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La scelta

Post n°52 pubblicato il 01 Dicembre 2015 da giulio.stilla

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD    (1)

 

Se ci fermassimo a riflettere solo per alcuni minuti, in questi primi giorni di Avvento, in cui la speranza sta per diventare effettualità, sulla costrizione a scegliere nella nostra vita quotidiana per tutte le nostre necessità, i nostri bisogni, i nostri progetti, capiremmo subito che la intera nostra esistenza la si svolge sul piano inclinato della “scelta”. Non ne possiamo fare a meno. La nostra natura, la nostra emotività, la nostra razionalità è chiamata a scegliere. Noi possiamo decidere anche di non scegliere. Ma anche questo è una scelta. E’ la scelta della non scelta. Fin da quando il nostro “Io” raggiunge la consapevolezza di se medesimo, in particolare, nella fase più accentuata del suo egotismo, la scelta diventa una ragione obbligata di sopravvivenza o di non sopravvivenza. Tutte le nostre libertà sono strettamente legate alle nostre capacità di scelta. Spesso, durante la nostra esistenza, ci capitano circostanze in cui vorremmo non scegliere. E’ il nostro dramma. Dobbiamo scegliere, perché anche la non-scelta comporta un coinvolgimento totale della nostra persona, al quale è impossibile sottrarsi. Il nostro destino è tutto qui. La scelta è la nostra libertà. La nostra libertà è la struttura ontologica della nostra esistenza. La nostra libertà, però, non è soltanto un primato o un privilegio del nostro modo di essere, è anche un onere, perché ogni nostro atto è strettamente legato alla nostra intenzionalità, che ci richiama alla nostra responsabilità.

 Non esiste una libertà senza responsabilità. Noi possiamo anche rifuggire dalle nostre responsabilità e desiderare di vivere una vita di tedio, inconsapevoli del proprio destino, proprio come la “greggia” di pecore, invidiate dal Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, ma dovremmo rinunziare alla nostra natura, strutturata ontologicamente come “libertà”. Libertà di scelta ma anche scelta di libertà come scelta di responsabilità. Libertà e responsabilità sono le prerogative dell’essere uomo, distinto dall’animale il cui comportamento è strettamente legato alla sua natura istintiva.

 In verità, anche nell’uomo l’istinto svolge un ruolo importante sia nelle scelte irrazionali sia nelle scelte consapevolmente razionali. La natura dell’uomo è bidimensionale. E’ fatta di sensibilità e ragione, direbbe Kant. Ma alla base di ambedue le dimensioni vige incontrastato il criterio della scelta. Si sceglie per soddisfare il nostro appetito, si sceglie in funzione del nostro olfatto, del nostro senso tattile, dei nostri gusti, si sceglie, cioè, in funzione della nostra sensibilità, che sempre esige di essere razionalizzata, perché, sempre, ciascun di noi ha bisogno di giustificare le proprie azioni. Francesco Guicciardini direbbe che l’uomo, specie l’uomo italiano, persegue sempre il suo “particulare”, che non sempre collima con la scelta razionale. Atteggiamento tipico della cultura storica del nostro Paese, donde deriva il carattere individualistico di noi Italiani, sempre pronti a fomentare le più esasperate litigiosità e divisioni, volte a creare particolarismi di tipo politico, sociale, religioso e localistico. E’ il carattere collettivo di un popolo allo stadio ultimo della sua storia millenaria, fatta di tante sovrapposizioni culturali e linguistiche, che non hanno mai consolidato o amalgamato le opposte differenziazioni in una superiore e comune intelligenza che conservasse e tramandasse tutti gli aspetti positivi delle diverse influenze storiche.

Ma forse è stata proprio questa eterogeneità di storie particolari e diversità culturali a creare il temperamento tipico dell’Italiano, sempre pronto a coltivare la fantasia, l’inventiva, la creatività, che genialmente si esprime in molte forme della vita civile: nella moda, nell’arte, nella ricerca scientifica, ma anche nella politica, che, oggi, in verità, non viene più considerata come attività nobile della nostra società per via della dilagante corruzione degli apparati dello Stato e della burocrazia, che mette in serio pericolo la nostra fragile democrazia.

