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COSA TI 'PESA' DI PIù ???

Post n°477 pubblicato il 12 Gennaio 2010 da 1carinodolce

  

IN QUESTO PERIODO
COS è CHE TI  'PESA'  DI PIù ? 

E  'COSA'  TI  MANCA  MAGGIORMENTE ?

 

  

IN QUESTO PERIODO
QUAL è IL TUO
DESIDERIO/BISOGNO  PRINCIPALE ?

 

 

 
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Commenti al Post:
Piccola.Lacrima
Piccola.Lacrima il 12/01/10 alle 02:55 via WEB
pesano i rimpianti..e manca la tranquillità e la pace dell'anima..
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ciubini.enrico
ciubini.enrico il 12/01/10 alle 08:34 via WEB
ciao amico mio Carino dolce. sono una persona sola da 16 anni separato.qualche volta mi pesa essere da solo,specialmente, quanto il tempo e' nuvoloso. ti saluto con affetto...enrico
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mrjnks
mrjnks il 12/01/10 alle 18:40 via WEB
mi manca tanto il bacio mai avuto, e che mai potrò ormai avere, da mio Padre, uomo difficile dal cuore d'oro, il resto è quasi superfluo se non noioso.. grazie per l'opportunità e per la visita, Crispino
(Rispondi)
 
madrion_2008
madrion_2008 il 17/01/10 alle 12:47 via WEB
Quale era la domanda??? Ecco,DESIDERO ricordare. Quale era la risposta? Ecco,ho BISOGNO di DESIDERARE di ricordare!!! :)Buona domenica. Mela.
(Rispondi)
 
citazioni_bellisssss
citazioni_bellisssss il 17/01/10 alle 20:45 via WEB
Davide Rondoni ---- La natura non è Dio. In natura esistono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti. Ma la natura non è Dio. Non preghiamo la natura, che ha pregi e difetti, come ogni creatura. Preghiamo Dio creatore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fratelli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sereno nel proprio letto. Che ci ricordano, nel loro dolore, che non siamo padroni del destino.
(Rispondi)
 
Antologia2
Antologia2 il 25/01/10 alle 10:47 via WEB
http://www.avvenire.it/Commenti/C+Dio+sul+Web+20_201001250851509400000.htm
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citazioni_bellisssss
citazioni_bellisssss il 26/01/10 alle 10:28 via WEB
Saper riconoscere Dio che passa. È la millenaria competenza naturale della creatura umana, che nell’età moderna sembra però essersi offuscata fino a smarrirsi in questa nostra contemporaneità pulviscolare dentro il dedalo inesauribile delle opinioni. Eppure, lo sappiamo: per quanto si adoperi, il clamore del mondo non riesce a spegnere la voce interiore che ci rende ancora distinguibile una Presenza sottesa ai segni della vita quotidiana. A istinto, Dio lo "sentiamo": capiamo ancora che è Lui, per quanto insensibile o distratta sia diventata l’anima di ciascuno. Nessuna raffinata spiegazione scientifica, psicologica o economica riesce infatti da sola a dar conto di ciò che l’intelligenza coglie e registra, di offrire risposte all’altezza della nostra ricerca. Siamo "capaci" di Dio ma è come se ce lo fossimo dimenticato, nello stordimento al quale siamo ormai consegnati. (Francesco Ognibene)
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 02/03/10 alle 02:18 via WEB
In un’aggiornata e sintetica ricostruzione della storia del cinema italiano, Gian Piero Brunetta definisce giustamente La dolce vita di Federico Fellini un «grandioso affresco sociale e cinematografico […] un’opera ponte: chiude una stagione del cinema italiano e inaugura una nuova era, precorrendo non poche tensioni e spinte del cinema internazionale»[1]. A pochissimi anni di distanza, tornando nuovamente sull’opera di Fellini, e ritenendola il vero salto di qualità per il cinema italiano, Brunetta scrive che con La dolce vita il regista riminese «scopre e inventa una forma di epica cinematografica di cui, in seguito, apparirà come il cantore più imitato e difficilmente ripetibile. Da un momento all’altro egli si sente liberato dai complessi nei confronti del super ego della critica, per cui si lascia guidare dal proprio immaginario, armando tutte le vele, che per anni era stato costretto a orzare per la miopia dei produttori. La sua navigazione assume subito un andamento