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Messaggi di Febbraio 2018

Brexit: governo May alle strette, pensa a uscita senza scadenza

Post n°4176 pubblicato il 22 Febbraio 2018 da ninograg1
 

Fonte: WSI 22 febbraio 2018, di Alessandra Caparello

LONDRA (WSI) – Il premier inglese Theresa May tenta di trovare una posizione univoca in merito alla Brexit e oggi fino a tarda serata sarà in riunione con i suoi ministri più anziani proprio nel tentativo di costringerli ad accordarsi sul tipo di Brexit che desiderano.

Si tiene oggi infatti un primo incontro con un gruppo ristretto di ministri, soprannominato “Brexit war cabinet” (“Gabinetto di guerra per la Brexit”). Il divorzio di Londra da Bruxelles continua ad alimentare le polemiche politiche nel Regno Unito e soprattutto le divisioni interne al governo ed al Partito conservatore. I fautori più accesi della Brexit hanno resa nota una lettera indirizzata a Theresa May in cui si chiede una rottura netta e immediata con l’Europa altrimenti mancherà il sostegno al governo. A guidare i parlamentari pro Brexit è Jacob Rees-Mogg, favorito della base del partito conservatore per diventare il prossimo primo ministro.

Theresa May quindi è sotto pressione perché ora deve spiegare chiaramente il suo progetto sulle future relazioni con l’UE, visto che i negoziati sul commercio dovrebbero iniziare il mese prossimo e concludersi in ottobre.

C’ è un “urgente bisogno” per il governo di chiarire ciò che vuole dalla Brexit, ha detto Hilary Benn, presidente della commissione parlamentare per l’ uscita dall’UE, in una lettera al segretario della Brexit David Davis. Entro questa notte, il team della May spera di ottenere un pieno appoggio al fine di poter annunciare la prossima settimana gli obiettivi negoziali del Regno Unito a Bruxelles.

Ieri inoltre si è delineato un nuovo scenario che finisce per alimentare le discussioni: il Financial Times ha reso noto una proposta britannica che prevede una transizione dopo la Brexit senza data di scadenza. Insomma con il rischio che la Brexit vera e propria non si compi mai.


 
 
 

Borse, Morgan Stanley: “Il peggio deve ancora venire”

Post n°4175 pubblicato il 21 Febbraio 2018 da ninograg1
 

Fonte: WSI 20 febbraio 2018, di Alessandra Caparello

 

NEW YORK (WSI) – Lo scossone subito dalle borse tra fine gennaio e i primi di febbraio è solo un antipasto della futura discesa delle azioni. L’allarme lo lancia Morgan Stanley che pone al centro l’andamento dei bond.

Proprio oggi il governo degli Stati Uniti offrirà un quantitativo record di titoli di Stato a breve termine (tre e sei mesi), pari a 151 miliardi di dollari. Secondo lo strategist della banca americana Andrew Sheets, l’inflazione Usa continuerà a salire e di conseguenza anche i rendimenti dei bond si muoveranno al rialzo, mettendo fine così al lungo periodo di denaro a costo zero.

“Nel secondo trimestre rimaniamo in guardia per un difficile tracollo, in quanto l’inflazione di fondo e gli indicatori di attività sono moderati”.

Il rialzo dei tassi di interesse avvenuto finora non è in grado di provocare gravi danni al mercato azionario: le aziende non dovrebbero avere conseguenze negative nella loro capacità di produrre utili, ma il vero problema è cosa succederà in futuro. Il mercato azionario statunitense, dice Morgan Stanley in un suo report, ha avuto solo un assaggio del potenziale danno derivante dai rendimenti obbligazionari più elevati  verificatisi all’inizio di quest’ anno, ma il più grande test  deve ancora venire.

Al contrario di Morgan Stanley, Allianz Global Investors, colosso tedesco del risparmio gestito, non parla di nuovi scossoni, bensì stima una “normalizzazione del mercato” come ha sottolineato a Bloomberg, il Ceo Andreas Ultermann secondo cui l’aggiustamento di fine gennaio è stato salutare perché le Borse erano salite troppo.

