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INTERESSANTISSIMA **********

Post n°469 pubblicato il 14 Settembre 2009 da LICURSI.110

 

Il bello, il giusto e il vero nel mestiere di comunicare
2/3

Autore: Contri, Alberto  

 
Conversazione tenuta a Roma, il 10 maggio 2001, alle ore 12, al Teatro Manzoni.  

 


Si arriva così a sostenere che ogni forma di programmazione è pura fiction, pura sostituzione della realtà con una sua protesi artificiale, allo scopo di procurare emozioni a chi non è più in grado di provarne nella vita di ogni giorno.


E non ci si preoccupa minimamente se i reality-show sono finti e fasulli:
un esempio lampante di come e di quanto una intera estetica abbia troncato deliberatamente il proprio rapporto con la realtà (cioè con la verità) e si sia condannata a produrre sensazioni ed emozioni a prescindere da ogni implicazione riguardante ciò che è giusto e vero spesso proprio perché reale.


Analogamente, ma ad un livello ancor più radicale, l'allora direttore Rai, Celli, sosteneva la necessità di coltivare la virtù dell'ambiguità per poter meglio permettere all'uomo di adattarsi alle sorprese del futuro.


In questo secondo caso la negazione di una possibile soluzione positiva del problema conoscitivo (in sintesi: la verità non esiste, e la storia ci ha cinicamente impedito di sperare in un mondo migliore) sembrava rendere possibile solo la ricerca di qualche certezza parziale, la più adatta al momento, la più conveniente.

Rinunciando così ad ogni idealità per asservire la più grande azienda produttrice di contenuti nel migliore dei casi ad un progetto organizzativo fine a se stesso, e nel peggiore agli interessi forti.


D'altra parte va detto e ribadito che un pensiero sull'essere "astratto", per quanto vero, rimane imbarazzato davanti a quella comunicazione per così dire esistenziale che anziché partire dal vero, parte dal bisogno estetico, emotivo, e lì si ferma volutamente.


Nella apparente modernità di questa comunicazione non ci sono vincitori perché tutti sono stati vinti:
chi aveva ragioni teoriche non ha saputo dimostrare nei fatti che tenere insieme il bello, il giusto e il vero rendeva più interessante il compito di mostrare e spiegare il mondo;
chi ha rotto l'unità tra verità, bellezza e giustizia ha reso di fatto incomprensibile il mondo.


Per stare in casa nostra, i dibattiti delle ultime settimane dimostrano proprio come su ogni cosa, anche la più semplice, non si riesca più a comunicare, proprio per questo deliberato intento di rompere questa unità, e potersi muovere elasticamente tra i concetti e anche le norme e i regolamenti.

Perché uno dei primi semplicissimi prodotti dell'unità tra verità, bellezza e giustizia è soprattutto un gran buon senso.


Per questo è importante riflettere sul fatto che anche restringendo l'orizzonte dello sguardo a quella parte del mondo che ci appare come il migliore dei mondi possibili le cose non procedono tutte per il verso giusto e la prospettiva utilitaristica od estetica è incapace di rendere ragione di quanto accade.


Il futuro dell'occidente è segnato dal problema della compatibilità dello sviluppo:
in particolare è segnato dal dominio della tecnica e dal conseguente problema della omologazione derivante dalla globalizzazione;
per converso si fanno sempre più acuti e gravi i rischi di scontro tra le civiltà anticipate anche dai nuovi flussi migratori sudnord.

Nel frattempo fa il proprio ingresso dirompente quella ingegneria genetica dal cui grembo possono uscire soluzioni anche devastanti ma comunque rivoluzionarie per il nuovo secolo che si è aperto.


Accanto a questi megatrend, esiste per contro una quotidianità di accoglienza e di costruzione di una società più solidale, che interessa un numero crescente di persone - soprattutto giovani - e che costituisce un racconto di per sé ben più commovente ed emozionante di tante fiction studiate a tavolino e di tanti falsi reality-show.
 

