Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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La data di scadenza è indicata sulla confezione

Post n°921 pubblicato il 03 Luglio 2014 da LaDonnaCamel
 
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Questo è - o era - un vecchio racconto semi inedito, l'avevo scritto quando facevo la scuola alla Scighera con Paolo Cognetti, uno dei primi anni, l'avevano letto più o meno solo i compagni del corso, cioè, era stato per un po' sul sito ma chi vuoi che l'abbia visto. D'estate alla tele fanno le repliche, io anche. Ci sarà poi una seconda parte, forse, e anche una terza, l'alternativa. Infatti questo racconto ha due code, come quelle lucertole che a momenti venivano prese da un bambino ma poi, per fortuna, sono riuscite a scappare. L'ho un po' ripulito ma appena appena: ho tolto il grasso.

Simone oggi lavora. E’ appena uscito da scuola e cammina veloce, non si ferma all’angolo di piazza Massari. Lo vedono da lontano, Vittorio a cavallo del suo Malaguti lo chiama, Fede gli fa un gran gesto con le dita a mazzetto.
“Non posso” grida lui dall’altra parte della strada.
A casa lo aspetta un piatto di pasta nel micronde e se va bene una lattina di coca in frigo.
Accende la tele e si stravacca sul divano col piatto in grembo e i piedi sul tavolino, anfibi compresi.
Non gli dispiace aiutare suo padre dopo la scuola. Lo paga e oltre a questo lo tratta bene, gli dice le cose senza urlare e lui non se le fa ripetere due volte. Sono anche lavori di responsabilità, come contare i pezzi per l'inventario, a volte gli fanno guidare il muletto, mica cazzate da ragazzini.
Mette il piatto e la forchetta nel lavandino e tira fuori i quaderni. Due espressioni e un esercizio di inglese, storia la studierà stasera dopo cena, vuole sbrigarsi per correre al magazzino. Alle tre e mezza è sulla novantadue, si è messo un paio di jeans vecchi e la felpa di una tuta per non rovinare il chiodo. Suo padre indossa sempre un camice verde sopra i vestiti ma lui non arriva a tanto.
“Bravo Simone, vieni che è arrivato il camion della Ferrero” dice il signor Pino “sono tre pallet da mettere a posto."
“E mio padre?”
“E’ in ufficio.”
“Vado a salutarlo.”
Percorre il corridoio scuro tra gli scaffali accompagnato dall’odore di cartone e di muffa, sfregandosi le mani per il freddo. Sembra che tiri vento ma sono i suoi passi veloci incontro all’aria del capannone. In fondo c’è la cabina ufficio con le pareti vetrate e suo padre seduto alla scrivania che spunta le voci di un elenco.
Simone si appoggia con la spalla allo stipite della porta e aspetta. Lo sa che l’ha sentito arrivare.
“C’è da mettere via tre bancali della Ferrero” dice il signor Augusto senza alzare gli occhi.
“Me l’ha detto Pino.”
“E allora vai. Cosa aspetti?”
“Niente.”
Gira i tacchi come un soldato e rifà a passo di marcia tutto il corridoio.
I tre bancali sono stati posizionati davanti allo scaffale giusto. Deve prendere gli scatoloni e appoggiarli sui ripiani, stando attento che si vedano i codici a barre. Deve spostare avanti quelli vecchi, se ce ne sono, in modo che non vadano in scadenza prima di essere venduti. Si dà da fare con impegno e molto presto sente il caldo salirgli dalle ascelle, la schiena gli suda.
Quando ha finito accatasta i tre pianali di legno uno sopra l’altro e li porta fuori in cortile col muletto. Adesso ha sete e va verso l’ufficio per prendersi una bottiglietta d’acqua. C’è Pino che sta discutendo con suo padre, lo vede gesticolare, mentre suo padre parla muovendo appena la bocca. Quando Simone entra nel gabbiotto tacciono entrambi e lo guardano.
“Hai già fatto i compiti?” gli chiede il padre.
“Sì.”
“Fino a che ora stai qui?”
“Tu quando vai a casa?”
“Se non hai da fare ci sarebbe un lavoretto per te.”
Pino lo guarda male.
“C’è qualcosa che non va?” chiede Augusto, secco.
“No, no. Per carità. Faccia come crede.”
Simone guarda ora l’uno ora l’altro e non capisce. Pino esce e non dice più niente. Non saluta neanche.
“Siediti qui che ti spiego.”
