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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Ah, look at the lonely people 1/2

Post n°885 pubblicato il 13 Marzo 2014 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

A Giorgio Fontana, a quegli altri là
e alle cose belle che non ci sono più




“La cugina della maestra Pietrobono. Sì, sono la cugina della maestra di catechismo. Mi apre per piacere?” Luigina aveva appoggiato la guancia alla grata del citofono, come se la contiguità con l'altoparlante potesse far uscire una voce umana dall'apparecchio. Schiacciò di nuovo il pulsante e questa volta si aprì la serratura automatica del portoncino della canonica. Spinse il battente e si trovò nel vestibolo dal quale si diramavano due corridoi e una rampa di scale. Si accese una luce. Luigina arricciò il naso: si sentiva un odore dolciastro come di caramelle, o liquirizie, forse spuma all'arancia? Chinotto? Era un profumo inconfondibile che veniva da un luogo lontano dello spazio e del tempo, era odore di oratorio.
Un uomo altissimo e quadrato le venne incontro. Aveva un maglione a dolce vita grigio scuro, pantaloni neri e in testa un berretto nero, un basco di velluto o di panno.
“Sono la cugina della maestra di catechismo. Ho portato il registro. Sa, si è slogata una caviglia e...” Disse porgendo un involto all'omone. Lui lo prese e girò sui tacchi senza lasciarla finire.
“Bè, allora la saluto. Buonasera!” disse ancora lei. Lui, niente.
Lo guardò girare l'angolo del corridoio dal quale era venuto. “Grazie. Prego. Ma si figuri. Non c'è di che. Saluti a casa.”
L'interruttore automatico scattò e la luce si spense. Luigina strisciò i piedi fino al portone, trovò il pulsante di apertura e in un momento era fuori nella pioggia.
Mentre apriva l'ombrello vide le strisce di plastica bianche e rosse che delimitavano il parco giochi per i più piccoli. Anche il campo di calcetto era sigillato, tutte le aree all'aperto dell'oratorio erano state chiuse, non ci aveva fatto caso arrivando, sarà stato per l'ombrello azzurro che le riduceva il campo visivo, sarà perché il portone della canonica si apriva su un cortile interrato, stretto e buio anche di giorno, oppure perché quando era a Milano staccava la spina e ignorava volutamente ogni riferimento al lavoro.
Mezzora dopo era sprofondata in poltrona a casa di sua cugina Germana.
“Ma chi è quel tizio che sembra il cameriere degli Addams” disse. Aveva preparato il té per entrambe e aveva messo il vassoio sul tavolino.
“Chi Nino? E' il sacrestano” disse Germana. “E' qui dai tempi.”
Luigina aprì il coperchio della teiera per controllare il colore dell'infuso.
“Ma gli manca qualche cosa?”
“Una rotella, dici?”
“Eh.” Versò il té nelle tazze.
“Bè. Insomma. Non è un chiacchierone. Però.”
“Ah, se lo dici tu. Piuttosto, come mai il nastro segnaletico dappertutto?” prese un biscotto di quelli che aveva portato da Torino.
“Non te l'ho detto?”
“Cosa?”disse con la bocca piena.
Germana mise due cucchiaini di zucchero, versò un po' di latte e mescolò.
Luigina la guardava.
“Hanno trovato uno morto impiccato nei giardinetti dell'oratorio.”
“Suicidio?”
“Forse no.”
Luigina appoggiò la bocca alla tazza, prese un piccolo sorso e la rimise giù. Scottava.
“Dunque c'è un delitto. Forse. Lo conosci?”
“Lo conoscevo sì.”
“Ma dai.”
“Lo conoscevo piuttosto bene. Prima che sparisse nel nulla quarant'anni fa.”
“Ah, però.”
“Eh sì. Padre Mecchi. Mecchi Enzo. Io non abitavo ancora in questa casa, stavo a porta Romana con i miei genitori e non ero ancora nemmeno laureata, facevo il tirocinio dalle suore qui di fronte, le Madri Pie. Non c'è più il convento, hanno lottizzato la proprietà e ci hanno fatto degli appartamenti. Ma una volta c'era l'asilo e la scuola elementare, un piccolo collegio con qualche interna, una decina o forse meno. Io facevo il doposcuola, c'era questo padre Enzo e poi era successa la disgrazia e lui aveva abbandonato la tonaca e se ne era andato via, in America dicono, o in Abruzzo.”
Luigina si era tolta le scarpe. Infilò i piedi sotto la copertina scozzese messa lì per riparare la poltrona.
“E perché sospetti che non sia suicidio?”
“Mah. Non mi sembrava il tipo. Poi non so, sono passati quarant'anni, magari mi sbaglio. I fatti sono che è morta sua madre e lui è tornato per il funerale, ma anche per sistemare le cose. Poi, una settimana fa l'hanno trovato là appeso.” Prese una sorsata di té.