Domandiamoci: è di questo che ci parlano i media di oggi?

Quella grande finestra sul mondo che è la tv ci ha portato questo mondo in casa, oggi?


Nonostante il tentativo di conformare la realtà alle parole, essa, la realtà, è e rimane a disposizione di quanti intendano incontrarla, interrogarla, rappresentarla senza la pretesa di esaurirla ma anche senza la tentazione di ridurla alla propria categoria e alla propria rappresentazione.


Ce lo ha mirabilmente ricordato Hannah Arendt, nel testo "Il Pensiero secondo".

L'essere, l'esserci delle cose, viene prima del pensiero.


Quando Popper ha insignito la televisione del titolo di " Cattiva Maestra" ha a sua volta voluto ricordarci che l'informazione degenera in deformazione proprio a causa di un rapporto falsificato e perciò falsificante con la realtà.


Il problema di cosa sia la realtà è l'altra faccia del problema della verità.
Domandarsi se esista la verità equivale a domandarsi se esista la realtà.
Così come nessuna persona minimamente ragionevole concluderebbe che la realtà non esiste solo perché essa è difficilmente interpretabile e catalogabile, altrettanto dovrebbe essere detto e fatto a proposito della verità, la quale non cessa di esistere per il solo fatto di essere (spesso, ma non sempre) difficilmente conseguibile.
Diceva Kant: "La verità è un'isola, circondata da un ampio e tempestoso oceano. L'oceano è la sede della parvenza, dove vari banchi e masse di ghiaccio che tosto si fonde simulano la presenza di nuove terre, ingannando con vuote speranze il navigante che gira intorno per fare nuove scoperte".
Se si parte dal fatto che l'uomo non può raggiungere la verità o che la verità non esiste, a parte il fatto che tale affermazione si autocontraddice, si rende impossibile alla radice ogni possibilità di informare.
L'impossibilità di informare la si ottiene anche se si intende per verità quella creata dal pensiero individuale e lì circoscritta: il fatto di non possedere un riferimento comune al di fuori di ogni soggetto vanifica alla radice l'informazione.
Più frequentemente l'informazione si riduce al pensiero di un privilegiato soggetto impersonale. Perso ogni legame stabile con il Vero resta così aperta la strada per la propaganda e la manipolazione. Cioè per l'interesse.
Per salvare ciascuno di noi dalle manipolazioni degli altri e dalla nostra stessa capacità di manipolazione occorre tornare ad esercitare la riflessione, ovvero osservare la realtà lasciando che attraverso il continuo paragone con essa si formi quel senso critico che è il bene più prezioso della società della comunicazione e della informazione.
Il senso critico nasce nella persona innanzitutto come paragone tra le esigenze della propria ragione e del proprio cuore di oggi, con i suggerimenti e le proposte che gli vengono da una tradizione che lo precede.
Il senso critico quindi non può nascere dal nulla, ma dentro un paragone serio con quanto l'individuo riceve dalla tradizione da cui proviene (famiglia, comunità, nazione, religione, arte, ma anche partito o movimento…). Un uomo senza tradizione e senza la verifica di essa nel presente non ha cultura: al massimo ha una buona adattabilità alle mode, una educata passività a ciò che passa il convento più forte del momento.
E basta guardare il volto di molti partecipanti ad uno dei reality-show che tanto piacciono ai moderni burattinai televisivi, per essere presi da uno sconforto profondo per l'evidente mancanza di legame interiore con qualsiasi storia e qualsiasi tradizione degna di questo nome, sulle quali i mass media sono passati come uno schiacciasassi.
L'importante è che facciano numero, audience, platea da rivendere.
Ad una così pervasiva onnipresenza di questa tremenda omologazione, fa da contraltare l'abdicazione quando non la rinuncia esplicita alla costruzione di una realtà insieme giusta e bella. Così ci avvitiamo su noi stessi nel dibattere di particolari marginali - l'ultimo è il caso di Celentano, che certamente, essendo umano, si è lasciato scappare qualche sbavatura di troppo, ma al quale occorre riconoscere il merito - come ad altri - di tentare di condurci fuori dal girone infernale dell'ovvio e di introdurci ad una idea di giustizia e di bellezza che non è fatta di dimenticanza né di artifizio.
Si può tendere al vero anche con il varietà, perché scandalizzarsi?
L'errore, semmai, è fare sempre di ogni erba un fascio, aggredire grossolanamente, non ascoltarsi, cogliere la pagliuzza dimenticando la trave.

