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L'occhio del coniglio 4. Ma deve proprio gridare.

Post n°676 pubblicato il 20 Gennaio 2013 da LaDonnaCamel
 
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Ecco il capitolo quattro de L'occhio del coniglio, e buona domenica.


“Ma deve proprio gridare in questa maniera qua?”
Giorgio si teneva le orecchie con le mani, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina. Sua nonna gli mise davanti una scodella grande come una marmitta, piena di latte appena sporcato dal caffé di cicoria. Spezzò tre fette di pane e le buttò dentro a tocchetti. Lui chiuse gli occhi e poi li aprì, guardò i bocconi di pane gonfiarsi e poi affondare nella zuppa.
“Mangia” disse la nonna e subito si voltò verso il lavandino.
Amilcare lo guardò, piegando la testa da un lato.
“Poi mi vai a prendere il giornale?” disse tirando fuori di tasca qualche moneta. Voltò la testa verso l’altra stanza, ci pensò un momento e rimise la mano in tasca, “anzi, compramene due copie, che una la leggo. Il Corriere della sera.”
“E se non c’è? Prendo il Popolo?”
“Se non c’è prendi niente. Mi arrangio io.”
Gli mise una banconota davanti alla tazza.
“Una lira?” disse Giorgio ma non la toccò. “E il resto?”
“Il resto puoi tenertelo.”
In due cucchiaiate aveva finito, bevve le ultime gocce direttamente dalla tazza e spinse indietro la sedia.
“Shh,” fece la nonna col dito sul naso, “adagio.”
Luisa alzò la testa e li guardò senza dire niente. Era seduta su una coperta stesa a terra tra il tavolo e la finestra, imboccava una bambola di pezza con un cucchiaino vero.
Lui prese il cappotto e il cappello, mise in tasca la banconota e si fermò con la mano sulla maniglia, si voltò verso suo padre.
“E la messa?”
“Vai tu.”
Guardò la suocera. “Vada a vedere.”
“Eh, c’è tempo” rispose lei e si avviò strascicando le ciabatte di pezza verso la camera da letto.
Giorgio chiuse piano e subito si sentì il galoppo che faceva scendendo gli scalini a due a due.
Corse fuori dal portone, svoltò l’angolo di Via Cialdini e rallentò di colpo. C’è tutto il tempo. Camminava poggiando un piede davanti all’altro come se dovesse misurare i quadrelli del selciato. Il freddo gli mordeva le ginocchia. Tolse di tasca una mano e ci soffiò sopra, con l’altra stringeva i soldi. Cosa farà con il resto? Pensava alle biglie di vetro del Galimberti, gliele aveva sempre invidiate, specialmente quella con i riflessi viola, ma ha detto che non la vende. Potrebbe fermarsi in latteria quando esce da messa, comprare una stecca di rigolizia o sei bonbon per cinque centesimi. Se invece prende il Corrierino stasera l’ha già finito e se ne pente, è naturale. Intanto era arrivato all’edicola e restava lì a guardare le figure sulle copertine. L’uomo dentro il chiosco bofonchiò qualcosa che non si capiva, credeva che non avesse i soldi, che stesse lì a perder tempo, si vedeva dalla faccia. Lui mise la banconota sul piattino, “Corriere della sera” disse, “due copie”.
“Altro?” Gli porse i giornali e contò il resto. Aveva una coperta grigia sulle spalle, una berretta di lana in testa e dei guanti con le dita tagliate.
Giorgio mise le monete nella tasca dei calzoncini e gli voltò le spalle. Coi giornali sottobraccio andò verso la chiesa.
Nel piazzale c’erano il Caminiti e il Franceschi che giocavano a figurine contro il muro dell’oratorio. Lui si fermò a una certa distanza con le mani dietro la schiena. Cercava di vedere se c’erano pezzi interessanti, stropicciava i piedi per terra, muoveva la gamba per sentire il peso delle monete. La gente che arrivava entrava subito in chiesa, dal portone uscivano effluvi d’organo che si spegnevano di colpo quando il battente veniva richiuso. Al rintocco delle campane i due raccolsero le figurine sparpagliate, Giorgio li vedeva con la coda dell’occhio e un momento dopo era già dentro. La puzza di incenso gli faceva colare il naso.
 