“Hai detto che era successa una disgrazia.”
“Sì. Eleonora Ribbi era morta in chiesa.”
“Mamma mia.” Luigina alzò le mani al cielo, rovesciando gli occhi all'indietro.
“Se non ti interessa non te la racconto.”
“Ma sì che mi interessa, dai. Scherzavo.”
“Eleonora Ribbi era strana. Lavorava dalle suore, lavava i piatti, puliva le camerate, dava una mano in cucina. Era una specie di sguattera. Le suore l'avevano presa da un orfanotrofio quando era una bambinetta, la facevano lavorare perché non era portata allo studio, dicevano. Era molto bella ma sciocca. La tenevano sempre chiusa perché avevano paura che si rovinasse, sai com'è. Era come una bestiolina. Se ne stava sempre sola, quando non doveva lavorare andava nel prato dietro la chiesa a cogliere le margheritine e quei fiori gialli del tarassaco, sai, e anche le violette selvatiche, faceva dei mazzetti e li portava alla statua della madonnina in giardino. Quando c'erano i matrimoni la mandavano là per cantare e lei scappava sul sagrato e prendeva su il riso che buttavano alle spose, faceva una sacca con la gonna e ce lo metteva dentro, come certe stampe delle contadine seminatrici, chissà dove l'aveva visto fare. Te l'ho detto che era strana. Aveva i capelli biondi e una pelle così bianca e trasparente che si vedevano le vene sulla fronte. Aveva gli occhi azzurri e le ciglia chiare chiare. Poi guardava gli uomini in un modo che li faceva arrossire a loro, non aveva paura di nessuno. Per quello le suore la tenevano stretta.”
Germana si accomodò meglio lo scialle che la avvolgeva tutta, Luigina appoggiò la testa allo schienale della poltrona.
“Ma qualche cosa deve essere successa. Una notte non è tornata a casa, insomma nel convento, e la mattina dopo l'hanno trovata morta in chiesa. Dissanguata dicono. Forse un aborto riuscito male, a quei tempi là era così: o il prezzemolo o il ferro da calza. Non si è mai saputo. Le suore hanno messo tutto a tacere. Padre Enzo è sparito subito dopo, o qualche settimana dopo. Io mi sono laureata. Ho insegnato un po' lì dalle suore, poi ho vinto il concorso e sono passata di ruolo, sono andata alle scuole pubbliche. Ho fatto tre cicli alla Muzio ma ho continuato a frequentare questa parrocchia, mi ero affezionata. Sono cambiati tre parroci nel frattempo: padre Antonio, padre Giacomo che adesso è morto e padre Ottavino che è quello attuale. Padre Antonio abita ancora qui nel quartiere. Anche lui è in pensione da un po' di anni, l'avevano mandato a Tortona e poi è tornato qui.”
Germana aveva allungato le gambe e appoggiato le mani in grembo. Guardava verso la finestra come se potesse andare oltre, attraversare il vetro e il tempo. Ma il buio nero rifletteva solo le sagome di quello che c'era dentro la stanza.
“Perché non me l'hai detto subito? Avevi paura che mi mettessi a ficcanasare?” disse Luigina picchiettandole la mano.
“Mah. No. Te l'avrei detto. Sei arrivata solo stamattina. Pensavo di raccontartelo con calma stasera a cena.”
“Germana, tu non me la conti giusta. C'entri qualcosa?”
“Ma no.”
“E dai.”
“E' una storia vecchia. E ormai è morto. “
“Padre Mecchi?”
“Enzo, sì. Era una persona speciale e non avrebbe dovuto finire così.”
“Hai continuato a frequentarlo?”
“Ma no. Era sparito.”
“Quindi sei rimasta fedele a una storia impossibile di quarant'anni fa.”
“Lo vedi? Anche in vacanza non smetti di fare l'ispettore capo Pietrobono. Sono tutte cose finite, sono storie dell'altro secolo. Enzo era un intellettuale, una persona di un livello stratosferico rispetto a tutti gli altri, ma anche rispetto alla missione cui sembrava destinato. Uno studioso, un uomo colto. Ci credo che poi non era capito. Diceva messa alle sette di mattina, c'erano solo le vecchiette insonni, che cosa potevano capire delle sue prediche? Citava San Tommaso D'Aquino, Sant'Agostino. Nessuno le capiva le sue prediche.”
“Tu forse lo potevi capire.”
“Io sì, forse. Però io non ero graziosa.”
“E quindi?”
“Quindi niente.” Germana prese a dondolarsi avanti e indietro. Luigina guardò a sua volta fuori, verso la finestra che dava sulla rotonda che una volta era un semplice incrocio a tre vie, da una parte la chiesa di Sant'Angela, dall'altra parte le Madri Pie e sul terzo lato il complesso di case rosa a due piani dove abita Germana.
“Dai. Vado. Lasciami andare a far la spesa che stasera cucino io.”