Ma guardiamo che cosa è accaduto dentro i confini di casa RAI negli ultimi anni. Abbiamo rincorso la concorrenza sfidandola sul suo stesso terreno. Con il proposito della controprogrammazione abbiamo prodotto la totale omologazione. Quiz contro quiz, varietà contro varietà, film contro film. Abbiamo messo tra parentesi una qualsivoglia idea di servizio pubblico, persino nell'impaginazione pubblicitaria, al punto che chi ci guarda fa fatica a distinguerci dal competitore privato.
Non possiamo nemmeno dire di aver tradito la missione per salvare le casse.
Così si sta facendo sempre più strada un sentimento di scoramento anche nei più entusiasti delle finalità del servizio pubblico: dopo la cura Celli e quello che stiamo vedendo, sono in molti a dire "ma sì, piuttosto che tenerle così, vendiamole, queste reti…"
Dietro tale rinuncia vi è una stanchezza della mente, dello sguardo e del cuore: un affievolimento della fiducia nella ragione, nella sua capacità di afferrare la realtà, di rappresentarla secondo giustizia (cioè anche nella sua valenza drammatica) trovando la cifra estetica affinché il sapere ed il conoscere diventino una declinazione del bello.
Ci si dovrebbe arrendere ad un cinismo imperante solo perché siamo chiamati ad operare in una epoca che ha fatto dell'estetica la fabbrica delle paillettes e della verità l'anticamera della convenienza?
Io non rinuncio a credere che sia possibile (e sono certo che molti la pensano così), sulla base di una comune passione per l'umana avventura, riformulare un'idea di comunicazione e di informazione che si riappropri della funzione di introdurre al bello e di valorizzare ciò che è giusto.
Uno dei modi con cui potremmo definire il giusto, con il linguaggio moderno della comunicazione, è l'utilità sociale. Quando decidiamo di che cosa occuparci, abbiamo sempre, esplicitamente o implicitamente, una idea di utilità.
L' utilità può essere rappresentata dall'indice di ascolto. Dal profitto. Dal clamore. Dal potere. Dal successo. Può essere anche rappresentata dalla crescita di una comunità solidale. In quest'ultimo caso il criterio di scelta avrà come riferimento una idea di bene comune vasta, articolata, positiva e propositiva.
L'obiezione fondamentale che gli operatori della comunicazione intelligenti e di buona volontà rivolgono a quanto abbiamo appena detto è che gli imprenditori dell'informazione non consentono loro di realizzare in modo idoneo una tale opera.
Altri, meno sagaci, aggiungono che sono proprio gli utenti a richiedere qualcosa di diverso, di morboso, di frivolo, di sensazionale: di diverso, cioè, dall'informazione di qualità, incuriosente e intelligente. Come la maggior parte delle scuse, anche queste includono una parte di verità. Ma spesso coprono solo una pigrizia che insorge solo dopo che si sia gettata la spugna con gesto unilaterale. Cambiare si può.
Rimane il non indifferente problema delle appartenenze, che spesso in questa azienda è stato e viene visto come appartenenza al carro del potere politico.
Così capita anche che qualche cretino patentato o qualche imbelle ricopra ruoli di grande importanza perché ben visto dal principe, o perché utile ad una serie di scambio di favori.

 
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