maestoso. Quello che è certo e subito palese alla critica è che il modello e l’idea di cinema, verso cui Fellini punta, sono situati in un emisfero posto agli antipodi del cinema neorealista, ancora considerato […] punto fondamentale di orientamento»[2]. Dai giudizi del maggior storico della cinematografia italiana, emergono due snodi determinanti. Il primo riguarda la produzione nazionale: dopo le grandi fortune dell’esperienza neorealista, soprattutto internazionali, ormai in via di esaurimento, con La dolce vita il cinema italiano raggiunge picchi di qualità eccezionali, nell’anno 1960, peraltro ricco di grandi film quali Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, L’avventura di Michelangelo Antonioni e La ciociara di Vittorio De Sica. Il secondo snodo riguarda invece la collocazione del film di Fellini nel contesto internazionale, considerata un’opera faro della modernità cinematografica. Se tali giudizi Brunetta li inserisce all’interno di un grande, imponente lavoro di investigazione e sistematizzazione della storia del cinema italiano, il «fellinologo» per antonomasia, Tullio Kezich, di fatto da tutt’altra prospettiva, un saggio di ricordi, li conferma. «Il riminese - scrive - stava compiendo sul corpo del nostro cinema il miracolo della resurrezione»[3]. E La dolce vita finì, sempre a parere di Kezich, per dare forma ad «una fra le più tipiche espressioni del cinema moderno»[4]. Brunetta nelle sue analisi introduce il concetto di «opera mondo». Seguendo l’indicazione, possiamo paragonare il film di Fellini ad un’opera nella quale lo spirito del tempo rimane perfettamente condensato nella celluloide; spirito segnato da una profondissima nostalgia per il sacro, che sembra ormai abbandonare l’orizzonte umano, e una insopprimibile curiosità per gli aspetti più stravaganti della vita moderna. La nuova società cinematica, affermatasi pienamente con la fine della seconda guerra mondiale, contribuisce alla sostituzione del romanzo con il film di finzione. I consumi di massa e le logiche dell’industria culturale hanno determinato la moltiplicazione, in maniera sempre crescente, di «nuovi testi» (i film), talvolta considerati addirittura eccezionali, vere e proprie opere d’arte, assurte a preciso sistema estetico di rappresentazione sociale della embrionale cultura postmoderna[5]. Ma tra le opere d’arte, ve ne sono alcune rarissime: le chiameremo racconti epici o meglio, come già anticipato, «opere mondo». La dolce vita può essere considerata, appunto, «opera mondo». Il film di Fellini è dunque un testo di riferimento della cultura cinematografica occidentale: racconto epico per immagini, dotato di una valenza culturale in grado di superare i confini nazionali. Pur se portatrice di uno Zeitgeist epocale, l’opera felliniana appare il nitido ritratto della società italiana in pieno boom economico, ripresa attraverso la finzione cinematografica, in una fase di forte consolidamento e quindi più libera nel potersi mettere in mostra. Come ha notato lo scrittore Antonio Tabucchi, il film «costituì una frattura generale». A Tabucchi La dolce vita appare un «grande affresco sull’Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta». Nel corso di una intervista Tabucchi ha provato a leggere il film di Fellini come una sorta di giudizio universale privo di salvezza. Ogni classe sociale è condannata, a cominciare dall’alta borghesia: «in fondo - dice Tabucchi - l’Italia non ha mai avuto una borghesia intelligente, colta... Poi c’è la piccola borghesia, il padre di Marcello che arriva a Roma dalla provincia e vuol fare la notte di follie al tabarin: un disastro. Un personaggio toccante, patetico. E patetica è anche Yvonne Furneaux, la “moglie italiana” con le sue fissazioni, possessiva e disperata per quel voler accudire Marcello, preparargli i ravioli con la ricotta. Ecco poi i nobili, l’aristocrazia romana che si raduna per la festa nel castello di Sutri: una galleria di inetti o di puri deficienti. Ma c’è anche il popolino, il sottoproletariato, quello che spera nelle apparizioni della Madonna e si presta alle