La signora Speranza aveva uno scialle marrone che teneva chiuso sul petto con una spilla a forma di margherita. Aveva una faccia tonda e lucida e incartava i bonbon con le sue dita tozze, tenendo il mignolo rialzato. Mentre prendeva la moneta gli trattenne la mano, “la tua mamma come sta? È già ora?” disse e lo guardò fisso.
“Sta partorendo adesso,” fece lui con la faccia sera, da uomo.
“Povera donna,” sospirò lei, come se fosse una sciagura. “Sei contento se ti nasce una sorellina?”
“No.” Gli stava venendo su il magone e non sapeva nemmeno perché. “Ce l’ho già”. Aprì il cartoccio e si ficcò in bocca un bonbon.
“Allora speriamo che sia un bel maschietto.”
Giorgio alzò il mento come se non gli importasse niente ma era arrabbiato.
“Vai a casa dalla tua mamma,” insistè lei.
“Ma se m’han mandato via.” Si voltò di colpo e uscì senza salutare tirandosi dietro la porta con un botto.
Tornò sulla piazza, era deserta. Sono andati tutti a casa al calduccio, davanti alla tavola imbandita della domenica.
 
La signorina Bacchetta si lavava le mani nel catino di smalto, aveva già tolto il grembiule e messo via i suoi ferri. Aveva accettato l’invito a pranzo, aveva accettato anche l’involto con dodici uova fresche che la madre della puerpera le aveva offerto. Si sentiva un buon profumo venire dalla cucina e il rumore delle stoviglie.
“Amilcare, il bambino?” disse la suocera mescolando in un pentolone.
“Dovrebbe essere già indietro,”
“Gli vada incontro che metto in tavola.”
Amilcare prese la sciarpa e il cappello e uscì. Scese le scale con calma e vide Giorgio seduto sull’ultimo gradino in basso. Stava curvo con i gomiti puntati sulle ginocchia, appena lo sentì alzò la testa e lo guardò.
“E’ un maschio” disse il padre e sorrise.
Giorgio si alzò e salì le due rampe.
Entrò diretto in cucina senza guardare la porta della camera dei genitori. Allungò le mani davanti alla stufa, si sentiva allargare il petto in un respiro.
A tavola per tutto il tempo guardò nel piatto, mangiava piano. C’era il pollo con la polenta ma s’era guastato l’appetito coi dolci. La nonna e la levatrice discutevano a mezze parole le cose del parto, alludevano, alzavano i sopraccigli per colmare i vuoti. Come se lui non capisse. E gli sarebbe andato bene di non capire, se solo fosse stato capace. Si sentiva la faccia rossa di vergogna. Per il resto c’era silenzio, forse la mamma dormiva. Suo padre si versò il vino, non parlava. Luisa mise un dito nella polenta, scavava un buco, poi un altro. Guardava sua nonna da sotto in su. Guardava suo padre. Mise il dito in bocca. Guardò Giorgio e lui le fece segno di no con gli occhi, muovendo appena la testa.
“Signor Amilcare,” disse a un tratto la Bacchetta, “si ricordi che deve andare in comune per mettergli il nome.”
“A Milano?”
“Siamo anche qui a Milano,” rispose lei con una risatina.
“Eh. Mi tocca chiedere una giornata di permesso. Se era qua, invece.” Amilcare si pulì la bocca col tovagliolo per troncare il discorso.
“Qua era più comodo,” convenne lei, “ma ci sono altri vantaggi.”
La suocera aprì la bocca per intervenire, guardò Amilcare che si era rabbuiato e invece si alzò da tavola, “faccio il caffé”.
“Il comune di Affori aveva più di mille anni, lo sa?” riprese Amilcare, piegò il tovagliolo e scosse la testa. “Di vantaggi per noialtri non ne vedo. I vantaggi son tutti per loro.”