Luigina aveva comprato due orate, all'ultimo ci aveva aggiunto quattro capesante come antipasto, Carlo il pescivendolo di via Cagliero le vendeva già gratinate da mettere in forno. Aveva preso il pane e anche un pezzo di strudel. Il vino bianco l'aveva portato da casa al mattino. Non si capisce perché due donne sole non debbano trattarsi bene, diceva sempre mettendo le mani sui fianchi. Poi era una cenetta semplice, bastava che il pesce fosse fresco e ben condito, il forno caldo e il vino freddo.
Apparecchiò in cucina ma mise la tovaglia di fiandra e i bicchieri del servizio. Germana la guardava andare avanti e indietro tra frigo e bancone come se fosse a casa, non sbagliava un cassetto. Pensò che la prossima volta che fosse andata a Torino per il festival le avrebbe cucinato qualche cosa di speciale invece di uscire come facevano sempre. Poi forse no, era sempre Luigina a prendere in mano la situazione, organizzava aperitivi, cene etniche o spuntini nei locali lungo il Po, c'è una differenza tra essere in pensione oppure ancora nel giro del lavoro. E poi, in fine, a lei non dispiaceva lasciarsi coccolare, un paio di volte l'anno.
“Smettila di versarmi il vino. Mi vuoi proprio far parlare eh.” Ridacchiò Germana. Spinse via il piattino con le briciole del dolce e si appoggiò allo schienale. Aveva le guance rosse e la voce squillante.
Luigina alzò i sopraccigli e si puntò un dito al petto, come dire chi io? con l'aria più innocente che riusciva a recitare. Era curiosa sì, ma non aveva fretta, sarebbe rimasta qualche giorno a Milano. E poi, in caso, poteva fare un salto a trovare i colleghi al commissariato di via Schiapparelli, magari prima di partire, tanto ci passava davanti andando alla stazione.
“Vuoi il caffè?” chiese invece, a titolo di risposta. “Hag, ovviamente.”
“Sì, ma solo se lo prendi anche tu.” Luigina sì alzò e si mise a trafficare davanti al lavandino.
“Giocavamo a bridge. Due o tre sere alla settimana.” riprese Germana dopo un po'.
“Tu e chi? Oltre a Mecchi, immagino.” Luigina aveva messo la moka sul fornello. Prese le tazze direttamente dallo scolapiatti, mise in tavola la zuccheriera.
“Sì. Io, Enzo, la Madre superiora e Padre Antonio, il parroco.”
“Eleonora?”
Germana sorrise, scosse la testa: “No, Eleonora stava lì nei dintorni ma non sarebbe stata in grado. Disegnava, oppure cantava a bassa voce. La Madre se la portava per tenerla d'occhio. Giocavamo un paio d'ore, dalle otto di sera alle dieci, non di più. Le suore mangiavano presto e noi ci adattavamo.”
“Giocavate al convento, quello che adesso non c'è più?”
“Qualche volta giocavamo lì, nell'ufficio della Madre. Ma di solito andavamo in canonica. Nino ci preparava i panini.”
“Chi? Lurch?”
“Dai, povero Nino,” rise Germana. Luigina versò il caffè.
“Una volta non era così. Cioè. E' sempre stato un po' chiuso di carattere.”
“Intendi dire muto?”
“Sciocca.”
“Bè, doveva essere una bella corte dei miracoli, questo gigante silenzioso, la vispa Eleonora saltellante sul sagrato, il pretino intellettuale...”
“A me sembrava tutto normale. Piuttosto normale.”
“Già. Comunque. Chi era stato?”
“Eleonora? Nessuno ha mai sostenuto che non fosse morta di morte naturale.”
“No, volevo dire chi era stato a...”
“A metterla incinta? E chi lo sa. Avrebbe potuto essere chiunque.”
“Ma anche nessuno. Non mi avevi detto che le suore la tenevano d'occhio?”
“Sì. Infatti è strano.”