riprese della Tv. Il cerchio si chiude con gli intellettuali; c’è Marcello Rubini (Mastroianni), il giornalista che vuol diventare grande scrittore e intanto lavora per una rivista scandalistica: crede di avere importanti aspirazioni, e invece è solo patetico. Più in alto, molto più in alto c’è Steiner (Alain Cuny), una mente raffinata, nutrita di cultura filosofica e di letture scelte, suona Bach. Ha un salotto frequentato da scrittori e artisti, a cui fa ascoltare la registrazione dei suoni della natura. Ma ha anche una famiglia, due bimbi, la moglie sorridente: insomma, sembra un esempio perfetto di equilibrio e serenità. E invece è un fallito, e il suo suicidio cambia radicalmente il giudizio su tutto: quelle riunioni di intellettuali che parevano tanto scelti, tanto profondi, erano solo poveri ricevimenti di persone vuote e fatue. Insomma, La dolce vita è il ritratto più terribile che un artista abbia prodotto sulla società italiana. Profeticamente, Fellini aveva già intuito dove saremmo andati a parare. Il modo con cui rappresenta i mezzi di comunicazione di massa è rivelatore. I fotografi scatenati e urlanti dietro le celebrità, i giornalisti che s’inventano stupidi scoop (Anita Ekberg vestita da prete che sale sulla cupola di San Pietro), gli scatti rubati della diva presa a schiaffi dal suo compagno, la spettacolarizzazione del niente. E la Tv? Anche peggio: la sequenza del finto miracolo sui pratacci dell’ultima periferia romana è atroce. Due bambini che dicono di aver visto la Madonna attirano la troupe della Rai, che vuole dare di tutto, di più. In mezzo a una falsa agitazione, tutti recitano: i piccoli veggenti, la folla pronta ad andare in estasi, lo zio orrendo dei ragazzini che intona le laudi, lo speaker della Tv. Poi, comincia a scendere la pioggia, di Madonne nemmeno l’ombra, e l’operatore cinicamente esclama: “Piove! Spegniamo tutto”. Un’Italia orrenda degli inizi degli anni Sessanta, Paese corrotto e decadente, terra in cui niente si salva né può essere salvato, società putrefatta come la Roma del Satyricon di Petronio […] Ci sono tutti i difetti italiani, quel viver bene alla giornata, il cinismo generale che accomuna sottoproletari, intellettuali, borghesi. Il velleitarismo del giornalista Marcello è desolante: il suo dialogo con Anita Ekberg, nella scena della fontana, è agghiacciante. “Sì, è vero, ho sbagliato tutto, hai ragione tu...” e va nell’acqua dietro alla bionda formosa e cretina che s’inebria nel primordiale, nell’arte, nella romanità di quel tuffo barocco di Trevi. E altrettanto tremendo è l’episodio del miracolo della Madonna. Speriamo tutti, anch’io, di vedere la Madonna, ma la Madonna di quelle borgate non ci promette la vita eterna, tutt’al più una vacanza a Fregene. Si lascia comprare con quattro soldi, costa due lire, non era l’apparizione felice, immortale, era una povera cosa di cartone»[6]. La lunga citazione è utile per evidenziare una mentalità diffusa, ben espressa da Tabucchi, impegnata ad affastellare troppe riflessioni, con la lettura del presente sovrapposta al passato, nella quale si fondono vizi e disfunzioni non tanto legate al tempo del film di Fellini, ma quanto riconducibili alla contemporaneità. Inoltre la severa reprimenda di Tabucchi getta una luce poco edificante sull’Italia uscita da un decennio di straordinaria evoluzione sociale e di solida guida politica (il centrismo democristiano di Alcide De Gasperi, rimasto al governo sino al 1953). Un giudizio del genere non può essere circoscritto al fraintendimento di un letterato incapace di cogliere l’essenza della dinamiche storiche. Tabucchi si trova in perfetta sintonia con le analisi espresse da una diffusa pubblicistica e da una predominate storiografia, impegnate a distorcere il reale significato della stagione degasperiana. Il potente sviluppo economico prodotto dalla modernizzazione industriale e dalla società dei consumi, non è contrassegnato, a parere di Tabucchi, da un’eguale crescita morale, culturale e civile dello spirito nazionale: osservazioni molto discutibili. Lo storico Pietro Scoppola ha