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L'occhio del coniglio 5. L’emporio aveva il soffitto curvo come una grotta

Post n°679 pubblicato il 24 Gennaio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Il quinto capitolo del romanzo L'occhio del coniglio. Ho pensato di metterne sempre uno anche a metà settimana, oltre a quello fisso domenicale, così la facciamo fuori, ma se vado troppo in fretta dimmelo.

 

L’emporio aveva il soffitto curvo come una grotta o una galleria. Era uno stanzone lungo e stretto, tappezzato di scaffali pieni di vasetti, barattoli, bottiglie, canne da pesca, maschere, pinne, ciabatte da spiaggia, palloni, coltelli di ogni genere e forma, giocattoli, giornali, ceste di frutta, magliette e bandierine con il negretto bendato. Sul davanti, vicino all’uscita c’era il bancone con i vassoi del patè, i formaggi, le vasche con miscugli misteriosi che galleggiavano nel liquido iridescente. In fondo c’erano scatoloni e barili, si faticava a passare. In alto un cielo di salumi. Quattro o cinque sbarre nere erano piantate nei muri da parte a parte e sulle sbarre erano appesi i prosciutti, le coppe, i salami, le salsicce, i lonzi  e altri insaccati dalle forme strane che Anita non avrebbe saputo nominare. Riempì il cestino di vasetti di patè a base di tutti i tipi di uccelli e selvaggina conosciuti e sconosciuti, si fece tagliare una generosa fetta di terrine - come la chiamano loro, un patè a grana fine come quello che si mangia a Natale, ordinò una mezza forma di pecorino e si fece staccare dal padrone in persona un bel lonzo maturo. Prese anche quattro baguette, due sacchetti di biglie  di vetro e un coltello da marinaio. Si fece mettere tutto dentro una grande borsa di paglia con un girasole ricamato su un fianco, l’avrebbe usata per gli asciugamani quando andavano in spiaggia.
La signora alla cassa non l’aveva riconosciuta, era normale con tutto il passaggio che c’era d’estate a Macinaggio. Lei invece se la ricordava da quando questo era l’unico negozio del paese. Era un po’ ingrassata, sotto al mento aveva una collinetta che prima non c’era, del resto chi rimane sempre uguale? L’emporio, quello sembrava lo stesso da vent’anni. Tornava sempre lì anche se adesso c’era il supermercato, più pulito e ordinato, magari anche più economico.
 