Simone si siede e gli sembra strano che suo padre si perda a parlare con lui. Gli sembra che non abbia mai avuto niente da dirgli. Poi non è neanche vero, quando erano in macchina per andare al mare e lui era piccolo gli spiegava come funzionava lo spinterogeno e il mulino a vento e le cose che vedevano passare. E in acqua, mentre gli teneva una mano sotto la pancia gli diceva come doveva muovere le gambe e le braccia, faceva diventare facili anche le cose difficili con la sua voce tranquilla. Gli sembrano secoli ma sono solo pochi anni, a pensarci. Il padre ha sempre lo stesso tono di allora, usa frasi brevi e si ferma spesso, come per assicurarsi che non si perda, che gli venga dietro. Ha anche la stessa faccia di allora, solo i capelli un po’ più radi, la fronte più alta. Simone invece è tutto diverso.
“Mi segui?”
Simone sbatte gli occhi due, tre volte. Non può aver sentito quello che suo padre gli ha appena detto.
“Non so se ho capito.”
“Non è difficile. Vuoi che ti faccio un disegnino?” dice Augusto. Sorride.
“Ma scusa, non è pericoloso?”
L’uomo stringe le labbra. Non risponde.
“Ma papà.”
“Le date di scadenza sono indicative. Se è ben conservata la carne è ottima anche una settimana dopo. E questa è molto ben conservata. Puoi stare tranquillo che non avveleniamo nessuno.” Sorride ancora.
“Bè, comunque è illegale. No?”
“Sì. Ma è anche uno spreco buttare via tutta quella roba ancora buona da mangiare.”
Simone alza gli occhi e li pianta in quelli di suo padre. Cosa vuole dire, veramente?
“E poi non posso fare altrimenti,” continua rassegnato. “Lo fanno tutti.”
“Tutti?” dice Simone voltando la testa di scatto, “tutti chi? E poi, non eri tu a dirmi di non seguire…”
Augusto lo ferma, mostrando il palmo di una mano aperta, “Sì sì, ma questo non c’entra col conformismo. Io sono costretto a fare così altrimenti non lavoro.” Incrocia le braccia sul petto, si appoggia allo schienale della sedia.
“Hai presente le gare di appalto? Le mense, le scuole, la pubblica amministrazione. Tutti vogliono risparmiare e fanno i contratti con chi offre i prezzi più bassi.”
Simone tace. Pensa al rumore dei bambini nello stanzone della refezione, alla sua maestra preferita, la Giovanna. A Vittorio che buttava bocconi di bistecca mezzo masticata sotto il tavolo senza farsi vedere.
Si gratta la nuca. Sfrega i piedi sul pavimento di linoleum. Guarda suo padre.
“Papà, quella carne non è scaduta qui da noi.”
Augusto aspetta, la faccia senza espressione.
“Col nuovo schedulatore la merce resta in magazzino due giorni, al massimo tre. Ho sentito il tizio quando spiegava a Pino come funziona, l’ottimizzazione della gestione del magazzino diceva. L’hai comprato apposta quel programma, dicevi che era costato un sacco di soldi.”
Augusto tira un respiro rumoroso, sta cercando le parole per non disorientarlo, ma è difficile. E’ così intelligente il suo ragazzo. Fin troppo.
“L’alternativa era chiudere o fallire. Fare la fame. Chi mi assume come dipendente alla mia età? Come ci campiamo, in quattro? Con lo stipendio della mamma? Ci ho anche provato, e solo per pochi mesi, qualche anno fa. Ti ricordi quella volta che non siamo andati in vacanza?”
Si ricorda. Un’estate bellissima a girare in bicicletta per i parchi di Milano, loro due e la mamma con la Cate sul seggiolino.
“Quindi sono già tre, quattro anni. E nessuno è venuto a fare dei controlli in tutto questo tempo?”
“Guarda, è meglio che ci fermiamo qui, non occorre che tu sappia tutti i particolari. Lo dico per te.” Distoglie lo sguardo, si passa una mano sulla nuca.
“E comunque,” continua, “tu hai un'idea migliore?”
“Mamma mia, mamma mia.” Simone scuote la testa, vorrebbe che non fosse vero niente.
Vorrebbe essere al parchetto a fare lo scemo sul motorino. E’ un mese che non lo tira neanche fuori dal box. Ma perché?
“E il signor Pietro lo sa? Certo che lo sa, come potrebbe non saperlo. E cosa…”
“Non voleva che ti mettessi in mezzo. Pensava tu fossi troppo piccolo per certe cose. Ma io credo di no.”
Simone non dice più niente. Fa sì con la testa. Ha capito. Rimangono in silenzio per un tempo infinito.
“Va bene, merda. Solo per questa volta. Poi non voglio saperne più niente.”
Si alza dalla sedia. Volta le spalle al padre. Esce dal gabbiotto. Va verso la cella
frigorifera, indossa la palandrana e quando entra la botta di gelo gli schiaffeggia la faccia.

(Continua, forse)

 
 
 
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