sottolineato come l’interpretazione degli anni Cinquanta, nella cultura italiana, ha l’immagine «di un certo grigiore». Questa lettura dominante «diventa in alcune delle ancora approssimative ricostruzioni di quel periodo un preciso giudizio: alla fine degli anni quaranta si sarebbe aperta, nella vita politica e nella cultura, una fase di restaurazione nel senso deteriore del termine»[7]. Come è sin troppo evidente, il pensiero di Tabucchi si distacca davvero poco da questa linea interpretativa. Ciò non toglie però che i rilievi dello scrittore affrontino un punto fondamentale: la città di Roma è ormai diventata, e La dolce vita ne è la massima rappresentazione, un luogo geografico totale, dove sta andando in scena l’apoteosi della modernità. Roma trattiene i segni del passaggio compiuto (la conclusione della modernità) e al tempo stesso presenta la fisionomia embrionale di un cominciamento (il superamento della modernità). La città eterna si è trasformata, grazie al potere seducente della celluloide, nella «Hollywood sul Tevere»[8], divenendo il centro del mondo, come lo sono Parigi nei film della «nouvelle vague» e la «Swinging London» di Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, o la Madrid al tempo della «movida», in alcune opere dei primi anni Ottanta di Pedro Almódovar. «La dolce vita - scrive opportunamente Vito Zagarrio - passa alla Storia come la più famosa celebrazione dei fasti della modernizzazione (la “movida” romana, via Veneto, i veicoli di comunicazione di massa), e insieme l’innesto di elementi di rinnovamento linguistico e narrativo […] Ma la stessa atmosfera de La dolce vita, a ben vedere, è insieme “moderna” e “postmoderna”, soprattutto per il mescolamento di arredi e di scenografie, di musiche e di culture (l’oriente e l’occidente, il rock ’n’ roll e l’impero romano, l’aereo e l’elmo medievale, ecc.)»[9]. L’opera di Federico Fellini compie più o meno lo stesso percorso. Dopo i primi passi nell’orizzonte della commedia, sempre più sicuri, con Luci del varietà (1950, diretto in collaborazione con Alberto Lattuada), Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953), Fellini si avventura nell’universo proprio del realismo, realizzando opere di grande importanza stilistica quali La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957), che assicurano al regista riminese successo e notorietà internazionali. Fellini, formatosi a stretto contatto con il regista di punta del neorealismo, Roberto Rossellini, si avvicina al realismo con i tratti propri dell’umanesimo cristiano[10]. Rossellini nei film girati con Ingrid Bergman come protagonista, si impegna nella rifondazione del realismo (e del neorealismo), salutata dalla giovane critica francese con enorme favore[11], e da altri frontalmente osteggiata con l’accusa di «spiritualismo»[12]. Quindi se nel Rossellini di Stromboli, terra di Dio (1949), Europa ’51 (1952) e Viaggio in Italia (1953), per ragioni estetiche e morali (centrate sul realismo della messa in scena e sull’umanesimo cristiano del contenuto), debba essere rintracciata la vera origine della modernità, in Fellini troviamo la medesima sensibilità e un puntuale e originale prolungamento. Con la «trilogia della grazia e della salvezza», a parere di Peter Bondanella, il regista riminese si avvicina all’umanesimo cristiano. Pertanto, assai prima dell’anno-cerniera 1959 (ricordiamolo: l’anno dell’esplosione della «nuovelle vague» in Francia e delle opere faro della modernità), Fellini concorre con la sua ricerca estetica e valoriale, espressa ai massimi livelli in La strada e Le notti di Cabiria, alla formazione della modernità cinematografica, che si preciserà ulteriormente con La dolce vita e con il successivo 8 e ½ (1963). La modernità del cinema non è soltanto una questione legata alla tecnica impiegata, o al grado di realismo dell’opera, ma anche, e forse soprattutto, una rinnovata visione del mondo, operata attraverso il linguaggio filmico, da un gruppo di cineasti, nella stragrande maggioranza europei, di cui Rossellini e Fellini sono stati certamente i precursori.
