sul materialismo dialettico, viene di fatto annullato, rendendone impossibile una qualsiasi giustificazione oppure confutazione.
Pertanto poiché il materialismo dialettico presume di poter spiegare qualsiasi fenomeno, sia naturale sia storico ricada nel suo ambito, esso, poiché non falsificabile, non può essere considerato una vera dottrina scientifica come invece pensavano Marx e Engels.
Popper ebbe a scrivere sull'apparente potere esplicativo del materialismo dialettico marxista:
« Sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano [...]; un marxista non poteva aprire il giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione e soprattutto per quel che non diceva. »
A detta di Popper:
« Il materialismo dialettico è compatibile con i più disparati comportamenti umani, sicché è praticamente impossibile descrivere un qualsiasi comportamento che non possa essere assunto quale verifica della teoria. »
Questa sua infalsificabilità secondo Popper rende il materialismo dialettico essenzialmente non-scientifico.”
Anche tutto questo ragionamento di Popper fila. Ci troviamo insomma di fronte a una teoria che avrebbe sempre ragione e ciò sarebbe dovuto a una sua eccesiva completezza: essa comprende anche la sua negazione. Una sorta di autodifesa perenne che si traduce in una sempre continua conferma della teoria. Insomma nulla può contraddire il materialismo dialettico per il semplice motivo che questo comprende anche ciò che lo nega. Ma questa è davvero una sua mancanza oppure ciò è dovuto al fatto che si tratta di una sorta di teoria del tutto che davvero tutto ricomprende e tutto spiega? E se ciò fosse dovuto al fatto che il materialismo dialettico davvero ha colto l’essenza della realtà e per tale ragione non può essere falsificata? Il problema però non è tanto che gli eventi reali, a detta di Popper, non potrebbero contraddirla, ma anche quelli immaginari in quanto sarebbe impossibile anche immaginare eventi che la negano. Ammettendo che ciò sia vero, sarebbe davvero dovuto a una sua inesattezza intrinseca o forse invece al fatto che essa coglie in pieno e totalmente persino il più intimo meccanismo della mente umana?

Ordine contro utopia
In tutta la storia umana troviamo due cose che sempre hanno fatto gli uomini: creare società in cui non mancavano quei fenomeni definiti “ingiustizie” e sognarne di migliori in cui questi fenomeni non ve ne fossero. In tutta la storia umana le società che si sono succedute hanno avuto peculiarità proprie, ma anche elementi in comune. Il bisogno di ordine per esempio e una certa gerarchia, ma anche lotte per il potere non sono mai mancate seppure hanno preso diverse forme.
Ma in tutta la storia umana non sono neanche mai mancati i sogni di un mondo migliore. E anche questi hanno elementi piuttosto specifici alle varie epoche e altri invece in comune. Specifici sono gli elementi organizzativi e di lavoro. Per esempio in una società agricola prevarrà l’utopia di un mondo in cui ognuno abbia la sua terra fertile da coltivare senza immani fatiche. In una società industriale prevarrà l’utopia di un mondo automatizzato in cui i lavori pesanti sono delegati quasi completamente alle macchine mentre le persone potranno dedicarsi alle attività intellettuali e di alto interesse personale.
In comune ci sono invece alcuni elementi sociali, come per esempio la fratellanza, la pace, l’armonia sociale, l’assenza di povertà e di miseria e di ogni forma di prevaricazione. L’aspetto politico in apparenza muta a seconda diversi tipi di utopie sociali. Troviamo quelle di stampo “monarchico” o fondate su un leader carismatico fino a giungere a quelle più egualitarie con l’assenza di ogni tipo di gerarchia e di capi. In realtà cambia molto la forma ma non la sostanza, perché seppure il leader carismatico non gode di un’investitura formale, anche nelle costruzioni più “anarchicheggianti” non viene esclusa l’esistenza di un buon capo che governa non sulla base di un potere fondato sulla forza ma con la sua saggezza e il cui potere si fonda sulla sua statura morale e la sua autorevolezza. Un potere al servizio del popolo e animato da un grande amore verso questo è non di rado alla base dei “sogni” socio-politici di una gran parte di teorici dell’utopia.
