Recensione: Moving Target
 Band: Royal Hunt
 Data di uscita: 1995
 Etichetta: SPV Records
 Nazione: dk
1995: alla metà degli anni Novanta, il metal gode di buona salute e il power più che mai. È l’anno del capolavoro “Imaginations from the other side” dei Blind Guardian, del ritorno al microfono di Kai Hansen con l’ottimo “Land of the free”; un giovane Timo Kotipelto è la nuova ugola degli Stratovarius di “Fourth dimension”, infine gl’italiani Rhapsody (non ancora con manie ignivore) componevano il loro primo demo, “Eternal glory”. Anche il versante progressive regala una buona annata di dischi memorabili, a partire dall’Ep “A change of seasons” dei Dream Theater (orfani di Kevin Moore), passando per il debutto magistrale targato Ayreon, “Carved in Stone” degli Shadow Gallery, per non dimenticare, tra i tanti, il validissimo “In your moltitude”, dei mai troppo rimpianti Conception (“A Million Gods” resta una canzone da tramandare ai posteri). Il prog. rock vede un nuovo rigoglio nei primi passi mossi dai The Flower Kings (non più mero progetto solista di Roine Stolt), con “Back in the world of adventures”, e “The Light” degli Spock’s Beard preannuncia la grande carriera del gruppo capitanato da Neal Morse.
In Danimarca, i giovani registi Lars von Trier e Thomas Vintenberg fondano il “Dogma 95”, movimento cinematografico atto a disintossicare la settima arte dal facile “hollywoodismo” che snatura la sincerità del grande schermo. Da questo proposito imperativo nascerà, a breve, il film “Le onde del destino”, un classico dei cinefili più appassionati.
La terra di Amleto (ma anche degli Anubis Gate, Chrome Shift e Infinity Overture), tuttavia, non vive di solo cinema: qui, infatti, si è insediato da circa una decina d’anni un polistrumentista, nato a Mosca (di presunte origini nobili russo-georgiane), dalle notevoli doti virtuosistiche, amante di Mozart e Paganini. Il musicista in questione è André Andersen, classe 1961, mastermind e tastierista dei Royal Hunt, gruppo che ha all’attivo due album in studio tutt’altro che mediocri. In calce al suo profilo biografico, sul sito della band, leggiamo che l’esperienza accumulata e la sua infinita ispirazione lo rendono «a powerhouse force that drives the entire ensemble forward like a bulldozer» (una centrale elettrica che guida avanti l’intera band come un bulldozer).
Il sound dei danesi è di difficile definizione: (non) volendo semplificare, lo si può inquadrare tra un pomp-rock sui generis e il power metal più vicino all’AOR. Alcuni hanno definito il combo una versione più “aggressiva” degli Asia; Andersen cita Rick Wakeman e Jon Lord come sue principali ispirazioni, a fianco ai grandi della musica d’arte. L’Encyclopaedia metallum li definisce “melodic progressive metal”. La verità è che i Royal Hunt restano un unicum nel panorama rock e metal e proprio la natura ibrida del loro sound li configura come un gruppo dalla grande coerenza d’intenti, quanto sempre troppo sottovalutato.
Se agli inizi degli anni Novanta, “Land of broken hearts” e “Clown in the mirror” avevano già regalato emozioni, con Henrik Brockmann, interprete di alcuni buoni pezzi (“Easy rider”, “Land of Broken Hearts”, “Day in day out”, “Wasted Time”, “Legion of the Damned”), il futuro della band deve ancora scrivere pagine storiche di grande musica.