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 02/03/10 alle 02:21 via WEB
Per René Predal Fellini appartiene a questo sguardo nuovo sul mondo, e La dolce vita si presenta «come un labirintico monumento barocco della decadenza, in cui il realismo devia costantemente verso il fantastico […] Mescolando le apocalissi derisorie (il diluvio sui figli del falso miracolo) agli interrogativi più tremendi (l’episodio di Steiner che assassina la famiglia) e le notti folli (il bagno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi o la frenesia di via Veneto) alle albe glaciali (i tentativi di suicidio di Emma o il malessere del vecchio padre), La dolce vita stila il miserevole bilancio di un mondo ammalato con un delirio estetico che lo fa tuttavia scintillare di mille bagliori»[13]. È uno dei tanti giudizi, né il migliore né il peggiore, riguardanti il film di Fellini. Non è questa la sede per discutere dettagliatamente il significato formale e contenutistico di La dolce vita. È sufficiente ribadire che del grande rinnovamento artistico verificatosi sul finire degli anni Cinquanta del XX secolo, e durato per tutto il decennio successivo, entrato nella storiografia come la modernità del cinema, Fellini e il suo film rappresentano un passaggio imprescindibile. Abbiamo in precedenza sottolineato la presenza in La dolce vita di un duplice atteggiamento di Fellini: la nostalgia per l’eclissarsi del sacro nella «città secolare» - fenomeno storico ritenuto inarrestabile - e la curiosità per gli aspetti più stravaganti del moderno. Studiando strutturalmente il film emerge la suddivisione in scene non necessariamente concatenate una all’altra, che in alcuni casi potrebbero addirittura vivere autonomamente, per durata e significato. Il film di Fellini è una descrizione dei demoni che si sono impossessati dell’uomo quando perde il contatto con Dio. Fellini osserva con immensa curiosità il moderno. Lo sguardo plana dall’alto sull’eclissi del sacro scesa nella moderna Babilonia di Roma - ricordiamolo ancora: il centro del mondo - e fa affiorare in superficie la «volontà di potenza» impossessatasi dell’esistenza del protagonista di La dolce vita, Marcello Rubini. Le sequenze del film Il film, di una lunghezza consistente e anomala per il cinema italiano (due ore e quarantacinque minuti), è diviso in tredici scene, legate da una sola linea di continuità: la presenza di Marcello. Marcello (Marcello Mastroianni) è un giornalista trasferitosi a Roma per seguire l’arte della scrittura. Presto però ha abbandonato ogni velleità letteraria, tuffandosi nella «dolce vita» romana, tra un aperitivo a via Veneto e una serata trascorsa con la nobiltà, a caccia di pettegolezzi, informazioni e storie piccanti, da passare alla stampa in perenne ricerca di scandali. Così Tullio Kezich disegna il profilo di Marcello: «è un giornalista mondano che capta gli scandali e gli umori della café-society. Un tipo né buono né cattivo, né morale né amorale, con improvvisi spunti di cinismo e altrettanto improvvisi soprassalti»[14]. La dolce vita, come è noto, si apre con l’immagine di un elicottero impegnato a trasportare una grande statua di «Gesù Lavoratore», dono degli operai alla «città eterna». In realtà gli elicotteri sono due: nel secondo c’è Marcello con Paparazzo (Walter Santesso), il fotografo inseparabile accompagnatore. Nel tempo messo in scena da Fellini, temporalità contrassegnato dal «presente», propria a tutte le grandi opere cinematografiche della modernità[15], l’obiettivo della macchina da presa è puntato su una questione determinante: la fede sta tagliando uno ad uno