 

 
 
 

NATO: non siamo pronti a guerra contro intelligenza artificiale

Post n°4174 pubblicato il 20 Febbraio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Sputniknews

 

Le guerre del futuro verranno combattute con l'uso di sistemi d'intelligenza artificiali, i quali potrebbero essere usati come armi mortali, hanno dichiarato i leader dei paesi della NATO nell'ambito della conferenza di Monaco sulla sicurezza. Allo stesso tempo sono stati obbligati a riconoscere che i paesi membri della NATO non sono pronti ad affrontare tale evenienza, riporta Defense News.

Così il presidente dell'Estonia, Kersti Kaljulaid, ha ammesso la probabilità che alle metà di questo secolo l'umanità avrà a propria disposizione un sistema di intelligenza artificiale in grado di iniziare una guerra. Allo stesso tempo ha osservato che la NATO non ha ancora una strategia, né il diritto internazionale, per contrastare una simile evenienza.

In relazione a questo, la Kalyulaid ha proposto di stabilire requisiti universali per il sistema di intelligenza artificiale e di prescrivere regole che permettano di disconnettere questi sistemi se dovessero minacciare un essere umano.

All'inizio dell'anno, gli scienziati elencavano alcuni rischi che minacciavano il collasso della civiltà, tra cui le conseguenze della creazione dell'intelligenza artificiale.

L'anno scorso, il fisico britannico Stephen Hawking ha anche affermato che il rapido sviluppo dell'intelligenza artificiale potrebbe essere pericoloso per il destino dell'umanità.

 
 
 

Elezioni, gli esempi poco esaltanti della flat tax

Post n°4173 pubblicato il 19 Febbraio 2018 da ninograg1
 

Fonte: WSI 19 febbraio 2018, di Redazione Wall Street Italia

A cura di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Non è comunque la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

C’è da sapere comunque che, dopo il voto, l’indomani come si sol dire al cinema, è un nuovo giorno. E pertanto le promesse e le decisioni si possono cambiare.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi, in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Vladimir Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza, I cosiddetti oligarchi “spostavano” centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali.

Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi. Per anni la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più “disuguali”paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino. Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125. Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo. Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno.

Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.
Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

La pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto livelli intollerabili. Deve essere ridotta e semplificata per dare ossigeno alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese, ma non si può pensare di eliminare il principio di progressività perché così si minerebbe il principio stesso di una società civile e democratica.

*già sottosegretario all’Economia **economista


 
 
 

Olimpiadi invernali 2018, perché gli atleti americani stanno fallendo

Post n°4172 pubblicato il 18 Febbraio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Sport & miliardi | 18 febbraio 2018

Guardare le Olimpiadi in una stazione sciistica negli Stati Uniti può essere penoso. Venerdì sera tutto Whitefish, nel Montana, era davanti alla televisione, pronto a celebrare la vittoria nel freestyling di Maggie Voisin, nata e cresciuta tra queste montagne. Maggie ha solo 19 anni ma ha vinto i giochi Winter X in freestyling. A Pyeongchang era una delle favorite ed in paese erano pronti i fuochi d’artificio, ma non c’è stata nessuna festa, Maggie non è riuscita a portare a casa neppure una medaglia di bronzo.

Chi la conosce bene e ricorda quando da ragazzina faceva acrobazie sugli sci, ha avuto la netta sensazione che abbia sciato al disotto delle sue capacità. Maggie non è l’unica a non dare il meglio di se stessa in queste Olimpiadi, quasi tutti gli atleti americani sembrano affetti dallo stesso morbo. A metà giochi, gli Usa hanno al loro attivo soltanto nove medaglie. Nello sci alpino, hanno portato a casa una sola medaglia, il bronzo di Tina Weirather nella Super G., tante quante il Liechtenstein. Lindsey Vonn, la sciatrice che ha vinto più gare di Coppa del Mondo di qualsiasi altra donna nella storia, è arrivata a pari-merito sesta.