Anzitutto, la line-up del combo danese vede l’ingresso di un talentuoso cantante, proveniente dalla Pennsylvania. Donald Christopher Cooper è uno di quegli artisti che gli dei, molto probabilmente, invidiano al mondo, insieme a Michael Kiske e André Matos. Forte di una gavetta negli States e arrivato vicino a rimpiazzare il grande Rob Halford al microfono dei Judas Priest (insieme al coetaneo Ralf Scheepers), il quasi trentenne statunitense decide di unirsi al gruppo capitanato da Andersen. Si ritrova, così, catapultato, il ventisei dicembre 1994, in Giappone, durante il tour nipponico di “Clown in the mirror”. I fan del Sol levante accolgono calorosamente il nuovo cantante, che entra subito nell’alchimia della band danese e fa suo il ruolo di front-man. Nel corso della tournée, il Giappone è, altresì, devastato dal terribile terremoto di Kobe, che miete migliaia di vittime. In ricordo delle tante persone che vi hanno perso tragicamente la vita, i Royal Hunt compongono la commovente ballad “Far Away”, contenuta nell’omonimo Ep uscito nel maggio del 1995 (che include anche alcune canzoni dal vivo, tratte dal tour nipponico, e la buona strumentale barocca “Double conversation”).
Affronteremo più avanti l’analisi di questa memorabile canzone.
Torniamo ai fatti. Nel settembre dello stesso anno, esce “Moving Target”, terzo album in studio della band di Andersen, che è di nuovo produttore e autore di tutte le canzoni del platter. La copertina da “Berlino anno zero” non lascia adito a perplessità: il full-length parla, infatti, di guerre e distruzione. Lo stesso Andersen sostiene che si tratta di un concept album, volto a seguire «a man's acknowledgment of God on a journey through time on our world which we have been building since creation» (la conferma dell’esistenza di Dio da parte di un/dell’uomo, in un viaggio lungo il tempo, nel mondo che abbiamo continuato a costruirci sin dalla Creazione). Aggiunge, inoltre, che «throughout history man has both blamed God and credited God for things that are negative and destructive, which doesn't make sense. God does not create inquisitions, or start wars. God does not create evil, only man does» (nel corso della Storia l’uomo ha sia incolpato che ringraziato Dio per fatti negativi e distruttivi, cosa che è priva di senso; davvero Dio non crea inquisizioni o intraprende guerre. Dio non crea il male, questo lo fa solo l’uomo.) Messaggio profondo e filosofico, che dà inizio al lato “mistico” dei Royal Hunt, continuato poi sapientemente nel successivo capolavoro “Paradox”.
Se di concept album si può parlare, a rigor di termini si tratta di un concept lato sensu: il leitmotiv del disco è il tentativo dell’uomo di non incolpare Dio per la sofferenza presente del mondo, ma non c’è una storia vera e propria che abbraccia le nove tracce del platter.
Ma veniamo alla descrizione track-by track per dare un’idea di cosa ci propongono i quattro danesi.
“Last goodbye” attacca con un fade-in che vede protagonista il synth neoclassico e trascinante di Andersen. Sono pochi i tastieristi metal che possono vantare un così alto tasso di riconoscibilità dopo pochi secondi d’ascolto: vengono in mente Jens Johansson, Vitalij Kuprij, Michael Pinnella, Jordan Rudess e Derek Sherinian, una ristretta schiera di maestri dei tasti d’avorio.
La grande abilità compositiva di Andersen fa sì che, con un limitato numero di suoni (clavicembalo, oboe, organo) riesca a ottenere arpeggi, soluzioni armoniche e virtuosismi comunque memorabili. Kjaer è suo degno comprimario, ma darà il meglio di sé in "Paradox", dove si ritaglierà più spazio per assoli da manuale. A prevalere è una sorprendente coesione tra chitarre-tastiere e la voce di D. C. Cooper, che può gestire un range vocale invidiabile, passando da caldi toni baritonali a orgastici acuti in falsetto. Il refrain è azzeccato, tra l’istrionismo di Cooper e il controcanto delle voci femminili, altro marchio di fabbrica dei Royal Hunt. I testi sono corrosivi, intrisi di ansia e depressione. “Crime is done, i’m alone in the night”: nei sei minuti del pezzo seguiamo passo passo lo sprofondare nell’io di un anonimo Raskolnikov del nostro tempo, ottuso dalla tossicodipendenza ("going’ to the needle park") e ingabbiato in un’infanzia mai superata ("Goin' down, you're goin' down like a little child"). Dopo un veloce assolo di Andersen, che sembra anticipare certe sonorità di "Holy land" degli Angra, un bel break verso il min. 5:00 ci accompagna verso il finale dell’opener, che non manca di stupire. Da un silenzio irreale si leva una preghiera recitata in modo toccante da D. C. Cooper, “Our Father, who art in heaven…" (gli svedesi Mind’s Eye, similmente, inseriranno il Padre nostro in italiano all’inizio di “Skin Crawl”, nell’album "A Gentleman's Hurricane" del 2007).