gli ormeggi con la società. Detta in altre parole, stiamo assistendo all’eclissi del sacro, come una corrente di pensiero sostiene, nell’ambito della sociologia delle religioni[16]; o alla secolarizzazione, disciplina della teologia impegnata a definire il processo storico mediante il quale la cultura e la società occidentale si affrancano dal controllo religioso. Non c’è immagine più suggestiva del Cristo volteggiante nel cielo, seguito da un uomo immerso nel proprio tempo, privo di legami religiosi, per riassumere la fisionomia di un’epoca appunto secolare. La breve sequenza di apertura del film di Fellini è seguita da un’immagine assai diversa. Siamo entrati nel vortice della «città secolare», in un locale notturno nel centro del centro del mondo; non la Roma di San Pietro, ma la Roma di via Veneto. Marcello si trova lì a caccia di notizie, e incontra Maddalena (Anouk Aimée), figlia annoiata di un facoltoso industriale. I due escono in strada, salgono su una lussuosa automobile americana decappottabile, caricano una prostituta e si fanno portare a casa sua, nella desolata periferia della città. All’alba escono, pagano la donna, e vanno via. Siamo così arrivati alla terza scena, anch’essa piuttosto breve. Marcello rincasa e scopre che la fidanzata Emma (Yvonne Fourneaux) ha tentato di suicidarsi per gelosia. Prontamente ricoverata in ospedale, la donna viene dichiarata fuori pericolo di vita. La quarta scena potrebbe considerasi un film a sé. Qui Fellini elabora una sofisticata ricostruzione dell’attraente modernità propria della società dei consumi, del divertimento e dell’industria culturale. Marcello deve recarsi all’aeroporto per accogliere una diva del cinema, Sylvia (Anita Eckberg), in arrivo a Roma. Sono trascorsi esattamente venti minuti dall’inizio del film, e allo spettatore è stato presentato Marcello, il protagonista; Maddalena, la sua amante, donna ricca, aristocratica e disinibita; ed Emma, fidanzata di Marcello, certo bella ma appartenente ad un ceto sociale basso. Ecco arrivare Sylvia, bellezza nordica, sensuale e prorompente. Questa parte del film dura trenta minuti ed è suddivisa in otto blocchi: 1 - arrivo di Sylvia all’aeroporto: una folla di giornalisti, fotografi, produttori, industriali e semplici curiosi accoglie la diva del cinema americano sbarcata a Roma per partecipare alla presentazione di un film 2 - Marcello, che lavora per la produzione del film, accompagna l’attrice in macchina dall’aeroporto al centro della città 3 - nel corso della conferenza stampa Sylvia risponde in inglese a tutte le domande, seduta su un divano, le mani perennemente tra i lunghi capelli, con aria divertita, ingenua e maliziosa 4 - Marcello, insieme ad un fotografo, accompagna Sylvia, fasciata in uno strano vestito dai richiami ecclesiastici, in Vaticano: prima salgono una ripida scala e, raggiunta la cima, si trovano in una terrazza con vista su Piazza San Pietro 5 - in onore di Sylvia e del suo fidanzato Robert (Lex Barker, famoso per aver interpretato Tarzan sullo schermo), il produttore Totò Scalise (Carlo Di Maggio) ha organizzato una serata mondana, in abiti da antichiromani: Robert ha alzato parecchio il gomito; rimprovera Sylvia di aver ballato con troppa disinvoltura, facendo infuriare la donna, che presa da un attacco d’ira abbandona la festa, inseguita da Marcello preoccupato di un possibile scandalo 6 - salita sulla macchina guidata da Marcello, Sylvia raggiunge il centro di Roma: è affascinata dalla bellezza notturna e gioca con un gattino bianco, perdendosi nelle tante stradine 7 - Marcello è riuscito a trovare un po’ di latte per