Pertanto risulterebbe che anche l’utopia e l’atto di “utopizzare” facciano parte di quella che i naturalisti chiamano natura umana. Gli uomini da sempre costruiscono società in cui il loro “lato oscuro” non risparmia di farsi vedere, di uscire alla luce, la violenza e la prevaricazione si manifestano in varie salse e varie gradazioni, ma da sempre sognano che queste non ci siano. È la tensione tra l’essere e il dovere o il voler essere, forse due aspetti della natura umana in perenne conflitto tra loro. Forse il principale nemico dell’Uomo e dell’uomo è l’Uomo e l’uomo stesso.
Si potrebbe però ipotizzare che la realtà sociale non priva di nefandezze sia il risultato dello scontro delle istintive e naturali aspirazioni umani con la dura realtà. Una realtà che ricomprende tutti quegli ostacoli di varia natura all’esprimersi pieno e chiaro di queste aspirazioni. Ma siamo certi che questi ostacoli siano tutti esterni? Siamo certi che non vi sia qualcosa di “oscuro” all’interno dell’essere umano che lo ostacola nel realizzare le sue aspirazioni? E qui si suddividono le visioni sociologiche da quelle naturalistiche. Secondo le prime i lati oscuri della natura umana, violenza, prepotenza, prevaricazione, fuoriescono in funzione delle variabili esterne, degli ostacoli esterni, naturali o sociali che siano, come una reazione verso di essi. In assenza di tali ostacoli, nel momento in cui la società dei sogni si realizza sgominando le forze esterne del “male”, questi non avrebbero più motivo di esistere e l’Umanità potrebbe vivere in un mondo privo di nefandezze. La versione naturalistica invece afferma che è nella natura umana che questi istinti fuoriescano e che, anzi, non di rado, invece di essere una vera reazione a dei veri ostacoli esterni, cerchino il pretesto per potersi manifestare e che non di rado tali ostacoli costituiscono più una scusa, o addirittura creati ad hoc e finalizzati alla manifestazione di naturali tendenze umane.
Ed è da questo scontro tra ordine e utopia che i naturalisti invitano alla prudenza nell’inseguire utopie mentre gli utopisti invitano alla ribellione verso pretesi ordini naturali.
Altra caratteristica sempre presente nella storia è la “sublimazione e oggettivazione della causa di parte”. Da sempre gli esseri umani si sono stretti in un dato gruppo in lotta contro un nemico comune. E questa lotta è sempre stata spinta da una causa che andasse oltre i meri interessi soggettivi di tale gruppo. Troppo blando e meschino sembrerebbe dire che si lotta per i propri legittimi interessi, quindi si elevano tali interessi al rango di bene sommo, di verità assoluta di fine ultimo del mondo. E così la lotta diventa quella del bene contro il male. Ovviamente ciò è anche dovuto dal fatto che i nostri punti di vista sembrano ai nostri occhi come oggettivi e assoluti. Questo avviene a un livello di raziocinio non molto elevato, mentre con un ragionamento più impegnativo si riesce a comprendere che siamo solo una componente del mondo e che i nostri fini non sono i fini del mondo, neanche del solo mondo umano. Il raziocinio può intervenire per integrare e correggere i nostri livelli di natura più istintivi. E una buona educazione può infondere tali meccanismi “correttivi”, spesso molto utili alla vita sociale, nell’individuo in maniera molto ben radicata. Quindi non sempre a quanto pare l’educazione volta a correggere certi istinti è un fatto “repressivo”, spesso è invece un vero e proprio atto formativo.

Rivoluzione selettive e società darwiniane
Un’ipotesi alternativa alle due sopra esposte può essere quella che vede l’evoluzione genetica più rapida di quanto non la vedano entrambe. Alcune ricerche mostrerebbero che il nostro patrimonio genetico negli ultimi diecimila anni sia in effetti mutato di parecchio per effetto della “civiltà”. Pare addirittura fino a un 20%. Nel suo libro “L’evoluzione della cultura” (http://www.libreriauniversitaria.it/evoluzione-cultura-proposte-concrete-studi/libro/9788875780012), Luigi Cavalli Sforza (http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Luca_Cavalli-Sforza), nota che i geni per la produzione dell’enzima per la digestione del latte si siano modificati dopo che divenne usanza, a seguito della nascita della pastorizia e dell’allevamento di bestiame, bere latte anche in età adulta. Così se prima con la fine dell’allattamento gli individui finivano di produrre tali enzimi, ora in moltissimi paesi, soprattutto occidentali, in cui il latte si usa berlo anche in età adulta, la maggior parte degli individui possiede geni che permettono di produrre tali enzimi anche in età adulta.
