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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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L'occhio del coniglio 10. Se un uomo a questo mondo.

Post n°690 pubblicato il 10 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Finché nessuno mi ferma io vado avanti, son le puntate del mio romanzone, anzi romanzetto che alla fine lo vedrai anche tu, è corto. Poi stasera se ce la faccio o domani al massimo, scrivo anche le mie considerazioni sull'EDS appena concluso, lo so che ci tieni e non mancherò.

Buona lettura.
 
Se un uomo a questo mondo ha il diritto di dire che si è fatto da sé, questo uomo è Amilcare Bertani. Non aveva ancora nove anni quando morì suo padre e sua mamma era così povera che aveva dovuto toglierlo dalla scuola e mandarlo a lavorare per aiutarla a dar da mangiare agli altri due figli piccoli. Gli toccava scaricare sacchi di carbone che pesavano più di lui, era un lavoro da bestie e lui se lo ricordava bene, coi geloni nelle mani e nei piedi, che a Milano ghiacciava l’acqua nelle tubature. Lo sapeva solo lui i sacrifici che aveva fatto per imparare la ragioneria e due lingue straniere, tutto da autodidatta, per quanto i suoi figli lo prendessero sempre in giro quando lo raccontava. Quando aveva bevuto un qualche bicchierino di Strega si faceva venire la voce stridula e non badava alle occhiatine. Se era in buona o c’era presente un estraneo, un parente, un amico, si toglieva gli occhiali, ci alitava sopra come per prendere fiato e non la finiva più. Era l’unico argomento che lo infervorava.
“C’è poco da ridere, per dieci lire al mese piuttosto che andare ai martinit mi spaccavo i polmoni col sacco rovesciato sulla testa e la cesta in spalla. Alla sera mi levavo via la pelle per lavarmi con l’acqua fredda e la lisciva, nessuno doveva dire che ero un tencitt!”.
Giorgio allora lo inzigava: “Raccontaci di quando eri povero e bello.”
Lui si fermava pensieroso e stringeva le labbra, si voltava dall’altra parte e si metteva a leggere il giornale senza dire più una parola.
Giorgio subito dopo la guerra non aveva trovato un lavoro. Nessuno trovava lavoro dopo la guerra. I ragazzi si vedevano al Bar tabacchi con biliardo di piazzale Istria e ci passavano i pomeriggi e le sere. Quelli bravi si guadagnavano la giornata. Mino era uno di questi. Quando entrava nel bar una faccia nuova sbagliava apposta qualche tiro, per minimizzare.
“Che sfortuna!” dicevano i suoi occhioni azzurri innocenti. Aspettava di essere sfidato e all’inizio si beveva mezzo castello, per dargli sicurezza. Poi quando era sotto di 10, 15 punti cominciava la rimonta inesorabile. A volte Giorgio gli faceva da compare, poi si dividevano il guadagno. Il trucco era lasciar credere al pollo che non si trattava di abilità ma solo di una combinazione accidentale, per invogliarlo al raddoppio. Quel pomeriggio avevano tirato su cinquemila lire a testa, meglio che andare a lavorare. Mentre erano in bagno a lavarsi via il borotalco dalle mani, Giorgio invitò Mino a cena, per festeggiare.
“Ma non lo dire a mio padre” disse poco prima di entrare nel portone di viale Zara.
“Ovvio” rispose Mino.
Luisa stava apparecchiando la tavola in cucina e quando vide entrare il fratello con l’amico andò a prendere un altro piatto nella vetrinetta della credenza. Non c’era neanche bisogno di dirlo, in quella casa. Aveva l’impressione di conoscerlo quel bel ragazzo, l’aveva già visto perché abitava nel quartiere, forse addirittura in viale Zara qualche portone più in là. Così alto, biondo, con quegli occhi e il portamento da attore del cinema non era uno che passava inosservato.
“Gradisce un bicchierino di Strega?” disse Amilcare alla fine, spingendo via il piatto vuoto.
“Sì, grazie! E’ proprio quello che ci vuole dopo questa bella cena, complimenti signora Rina” Mino sorrise, piegò il tovagliolo e lo accarezzava come per stirarlo. Lei lo guardò di traverso, “Isa, Danilo, andate a letto ” disse come se non avesse sentito.
“Dai mamma, lasciali star su ancora un po’”, Giorgio era tutto euforico, si alzò, portò i piatti nel cucinino, si mise a sedere di nuovo “che papà adesso ci racconta di quando l’hanno messo al palo” .
“Ma no, cosa vuoi che interessi” disse Amilcare versando il liquore, ma sorrideva.
“A me interessa” disse Mino, che aveva capito al volo.