il gattino, ma quando torna non trova più Sylvia, che nel frattempo è rimasta incantata dalla cascata di acqua della Fontana di Trevi: i due si bagnano, camminano abbracciati e l’alba li sorprende 8 - Marcello accompagna Sylvia in albergo in via Veneto: in una macchina c’è Robert addormentato, malignamente svegliato dai fotografi; l’uomo prima affronta Sylvia, schiaffeggiandola, e poi colpisce Marcello, sbattendolo in terra tra gli scatti divertiti dei colleghi. Alcune immagini - soprattutto la scena del bagno nella Fontana di Trevi - ancora oggi rimangono un’icona di riferimento dell’immaginario collettivo internazionale. Ogni grande cultura nazionale nell’atto di prendere coscienza di se stessa, produce un autore enciclopedico ed un testo di riferimento: nel nostro caso abbiamo Federico Fellini e La dolce vita. D’abitudine i film vengono interpretati mediante una lettura della forma o del significato sociale. L’eroe è uno spettatore, elemento assai presente nelle opere della modernità del cinema. L’eroe è inerte, passivo: non dominatore ma esploratore. Non è il costruttore del mondo tipico del cinema classico hollywoodiano, come ad esempio John Wayne nel western di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man who Shot Liberty Valance, 1962). Marcello è una sorta di moderna incarnazione del Faust di Goethe: attraverso il patto mefistofelico decide di vendere l’anima non tanto alle forze del male, ma alla propria epoca secolarizzata, ricevendo in cambio il grimaldello per far saltare tutte le serrature delle regole sociali, e soprattutto il biglietto di ingresso alla giostra del lusso e del divertimento. È anche uno speculatore economico, poiché vive al centro della mondanità pur non avendone i mezzi. Marcello, ultima incarnazione di Faust, è stato sedotto dal fascino della vita scintillante, stordente, sfrenata. Il compromesso lo ha trascinato nell’universo della «dolce vita», e il prezzo da pagare è la perdita di eticità. Essendo in fondo vittima di una seduzione, Marcello agli occhi del suo creatore finisce per apparire innocente, scagionato da ogni responsabilità: non è un eroe sgradevole, e sicuramente qualcosa di superiore ha avuto la meglio su di lui, allontanandolo dalla ricerca artistica, dalla corretta condotta morale, dall’orizzonte del senso religioso. Marcello non viene punito per aver sprecato vita e talento, come accade, pescando un altro esempio dal classicismo hollywoodiano, all’eroe di Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wylder, opera dalla struttura classica ma fortemente intrisa di tendenze moderne. La particolarità di La dolce vita è di essere un testo dalla doppia polarità: innovatore ma popolare, complesso ma semplice, stilisticamente ricercato ma adatto al consumo tipico della cultura di massa. La dolce vita (peculiarità delle «opere mondo») è la manifestazione radicale del desiderio di emancipazione dell’uomo, l’affermazione della sua «volontà di potenza», impegnato a tagliare i legami con il passato; ma è anche la consapevolezza che non è possibile ricominciare totalmente da capo: anzi, è inutile . Nelle intenzioni di Fellini il film non ha nessuna pretesa di denunciare o di perorare qualsiasi causa. «Mette il termometro - dice il regista - ad un mondo malato, che evidentemente ha la febbre. Ma se il mercurio segna quaranta gradi all’inizio del film ne segna quaranta anche alla fine»[17]. Fellini ha nostalgia per il sacro (l’eclissi dei valori è un passaggio epocale non rasserenante), pur se ha deciso di misurarsi senza timore con il moderno. Tornando alla struttura del racconto filmico, conclusa