“Doveva essere per forza qualcuno che conosceva bene, altrimenti forse non si sarebbe lasciata avvicinare”
“Tolto Nino che era un ragazzo a quei tempi e faceva il chierichetto, gli altri uomini con cui aveva confidenza erano solo Padre Enzo o il parroco. Mi sembra improbabile.”
“Già. E di Padre Enzo che mi dici. A parte il fatto che ti piaceva, l'ho capito sai.”
“Sì, mi piaceva. Parecchio. Ma non ho mai lasciato intendere niente. La sua natura umana era fuori discussione per me, era un sacerdote, capisci? Poi io stessa mi sentivo fuori discussione. Te l'ho detto.”
“E dopo la morte di Eleonora lui fuggì via. Non ti ha mai impensierito questa cosa? Nessun dubbio? Sospetto?”
“Sono andata via anch'io. Quel fatto ci ha sconvolti e dopo niente è stato più come prima. Forse la gravidanza ancora più della morte. Erano anche altri tempi. Abbiamo smesso di giocare, quelli di noi che erano ragazzi sono diventati adulti. ”
“E quelli che erano già adulti? La superiora? Padre Antonio?”
“Eh, chi lo sa. Sono rimasti sconvolti anche loro.”
“Un altro pianeta, a pensarci.”
“Già. La mamma di Enzo ha continuato a frequentare la parrocchia, anche quando lui è sparito. Era già vedova, abitava in una di quelle palazzine di piazza Farina, proprio dietro la chiesa.”
“Quelle al confine con l'oratorio? Dove è stato trovato il corpo?”
“Sì, quelle case lì. Lei stava al secondo piano, la palazzina D mi pare. Pensa che erano anni che non si muoveva più di casa.”
“Davvero? E chi si occupava di lei?”
“Un po' tutti. Le signore della San Vincenzo, le catechiste, quelli che frequentavano la parrocchia. Chi aveva una mezzora passava a trovarla, le portavamo la spesa, le facevamo i piatti. Oltre all'artrosi che le aveva deformato le ossa, non ci sentiva quasi più. Lasciavamo la chiave di casa e del portoncino dentro lo sportellino del contatore, in cortile sul retro della palazzina. Per comodità, lei non sarebbe venuta ad aprire: non sentiva il citofono.”
“E quando è morta è tornato Enzo.”
“Sì. Deve essere sempre stato in contatto, in qualche modo, da lontano.”
“Quando è morta? Voglio dire, molto prima del figlio?”
“Mah. Due o tre settimane fa. Un mese forse. Andiamo a letto? Anche se non ho fatto niente in tutto il giorno sono così stanca.”
“Vai tu. Io sto ancora un po' su. Mi guardo la posta sull'iPad.”
“Allora buona notte.”
La mattina dopo c'era il sole. Era venerdì, Luigina si offri di andare al mercato di via Stresa a fare scorta di frutta e verdura. Uscì verso le nove e mezza, ma prima di andare a fare la spesa attraversò la rotonda per dare un'occhiata al cortile dell'oratorio. Le strisce di plastica bianche e rosse ornavano il cancello del campetto e la ringhiera del terrazzino sopra il cortile. Sembravano quelle fasce colorate che mettono quando è la festa del paese o del santo parrocchiale, luccicavano ancora per la pioggia del giorno prima. Fece il giro dei giardinetti pubblici e attese che una macchina uscisse dal cancello del complesso di palazzine di piazza Farina per poter entrare. A sinistra c'erano quelle verdi e a destra quelle marroni, in tutto una dozzina di case, in ogni casa sei famiglie, due per piano. Solo un'occhiata da fuori, si disse. Ma lo sapeva che non era vero.
Trovò la palazzina D, girò intorno e vide il gabbiotto dei contatori. Le chiavi erano ancora lì, dentro lo sportellino. Si mise i guanti di pelle e si guardò intorno. Non c'era nessuno. In un momento fu nell'androne, sulle scale, davanti alla porta.