La civiltà sembra avere influito parecchio sull’evoluzione genetica e che evoluzione sociale e biologica siano tra loro più interconnesse di quanto sembri. Pertanto sembra che la società faccia da ambiente per ulteriori selezioni genetiche, selezionando gli individui più adatti a vivere in un dato contesto sociale. Così il feudalesimo poteva selezionare i soggetti più coraggiosi, più fedeli e più eroici, mentre il capitalismo potrebbe invece favorire i soggetti più competitivi, più furbi, più scaltri.
Non solo, ma le stesse rivoluzioni, gli stessi momenti di passaggio da una società all’altra potrebbero costituire una selezione rapida di individui. L’eccidio che segue la rivoluzione, ma anche il cambio di assetto sociale, porterebbero a un mutamento nella marcia selettiva. Ovviamente se vincono le forze rinnovative, altrimenti tale cambiamento non ha luogo e permane il vecchio assetto. Del resto le selezioni quando sono violente sono molto rapide in quanto molti individui vengono scartati subito, spesso con la morte.
Questa visione può portare una nuova ottica nell’ambito dei rapporti tra genetica e società, ma non tiene però conto della controversa natura che c’è nello stesso individuo, il quale può essere predisposto a spinte tra loro contrarie e lo sviluppo di alcune a scapito di altre dipende dall’ambiente. Lo stesso individuo, insomma può essere adattabile a vivere in diversi contesti, essere malleabile a seconda dell’apprendimento.
La visione sociologica pone come ovvio limite l’aumento di rigidità che sovviene con l’età nel soggetto. Ciò che si apprende nei primi anni di vita forma gran parte della nostra personalità, poi pian piano il tutto diventa sempre più informativo e meno formativo. Per cambiare modo di essere in età adulta c’è bisogno di uno sforzo molto più grande che in età dello sviluppo. Ma anche questo è posto in dubbio da molte ricerche che suggeriscono che anche in età adulta non sia poi tanto difficile plasmare il cervello. Probabilmente entrambe le visioni sopra esposte, combinate, potrebbero spiegare perché la natura umana è tanto complessa, controversa e malleabile: una vita sociale complessa e mutevole non ha tanto selezionato individui adatti a un dato contesto quanto soggetti elastici e adattabili a vari contesti dinamici. Insomma individui quanto più complessi sia possibile. È una “formula” che spiega come l’uomo si adatti al contesto naturale e sociale ma non come egli adatti il contesto a se stesso. Ma forse la realtà è più vasta e sta nel fatto che l’uomo è un sistema complesso atto a creare relazioni di adattamento reciproco tra sé e il contesto in maniera quanto più rapida sia possibile. Laddove non riesce ad adeguare l’ambiente adegua se stesso all’ambiente. Si tratta paradossalmente di un meccanismo antico e non solo umano, in quanto tutti gli altri viventi devono adeguarsi all’ambiente, ciò che c’è di nuovo nell’Uomo è solo la sua capacità di adeguare l’ambiente a sé. Eppure, sempre paradossalmente, questa sua capacità, invece di renderlo più “rigido” pare che si accompagni a una sua estrema elasticità. Ma questo però è un discorso, seppure interessante, che non è pertinente in questa sede.

L’inconscio e la trasmissione culturale
Con le moderne analisi del cervello, tipo brain imaging e roba varia, si è attestato che i processi coscienti fanno capo più o meno ai neuroni dello strato esterno della corteccia cerebrale, mentre i processi inconsci allo strato più interno.