In democrazia, però, si sceglie. La scelta è l’anima della democrazia. Il cittadino che non ha la possibilità della scelta non è nemmeno un cittadino ma uno schiavo. Organizza la sua esistenza in maniera angusta, non si espande in libere attività di pensiero e manifestazioni di spirito, perché, intimorito da una volontà estranea alla sua intelligenza, non è libero e soffoca le sue ansie di creazione e di operosità, con gravissime conseguenze negative sulle linee evolutive del progresso e dello sviluppo sociale ed individuale.

La scelta è a fondamento della esistenza dell’uomo, perché scegliere significa progettare e progettare significa esistere, come ci insegna la filosofia esistenzialistica, la quale, risalendo all’etimo latino exsistere con il significato di emergere, saltar fuori, progettare, trova la consonanza semantica e concettuale tra scegliere, progettare ed esistere. Difatti, non esiste una esistenza senza scelta e senza progetto, a meno che non sia la vita di una pianta o di un animale che si lascia nascere, crescere e vivere dalla forza naturale dell’istinto. Tutti gli esseri vivono, ma soltanto l’uomo esiste, come riflettono le filosofie esistenzialistiche del Novecento.

L’uomo, fin dall’età della consapevolezza di sé, del proprio “io”, cioè della propria autocoscienza, della propria appercezione trascendentale, direbbe Kant, prospetta e progetta a livello più o meno razionale il suo futuro. Si prende cura di sé: della sua vita quotidiana, del suo lavoro, della sua salute e del suo benessere spirituale, dei suoi piaceri e delle sue stagioni esistenziali. Progetta la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. Progetta anche la sua morte, se il senso del tempo che scorre e la volontà dell’Eterno lo inducono a riflettere.

Vivendo insieme con gli altri, nella famiglia e nella società, l’uomo si prende cura degli altri e delinea così la sua coesistenza. Cerca una compagna, crea una famiglia e lavora per sé e per gli altri in un contesto sociale dove si situano le abitazioni, le strade, i servizi, gli agglomerati urbani, le città, i luoghi di cura e le previdenze sociali. Esistere significa quindi coesistere. Nemmeno Dio ha inteso vivere da solo. Per Amore ha creato l’uomo e la sua libertà, progettando la Croce per una scelta di Eternità. Poteva anche non scegliere e non creare l’uomo a sua immagine, cioè a immagine della sua Intelligenza, della sua Spiritualità e della sua infinita Libertà. E’ stato costretto a farlo dal suo Amore. Deus Caritas Est. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato un Dio immobile, come il Dio di Aristotele, di una immobilità fredda, glaciale, simile alla indifferenza. Questo Dio, si, che ci avrebbe spaventato e ci avrebbe gettato fra le braccia della disperazione e del dolore.

 Il Dio di Gesù, invece, ha raccolto su di Sé tutto il male del mondo per condividere con l’uomo la sua finitudine e i suoi limiti in prospettiva dell’Infinito e della sua redenzione dal male. L’uomo si redime attraverso la sofferenza, condizione ontologica della sua esistenza e della sua Libertà. Nel Dio dell’Amore è riposta ogni nostra consolazione, ogni nostro conforto. Errano dalla retta via quelle creature che non hanno fede, che non credono nell’Amore di Dio, in nome di una loro presunta intelligenza matematica ed atomistica, in nome di una loro presunta superiorità intellettuale, che suggerirebbe loro di affermare la solitudine dell’uomo e la razionalità del Caso o del Caos. Una contraddizione in termini e in forme concettuali. O c’è Razionalità e Ordine o c’è Disordine e Caso. Delle due l’una è quella valida. Tertium non datur. Non c’è la terza soluzione. Se c’è o c’è stato Ordine e Razionalità, la ragione matematica ha un senso, perché si configura così la deduzione da una Intelligenza.  Ma se c’è o c’è stato Disordine e Caso, la ragione matematica non ha motivo per esistere, perché non deduce da un principio ordinante ma dal disordine.