“Ah, però.” disse a mezza voce.
C'erano dei sigilli sulla porta. Ma erano rotti. Prese dalla tasca il telefono, si fermò un momento a pensare. Avrebbe potuto chiamare Tropeano, una vecchia conoscenza attualmente in Fatebenefratelli. Ma anche no. Fece tre o quattro foto della porta e dei sigilli rotti, infilò la chiave e entrò.
Chiuse la porta e aspettò di abituare gli occhi alla penombra. C'era odore di naftalina, di acqua di rose e di polvere. Rimase ferma ad ascoltare il respiro della casa. A quell'ora gli altri inquilini erano probabilmente al lavoro o a scuola, il traffico di via Cagliero era molto lontano, i giardinetti deserti, c'era solo silenzio. Usò il dispaly del telefono per illuminare intorno. Un breve corridoio rettangolare e cinque porte. Aperte. Dal bagno arrivava un po' di luce, le altre erano buie. “Una rapida occhiata e non di più”, disse piano. Entrò in bagno, la prima porta alla sua destra. Era un locale stretto e lungo, con i sanitari opachi, la vasca corta, una striscia gialla nel water. Invece di una finestra normale c'era un finestrino in alto e non era provvisto di tapparelle. L'unico pezzo di arredamento, un mobiletto pensile con le antine a specchio appeso sopra il lavabo, era aperto e il suo contenuto sparso sul pavimento.
Tornò in corridoio e prese la seconda porta: la cucina. Fece girare la scarsa luce del telefonino, sufficiente per vedere gli sportelli aperti e gli oggetti sul tavolo e sul pavimento: piatti, pentole, suppellettili. Tutto sparso disordinatamente, le era abbastanza chiaro ormai che chi aveva rotto i sigilli e era entrato per cercare qualcosa aveva avuto una certa fretta.
Lo stesso scenario in sala, poi nella cameretta e nella camera matrimoniale: oggetti sparsi dappertutto e polvere sui mobili. Il letto era stato disfatto, il materasso arrotolato, si vedeva il pavimento di parquet attraverso la rete. E sul pavimento, dall'altra parte del letto, tra il muro e il comodino, si notava una forma nera, rotonda. Come una specie di disco, ma opaco. Si avvicinò con la luce. Era di stoffa o panno nero, era un basco.
“Ma quel cappello lì, a parte Terence Hill quando fa Don Matteo, c'è qualcun altro che lo porta?”
Lo sollevò da una parte con due dita, solo per guardare sotto. Niente, sotto il basco non c'era nulla, solo polvere: da quell'angolazione, con la luce radente del telefonino, vedeva ogni singolo granello.
Si rialzò, “Sto rischiando di inquinare una scena, meglio filarsela. Poi vediamo se è il caso di chiamare i colleghi.”
Ma prima fece un po' di foto: il cappello sotto il letto, l'armadio aperto, gli sportelli in cucina. Prima di andar via guardò ancora sotto al basco, per vedere se c'era un'etichetta, una marca. Seguiva il suo istinto, non sapeva ancora perché lo faceva ma l'avrebbe saputo. Fece qualche altra foto e uscì, sperava di aver lasciato tutto come l'aveva trovato. Rimise le chiavi nella stessa posizione e andò al mercato.


Questa è la prima parte del mio racconto per l'eds in giallo. Domani la seconda.

Intanto eccoti gli altri titoli:

Bitols
97
Giallo canarino
Ritratto in giallo, ocra e carboncino uno due e tre
Riciclo
Giallo di provincia
Dolce come la morte uno due tre
Carmelo Sapienza

 
 
 
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