E si è visto che il processo decisionale si attiva negli strati più interni verso quelli esterni. Quindi noi non prendiamo delle decisioni coscienti, ma è l'inconscio che informa la coscienza delle decisioni prese. E' ovvio che l'influenza tra "strato" cosciente e quello incosciente è reciproca e il fatto che noi pensiamo molto è dovuto alla struttura della corteccia: i neuroni dei processi coscienti sono molto più interconnessi tra loro che non con quelli dei processi inconsci.Inoltre l'inconscio è una sorta di "raccordo" tra mondo esterno e pulsioni interiori profonde. Queste ultime lanciano degli input dall'interno mentre invece attraverso la coscienza l'inconscio riceve input dall'esterno. Quindi riceve diverse "spinte" che lo forgiano continuamente, ma ovviamente la sua elasticità tende a calare con l'età, in particolare se nell'infanzia è molto malleabile, durante l'età adulta diventa non rigido ma di certo molto più stabile.
La gran parte delle pulsioni che caratterizza la nostra personalità e il nostro modo di essere e di fare ha sede nell’inconscio. È qui che risiede il nucleo del nostro essere psichico, nelle profondità del sistema limbico e neurocorticale. E ciò rende difficile poter identificare cosa provenga da input “interni”, che si potrebbero definire piuttosto “naturali” e cosa da input esterni sociali. A complicare il tutto vi è il fatto che la struttura inconscia si forma grosso modo nei primi anni di vita. Come si fa, in uno strato così profondo e inconsapevole della nostra mente che si forma in un’età così precoce, a identificare ciò che è frutto dei geni e ciò che invece ha preso forma ad opera dell’apprendimento? E se invece la formazione delle nostre strutture mentali e delle nostre pulsioni, anche più profonde, avesse una duplice natura, sarebbe frutto di un’interazione per sua natura indistinguibile?
Ciò che riguarda la nostra struttura psicofisica, che sia ciò che ha preso forma per input sociale o per un processo di sviluppo dovuto alla genetica, è un problema non statico ma di processo. Il nostro essere è un continuo processo che prende forma in modo veloce nei primi anni e poi via via sempre più lentamente e superficialmente interagendo continuamente con l’ambiente. Pertanto, se è vero che non tutto ciò che è strutturale è per forza naturale ma può anche essere dovuto a un adattamento ambientale, è anche vero che non tutto ciò che prima non c’era e poi viene ad essere vuol dire che sia dovuto ad adattamento ambientale, potrebbe anche essere frutto di un processo che avrebbe avuto luogo in qualsiasi contesto o quasi. Un problema di “importazione” insomma: una data pulsione è stata importata dall’esterno o invece è stata attivata da un processo interno? Di certo la predisposizione c’è, per tutto ciò che gli esseri umani sono e fanno c’è una predisposizione, altrimenti non potrebbero esserlo e farlo. Un po’ una scoperta dell’acqua calda questa ma consentitemela.
Per poter sapere cosa è dovuto a input esterni e cosa invece è dovuto a un processo di evoluzione naturale e intrinseco, bisognerebbe studiare o un grosso numero di casi piuttosto diversi, distanti e senza alcun rapporto tra loro e vedere cosa hanno in comune, oppure soggetti molto simili geneticamente ma che sono cresciuti in contesti molto diversi. Così si può sapere cosa è che sorge in qualsiasi contesto, se una data pulsione ci sarebbe anche in condizioni diverse oppure non ci sarebbe o in suo luogo ce ne sarebbe un’altra. Questo almeno fino a un ulteriore sviluppo degli studi di genetica.
Il primo caso è quello di studiare varie persone di svariatissimi contesti, razze, popoli e culture. Le caratteristiche che presentano in comune tra loro possono avere un’alta probabilità di essere di origine naturale. Ma vi può comunque essere anche il sospetto che vi sia stata in un certo modo una diffusione culturale di un dato carattere, sospetto non di facile verifica.
L’altro caso invece rappresenta quello dei gemelli identici cresciuti in ambienti diversi. Hanno lo stesso patrimonio genetico ma sono allevati in ambienti completamente diversi tra loro. Tutto ciò che non hanno in comune può essere di derivazione esterna, mentre tutto ciò che hanno in comune può essere di origine intrinseca. In realtà i casi sono molto pochi, non sufficienti per poter costituire una vera e propria verifica sperimentale. Comunque parrebbe che i pochi casi avvenuti avvalorerebbero di parecchio le tesi sociali e meno quelle naturali.

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