la lunga parentesi del passaggio romano di Sylvia, il film prosegue con la quinta scena, costruita per far incontrare casualmente Marcello con Steiner (Alain Cuny). Marcello sta seguendo annoiato il servizio di una modella ripresa accanto ad un cavallo. Ad un tratto sembra richiamato da qualcosa, e si reca nella moderna chiesa dalla grande entrata. Dentro la chiesa trova un amico: Steiner, uomo sofisticato, intellettuale raffinato e sensibile. Da parecchio tempo i due non si vedono. Iniziano a parlare di libri, di un articolo scritto da Marcello, piaciuto molto a Steiner. Poi quest’ultimo chiede ad un religioso il permesso di suonare il maestoso organo a canne della chiesa: esegue una musica sacra di Bach. Marcello ascolta, appare turbato: è affascinato da Steiner, figura che sembra intagliata nel legno, e ispira calma, serenità e regalità. L’attore, ricorda Kezich, richiama il gotico e ha un sapore di protestantesimo: «di spalle, con il colletto alto e bianco, fa pensare a un pastore»[18]. Durante la conversazione, Steiner chiede a Marcello perché abbia rinunciato a scrivere il romanzo. Nella scena successiva (la sesta), Marcello è stato inviato per un servizio giornalistico sulle apparizioni che si stanno verificando a quasi cinquanta chilometri da Roma. Lì, in un prato, la Madonna appare a due bambini del luogo. La sequenza, abbastanza lunga (dodici minuti), è strutturata in sei blocchi:
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basilissalaura
basilissalaura il 02/03/10 alle 23:37 via WEB
per me che sono gli scocciatori che non sopporto...!!!
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fabrizia2009.p
fabrizia2009.p il 21/03/10 alle 14:28 via WEB
non è facile rispondere a questa domanda poichè i desideri sono molti e quindi di riflesso le cose che mancano sono più di una. Il vuoto lo si percepisce giorno dopo giorno nei momenti di riflessione di meditazione allora arrivi alla conclusione che ti manca un interlocutore che possa costantemente dividere e condividere i pensieri le idee i progetti che possa confrontarsi per arricchire la tua anima l fine di capire e valorizzare ulteriormente il nostro percorso di vita abbia avuto un senso pieno
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briciole68
briciole68 il 21/03/10 alle 21:31 via WEB
parto dal pensiero di vivere la vita con filosofia :))) nonostante questo mi pesa esser impotente davanti a certe gratuite cattiverie...basta vedere i telegiornali, le cronache... il mio bisogno principale ? eccolo...far capire a certe persone che esser buoni non significa esser tonti ! un abbraccio . Giusy
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luna74rr
luna74rr il 30/03/10 alle 01:47 via WEB
mi pesa essere "ammirata"... e maggiormente nn "essere amata"
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 31/03/10 alle 14:33 via WEB
Bellissimo qst tuo blog, carinissimo tu, davvero! Un saluto da Lina
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mennaanna2009
mennaanna2009 il 31/03/10 alle 19:42 via WEB
desidero.....starmene da sola x un po lontano dal solito tran tran magari su una bella spiaggia assolata in un albergo a 4 stelle e tanta gente che ha voglia di rilassarsi e divertirsi....forse lo desidererò tra 20 anni se sarò ancora viva!!!!
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tucana07
tucana07 il 28/05/10 alle 20:22 via WEB
Volendo ridurre il tutto a una sola parola, sono le "disarmonie" che mi pesano di più... Di tutti i tipi...Del (mio) privato, del pubblico, quelle piccole e quelle grandi..
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