“Prima di andare controllo un’ultima volta come sta la signora Rina,” disse lei alzandosi. Le sembrava di aver toccato un brutto tasto, non valeva la pena. Del resto non le importava niente della politica.
Giorgio aspettava solo che gli dessero il permesso di alzarsi da tavola. Non voleva ascoltare niente, riconosceva quella nota arrabbiata nella voce di suo padre, una rabbia educata, trattenuta. Sarebbe andato a letto a dormire se solo avesse potuto.
“Vieni qui Giorgio, guarda.”
La nonna aveva sparecchiato e stava lavando i piatti. Suo padre aveva aperto sul tavolo il giornale di oggi e vicino ci aveva messo il suo.
“Leggi un po’ la data?” disse e sorrise. Questa la sapeva a memoria, ogni anno al suo compleanno gli faceva vedere il giornale che aveva messo da parte dal giorno in cui era nato.
Suo padre aveva la mania della storia. Non parlava quasi mai ma se incominciava a raccontare un fatto, più vecchio era e più si infervorava. Leggeva apposta dei libri, era capace di contraddire anche la sua maestra, diceva che gli faceva studiare le bugie. Come faceva a saperlo, poi, se nemmeno lui era ancora nato.
“Vuoi andare a vedere il fratellino?” disse Amilcare. La nonna si fermò e voltò la testa verso di loro. Lui alzò le spalle.
“E la mamma? Non la vuoi salutare?”
Abbassò il mento di colpo e guardò in giù come se l’avesse colto in castagna.
“La prendo come un sì?”
Lui non si mosse, suo padre gli accarezzò una spalla, lo spinse dolcemente, “dai, andiamo.”
Amilcare bussò alla porta, Rina disse avanti con una voce squillante che sembrava stesse cantando. Il padre entrò deciso, Giorgio si fermò sulla soglia. La stanza era in ordine, sua madre era seduta nel letto con due cuscini dietro la schiena.
“Vieni qui ninin.” Aveva i capelli ben ravviati, una camicia da notte pulita e gli sorrideva, gli tendeva le braccia.
Lui esitava, si avvicinò svogliato, la guardava fissa per cercare di capire.
“Mamma,” disse piano, “stai bene adesso?”
“Sì, sì, sto bene. Vieni qua.” Picchiò con la mano sulla coperta, si spostò un poco per fargli spazio. “Cos’hai fatto stamattina? Sei andato a messa?”
“Sì” rispose lui. Si sedette sull’orlo, si appoggiava appena, circospetto, “davvero stai bene?”
Gli veniva da piangere ma resisteva, era un po’ arrabbiato e un po’ sollevato. C’era un buon profumo nella stanza. Borotalco, lavanda, camomilla. Era l’odore di lei. Giorgio chiuse gli occhi. Prese un respiro.
“Hai gridato tanto, mamma. Non finivi più.” Deglutì, non voleva piangere.
Lei sorrise ancora. Cosa avranno tutti da ridere, pensò lui e si lasciò abbracciare, affondò nella sua spalla e respirò, respirò. Si lasciava accarezzare anche la testa, non si muoveva.
Amilcare era rimasto in mezzo alla stanza, in piedi. Si scambiò uno sguardo con la moglie. “Vogliamo conoscerlo questo fratellino?” disse con una voce un po’ troppo allegra che rimbombò nella stanza.
Giorgio si staccò, si guardò intorno. Non l’aveva visto, era lì nel letto, vicino alla mamma. Era rosso e grinzoso e pelato, aveva la testa storta, era bruttissimo. Un mostriciattolo.
“E’ bello, vero?” disse il papà.
Giorgio si voltò e lo guardò, poi guardò il bambino che dormiva. Avrebbe voluto andare di là dalla nonna oppure uscire. Andare a scuola, all’oratorio. Fuori.
Si allontanò dalla mamma, si alzò in piedi.
“Come si chiama?” chiese, cercando di essere gentile.
“Danilo” rispose suo padre.

(continua)

 

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