La Norvegia, per ora in testa con 22 medaglie, ha collezionato nello sci nordico più medaglie (dieci) degli Stati Uniti in tutte le altre discipline. E’ come se la squadra americana abbia lasciato a casa la grinta e competa senza una motivazione vera, “nazionalista“. Attenzione a questa parola che può essere facilmente confusa. Le Olimpiadi sono sempre state molto di più di una carrellata di gare sportive individuali, si compete per nazioni e quello che conta alla fine è il medagliere che ogni paese porta a casa. Naturalmente gli Stati Uniti hanno sempre fatto parte della rosa delle nazioni che hanno vinto più medaglie fino a questi giochi

La scarsa prestazione della squadra americana conferma quello che da un po’ di tempo tutti hanno capito: il primato americano vacilla su molti fronti, incluso in campo sportivo. Perché? Perché questa grande nazione sembra aver perso la bussola esistenziale, con un presidente che fa solo spettacolo ed un élite del denaro che sembra al disopra di tutto, inclusa la legge, lo spirito della grande America ha iniziato a svanire. Dopo la batosta degli scandali sessuali hollywoodiani, che ha messo a nudo lo squallido paesaggio del mondo dello spettacolo americano, ecco che arriva la delusione dei giochi, neppure nello sport l’America brilla più. Eppure a Pyeongchang c’è la squadra olimpica più numerosa nella storia delle Olimpiadi: 242 atleti che hanno sfilato nella cerimonia di apertura indossando la divisa a stelle e strisce sotto gli occhi compiacenti del vice presidente Pence.

Naturalmente, c’è chi sostiene che la Corea del Nord abbia rubato le olimpiadi, che si sia insinuata con rivendicazioni politiche distruggendo lo spirito dei giochi. Ma le vittorie mediatiche della Corea del Nord non spiegano le sconfitte sportive degli atleti americani. Il problema sembra essere un altro, la mancanza di uno spirito di corpo, un orgoglio che si è perso per strada perché ormai lo sport è un business multimiliardario, le olimpiadi sono state fagocitate dalla politica e l’America è una nazione in decadenza con un presidente che vuole averle vinte tutte. E’ una conclusione triste che ci deve far riflettere sul mondo in cui viviamo.

A Pyeongchang gli atleti russi non competono sotto la propria bandiera come gli americani, a causa dello scandalo del doping la Russia non ha potuto partecipare ai giochi, gli atleti fanno parte di una squadra che non è stata definita nazionale, ma proveniente dalla Russia. Un escamotage per farli partecipare ed aggirare i divieti di Washington, il più agguerrito sostenitore del divieto olimpico alla Russia. Da tempo, lo sport è stato trascinato nella disputa politica tra Usa e Russia che ha le sue origini nel conflitto siriano, dove per la prima volta dai tempi della guerra fredda Washington e Mosca si sono trovate su due fronti diversi.
Le Olimpiadi sono un’altra arena dove esternalizzare tale conflitto.

Chi ha assistito alla partita di hockey contro la squadra americana ha capito benissimo che dietro c’era una realtà politica complessa, carica di tensioni tra le due nazioni. Venerdì, le autorità americane hanno accusato società e cittadini russi di aver interferito nelle elezioni presidenziali del 2016 e sabato, quando la squadra di hockey russa ha battuto quella americana, a Mosca c’è stato chi ha fatto festa.

Non è la prima volta che lo sport viene politicizzato. Ma questo non giustifica una tale manipolazione. È però la prima volta che nella storia delle moderne olimpiadi gli atleti americani ne soffrono. Il fallimento della squadra americana a questi giochi è l’ennesima conferma del malessere esistenziale che mina questa grande nazione.

Sport & miliardi | 18 febbraio 2018
 
 
 

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