E questo è una contraddizione in termini e in concetti.

 La ragione matematica, in altri termini, lungo i versanti dello scetticismo e dell’agnosticismo non ha mai spiegato l’uomo, la sua dimensione mentale e le sue sofferenze. La ragione matematica non ha mai spiegato il dolore del mondo, che ha una sola voce, un solo lamento, un solo belato, come la capra di Umberto Saba, poeta dell’Ermetismo italiano, il quale, per l’appunto, nella lirica che porta il titolo “La Capra” canta con struggente tristezza la universale condizione di dolore in cui vengono a trovarsi tutti gli esseri del mondo. Mi piace riportare alcuni significativi versi della rinomata poesia del Saba, che riprende in forma più sintetica ma con lo stesso patos il tema del dolore cosmico, già celebrato dal Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Dice la lirica del Saba:

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

 

La condizione del dolore è sostanza a tutte le creature, come canta il Leopardi nella chiusa del Canto notturno: “O forse erra dal vero, / Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / Forse in qual forma, in quale/ Stato che sia, dentro covile o cuna, / E’ funesto a chi nasce il dì nata le.

Forse, è funesto a chi nasce il dì natale; forse!  E il belato della capra, elevato dal Saba a simbolo del dolore cosmico, è fors’anche il lamento dell’Umanità che non sa spiegare la presenza del male nel mondo? Certo, se ci si affida alla ragione matematica, non ci si va da nessuna parte. L’agnosticismo, o meglio lo scetticismo, o meglio la negazione assoluta di un principio razionale, atto a spiegare l’assurdità del male e della sofferenza nel mondo, resta la strada obbligata.

Ma la ragione matematica non riesce spiegare nemmeno se stessa. L’esprit de géométrie, chiamato in causa da Blaise Pascal, non riesce a spiegare il principio primo del numero che resta di carattere intuitivo. Perché 2 + 2 fanno 4 ? Esiste una logica in tutto ciò? Si, è la nostra dimensione mentale, che la ragione matematica non riesce a spiegare. Figuriamoci, se riesce ad interpretare la sofferenza, a dare una spiegazione razionale alla presenza del male nel mondo, alla sua assurdità o al belato-lamento di una capra? L’Esprit de géométrie può, potrebbe, potrà spiegare o riprodurre il nostro cervello, ma non la nostra dimensione mentale, la nostra logica, che all’interno del male e dell’assurdo si muove con lo stesso criterio con cui procede nella ricerca scientifica. Se l’acqua bolle a cento gradi, la spiegazione è di carattere fisico-matematico. E’ l’Esprit de géométrie che opera la deduzione fisico-matematica.  Se insorge il male nel mondo è l’Esprit de finesse, cioè il Cuore, che ha una sua logica, una logica metarazionale, vocata a suggerire la spiegazione più confacente alla logica della mente. Se la ragione confessa i suoi limiti, dopo la ragione la spiegazione più razionale è data dal cuore, perché è il cuore, la saggezza del cuore, che conforta e che consola, che ama e che comprende, che palpita per l’Infinito.

Ogni uomo è inchiodato alla sua Croce, che bisogna imparare a portarla senza dar segni di cedimenti e di rivolta, prodigando aiuti e solidarietà alle croci degli altri in un cammino corale quasi sempre irto di difficoltà, di egoismi, di prepotenze, di usurpazioni. Esistono evidenti i segni della nobile dignità dell’uomo, che sopporta i mali del mondo, senza spirito di rivolta prometeica, come avviene per l’uomo del Camus, ma con lo spirito dell’Amore e il forte senso del Trascendente, come avviene per il Cristo sulla Croce.  (Continua)

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