Una brusca esplosione dà inizio al secondo brano dell’album, “1348”. Eteree voci femminili, come moire suadenti, annunciano “Future’s comin’ from the past, who’s first and who’s last”. Linee di basso traghettano, subito dopo, l’ascoltatore in un’atmosfera di roghi e re in ginocchio di fronte alla Morte nera, pandemia che sterminò un terzo della popolazione europea del Basso Medioevo. Al min. 1:15, allo scoccare del “December Forty-eight” cantato da Cooper, accordi abrasivi di chitarra rendono mimeticamente i fendenti della falce livellatrice. Alcuni minuti di grande musica strumentale preparano l’ultima strofa del brano, in un crescendo di distruzione e cadaveri ammassati. La voce di Cooper arriva su vette di puro lirismo nell’ultimo acuto del pezzo.
Attacco supponente quello di “Making a Mess”, con tanto di timpani, gong e synth di clavicembalo (che non ci risparmia gustosi tremoli barocchi). Ritmiche in puro stile metal e ancora un ritornello accattivante. Il turbinio di note vuole rappresentare la confusione mentale e il disorientamento del protagonista del brano. Si tratta di un giovane soldato cresciuto in una terra lontana (“I was raised in a faraway land”), cui vien inculcato il solo traguardo del successo a ogni costo (“tryin’ to be number one, never ever settle for less”) e finisce soldato pronto a uccidere e essere ucciso. Viene alla mente Tom Cruise nel “Nato il quattro luglio”… Il protagonista della canzone realizza, tuttavia, di star compiendo qualcosa di tragico e irredimibile sui campi di battaglia. Nel break del pezzo, l’epifania è ormai ultimata: “The wind of sadness can shade the heart of gold”. Il brano si chiude con una cadenza neoclassica, sorta di epitaffio di difficile interpretazione.
È la volta di “Far away”, uno dei cavalli di battaglia dei Royal Hunt di ieri e di oggi. La bellezza di questa breve composizione sta nella sua semplicità e nelle liriche alate, che Cooper interpreta in maniera sopraffina. Il brano trasuda sofferenza, ci sono anche synth d’organo e il tributo ai caduti di Kobe non potrebbe essere più sentito. Il ritornello è anche il vertice della bravura di Andersen nell’intendere figurativamente la musica che compone. Il tema discendente, che fa da controcanto alla voce di Cooper, rende tangibile la distanza (non solo spaziale) che ci separa dai defunti nell’aldilà e ogni cromatismo sembra un’eternità, che si aggiunge a un distacco già incolmabile. Nel finale il cantante ripete il refrain salendo di ottava in ottava, terminando con un acuto straziante che si spegne in un pianissimo da pelle d’oca: sentimento puro. In definitiva una delle miglior ballad dei Royal Hunt (che, in “Paradox”, avrà il suo corrispettivo in “Long way home” e, per quanto riguarda l’era John West, in “Season's Change”) e, azzardo, una delle più belle ballad metal (insieme a “The spirit carries on” dei Dream Theater, “Pray” dei Gamma Ray, “I believe” degli Hammerfall, “Before the winter” degli Stratovarius e molte altre). |