Il vento era ancora molto forte e Carlo aveva accettato di stare fermi una giornata. Fosse stato per lui sarebbe andato avanti anche se nella traversata aveva dormito poco o niente.
“Ti brucia il culo?” gli aveva detto, “Siamo in vacanza, chi ci paga?”
Lui era rimasto lì senza rispondere. Poi le aveva voltato le spalle e si era messo a frugare in un gavone.
Meglio apparecchiare in cabina, pensò Anita guardando dall’oblò sopra i fornelli, fuori ti vola via la faccia.
Viola leggeva sdraiata a pancia in giù sul divano. Carlo trafficava con la pompa dell’acqua rotta sul tavolo da carteggio borbottando tra sé, si muoveva a scatti e ogni tanto la picchiava con un rumore che superava quello del vento e faceva voltare tutti. Giulio rotolava due biglie sul tavolo del quadrato, le spingeva con le dita fino a mandarle contro il bordo rialzato dall’altra parte. Aspettava il rimbalzo con le mani appoggiate sul legno in modo che formassero un imbuto e se le palline entravano nella trappola diceva piano gol e le spingeva di nuovo di là.
Anita appoggiò il tagliere lì vicino, col coltello nuovo liberò una parte del lonzo dalla cotenna polverosa che lo rivestiva tutto e tagliò le prime fette.
“Che odore. Cos’è?” disse Giulio coprendo le biglie con le mani.
“Non è che ti sei seduto col costume bagnato?”
Si mise una mano sotto il sedere e scosse forte la zazzera nera. Sulle spalle abbronzate luccicavano piccoli grani di sale.
“Però non l’hai fatta la doccia.”
“Tanto dopo andiamo ancora in spiaggia, vero papi?” riprese a far correre le biglie sul tavolo.
“Allora ti piace il regalino che ti ho portato.”
“Soprattutto quella viola” ridacchiò guardando sua sorella. Lei alzò la testa e gli mostrò la lingua.
“Ma cos’è sta puzza?” disse ancora, arricciando il naso spelato dal sole.
“Questo? È un lonzo.”
“E cos’è?”
 “Una specie di prosciutto.”
“Eh?”
Anita avrebbe voluto farne uscire tante fette sottili e regolari, ma quando scarseggiava si rompevano, se invece abbondava venivano fuori spesse come bistecche di cuoio che poi nessuno sarebbe riuscito a masticare.
Passò una barca vicino a loro, si sentì il rumore del motore e subito dopo un lieve dondolio. Uno dei gatti saltò giù dalla cuccetta nella cabina di Viola e salì sulla scaletta, fermandosi a guardare fuori dall’ultimo gradino.
“Mamma, cosa vuol dire una specie di prosciutto?” Giulio prese a battere le biglie una contro l’altra con un fastidioso rumore di vetri.
“E’ come un prosciutto, solo che è di centauro.”
“E cos’è un…”
“Mezzo cavallo e mezzo uomo.”
Viola ridacchiava senza far rumore, con la testa bassa sul libro e i capelli che le nascondevano la faccia.
“Ma noi siamo cannibali?”
“Ma no, il prosciutto si fa con la coscia. La parte sotto è cavallo.”
“Non è vero. Quelli sono cartoni animati, non sono veri.”
Anita dispose le fette su un piatto e lo mise in mezzo al tavolo. Prese una baguette dal sacchetto di stoffa appeso vicino al lavandino.
“Come non esiste. Guardalo qui se non esiste” appoggiò il pane sul tagliere e si voltò per prendere dal cassetto il coltello a seghetta.
“Allora io non lo mangio.”
Mise le fette di pane in un cestino.
“Non sai cosa ti perdi.”
Giulio si era avvicinato al piatto e lo stava annusando.
“Mamma, non è vero.”
“Non lo sai che nelle montagne qui dietro, quelle belle alte che si vedono dal largo, è pieno di centauri? Ce ne sono interi branchi che galoppano sui sentieri, brucano l’erba e fanno il bagno nei laghetti. Però è quasi impossibile vederli, se sentono avvicinarsi qualcuno si nascondono nei boschi. Sono molto intelligenti, per catturarli devono mettere trappole complicatissime.”
“Ma i centauri non sono quelli che vanno in moto?” disse Viola. Aveva chiuso il libro e adesso guardava la faccia di suo fratello.
“Quella è una metafora” rispose Anita con la testa dentro il pozzetto del frigo. Ne riemerse con un sacchetto di carote che appoggiò sul tavolo. Si sedette vicino a Giulio e cominciò a pelarle con l’apposito attrezzo.
“Cos’è?” disse Giulio, spingendo via il piatto del lonzo.
“Cos’è cosa? Un pelapatate? Una metafora? Un modo di dire. Vuoi una carota?”
Mise sul tavolo le tovagliette e una pila di piatti. Voltandosi notò che Carlo non aveva smesso di trafficare ma sorrideva. Prese dal frigo una serie di cartocci e li mise sul tavolo. Patè, formaggio fresco, pecorino. Viola aveva distribuito le tovagliette e stava mettendoci sopra i piatti.
“Io però l’uomo cavallo non lo mangio” disse Giulio imbronciato.
“Credevo si fossero estinti” intervenne Viola.
“Perché, di che colore erano?”
“Estinti vuol dire morti tutti” rispose facendo la voce da maestrina.
“Sul continente si sono estinti. Se ci pensi, a Milano il lonzo non c’è. Ma qui e soprattutto dietro la punta, a Centuri, che difatti prende il nome…”
Anita prese dal frigo una bottiglia di Coca e si sedette vicino a Giulio.
“Se non ti va l’uomo cavallo fa niente, tanto è piccante. Ti spalmo un po’ di patè?”
“È pronto?” Carlo alzò le braccia e inarcò la schiena, guardando verso la tavola.
“Quando vuoi.”
“Cosa c’è di bello? Mmh, l’uomo cavallo, il mio piatto preferito.”
“Ma è vero?” disse piano Giulio alla sorella.
“Se lo dicono loro …”

 

(continua)

 

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