Amilcare era un ragazzo del novantanove, quando fu richiamato la grande guerra non era ancora finita, aveva appena compiuto diciottanni. Non aveva fatto Caporetto ma sul Piave ce l’avevano mandato e sotto certi aspetti era stato anche peggio. C’era sempre meno da mangiare, erano equipaggiati malissimo, lo zaino pieno di cianfrusaglie e come arma solo un vecchio novantuno con la baionetta e sei colpi in tutto. Nella trincea faceva un freddo cane, era una pozzanghera alta mezzo metro, i piedi con le pezze non si asciugavano mai, altro che reumatismi. Ma la cosa più brutta era la diarrea. A questo punto del racconto Amilcare faceva sempre una pausa drammatica e i figli guardavano il soffitto alzando le sopracciglia.
“Cosa non va, Luisa?” disse Mino, “Ti annoi perché sai già come va a finire?”
Lei arrossì, era la prima volta che le rivolgeva la parola in tutta la serata, pensava non l’avesse nemmeno vista.
“Ma no, non è quello. E’ retorico. Mi sembra quello che li fermeremo sul bagnasciuga” disse tutto in un fiato con le gote in fiamme, pentendosi subito.
“Ma che retorico! È vero!” gridò Amilcare picchiando un pugno sul tavolo, “e il rispetto per i genitori?”
Tutti quanti lo guardarono stupiti.
“Cosa c’entra adesso il rispetto” ridacchiò Rina, “ci crediamo che è vero e io più di tutti. Ma delle volte ti fai prendere un po’ dall’eroica.” Gli carezzò una mano e si appoggiò allo schienale della sedia.
Giorgio rideva sotto i baffi, come se non fosse stato lui a montare su tutto il gibilè.
“Scusa papà, non volevo” disse Luisa con un filo di voce, le guance rosse e la testa bassa.
Lui non la guardò neanche, ce l’aveva con sua moglie.
“Ma come fai a dire che faccio l’eroica che non sono ancora arrivato al punto. Come fate a dire retorica, mica c’eravate voi là, a prendersi i proiettili dei cecchini!” disse secco, alzando il mento.
Mino guardò Giorgio che abbasso le ciglia una volta, con lentezza calcolata.
“La prego, signor Amilcare, continui a raccontare, mi interessa,” disse poi, toccandosi il naso. Lui lo guardò dritto in faccia, Mino sostenne lo sguardo senza spavalderia, come uno che dice per davvero.
“E insomma, per farla breve era tre giorni che avevo un movimento intestinale che mi spossava, da mangiare quasi niente, l’acqua sapeva di muffa, non stavo in piedi. Poi non è che ci fossero delle latrine vere e proprie, si andava in un cantone scavato nella terra e dopo una settimana e quel picio pacio che pioveva tutti i giorni, con tutto il rispetto, non le dico.” Amilcare adesso parlava spedito senza guardare nessuno, come se vedesse davanti agli occhi la scena. “Ho detto al sergente che volevo marcare visita. Questo era un fetente di Caserta, Rizzuto si chiamava, me lo ricordo ancora adesso. Sergente Rizzuto, gli ho detto, io devo marcare visita, ho la diarrea da tre giorni, stu minga in pé. Quella mattina avevano marcato visita già in quattro o cinque, s’è incazzato, se l’è presa con me: tu sei un codardo, mi ha detto, marchi visita perché te la fai sotto dalla paura. A me! Codardo a me che avevo fatto l’assalto pochi giorni prima che non so come non mi sono fatto ammazzare. Ero un fiulet, non mi facevo ancora la barba signor Amedeo, un bamba incosciente ero, altro che codardo. M’ha mandato al palo quattro ore. In pieno giorno. Il palo sporgeva fuori dalla trincea, gli austriaci erano a meno di mezzo chilometro, mi sono spiegato signor Amedeo?”
“Non ho capito bene: ma lei era legato al palo?” disse lui, “ e mi chiami pure Mino, come fanno tutti, e mi dia del tu: ho solo due anni più di Giorgio!”
“Caro Mino, allora non hai capito: ero legato a un palo, senza nessun riparo sotto il fuoco nemico! Una paura che mi ha fatto passare anche la diarrea, sembra una roba da ridere ma è così, mi è venuto un blocco intestinale dallo spavento, mi ero contratto così tanto che poi, quando mi hanno tirato giù, per un po’ non sono riuscito a piegare le gambe, non potevo sedermi, gnente, duro come un bacalà. Mi hanno appoggiato al muro come un bastone che se no andavo giù piatto. M’era venuto il rigor mortis anticipato!” e scoppiò a ridere.
Mino aveva spalancato gli occhi e non si capiva se ci credeva o se pensava fosse tutto uno scherzo e gli stesse dando corda per qualche sua oscura ragione. Guardò Giorgio e scoppiò a ridere anche lui, battendosi pacche sulle gambe.
“E comunque l’importante è essere qui a raccontarlo, signor Amilcare” disse, tornando serio all’improvviso. Luisa lo stava guardando.
(continua)

 

Amilcare era un ragazzo del novantanove

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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