Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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La data di scadenza è indicata sulla confezione - il lato B o l'alternativa

Post n°926 pubblicato il 12 Luglio 2014 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Riassunto delle puntate precedenti: questo raccontino ha una testa e due code. Nei giorni scorsi ho pubblicato la testa e tre parti della prima coda. Oggi publico la seconda coda in un pezzo solo. E' finito? Non è finito? Quale ramo vale la pena di portare avanti? Quale delle due storie che si sono venute a formare ti piace di più e perché? E come lo vorresti continuare?

 

inizio in comune

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livello A1
livello A2
livello A3

            

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livello B

 

Livello B

Dopo un numero definito di anni, una tiepida mattina di ottobre, questa mattina, Simone ha deciso che non si muoverà mai più.
Il cellulare ha suonato la sveglia ogni cinque minuti, la vibrazione l'ha fatto camminare verso l'orlo del comodino, è caduto e la batteria è uscita dal suo alloggiamento. Simone è sveglio, si è tirato il lenzuolo sulla testa e concentra tutta la sua volontà nel mantenere le braccia, le gambe, la pancia e tutto il resto fermi immobili.
Non infilerà i piedi nelle pantofole dal calcagno schiacciato, non calpesterà il tappeto sardo che una volta era bianco e adesso è rosa per un lavaggio sbagliato, non aprirà la porta della sua camera coi segni del poster che è stato strappato via.
Non accenderà la luce del corridoio e nemmeno quella del bagno, non si laverà, non si sbarberà, non si vestirà. Tanto meno farà colazione cappuccino e brioche con la marmellata al bar sotto casa, non prenderà la metropolitana e non andrà all'università all'appuntamento con il prof. Zanetti.
Simone non muove nessuna parte del suo corpo eccetto lo sterno a causa della dilatazione polmonare. Sa che se provasse a smettere di respirare le contrazioni involontarie del torace gli procurerebbero movimenti più decisi e scomposti. Sugli organi interni per ora non può esercitare un controllo diretto, il cuore batte e i fluidi scorrono. Respira.
Si concentra sull’alluce sinistro. L'unghia dell'alluce sinistro, i peli neri sulla superficie della falange, le rughe della pelle sull'articolazione. Con gli occhi chiusi si immagina di guardarla, si immagina di essere tutto alluce e niente altro. Questo vuole essere, non quello che è. Mette tutte le energie in questa identificazione, nel controllo del respiro, dei muscoli e dei nervi. Nel resistere al prurito, al caldo, ai pensieri molesti in agguato. E' faticoso ma se allentasse lo sforzo anche solo per un attimo gli tornerebbe in mente quello che è e che non vuole essere. E Zanetti. La tesi. Suo padre. Cristina.
Conta. Da cento a zero. Un respiro un numero. Il rumore dell'aria che entra nel naso. La trattiene. Le mascelle serrate. La lingua contro il palato. Cerca di tenere fermi anche i globi oculari. Cristina. La sua immagine irrompe nel cervello, si sovrappone. Simone perde il conto dei numeri. Cristina non ha ancora chiamato ma lo farà. Gli occhi grandi di Cristina. La faccia di Cristina con il telefono sull'orecchio, la testa piegata di lato, lo sguardo interrogativo. La voce di Cristina. Lontanissima. Il cellulare è spento. Chiamerà a casa. Chiederà di lui all'università. Suonerà alla porta.
Tachicardia.
Respiro. Ottantasette. Respiro. Ottantasei. La lunetta più chiara, le pellicine. Il cuscinetto tenero del polpastrello. La carne. Lo studio della predittività dei dispositivi integratori tempo-temperatura nella conservazione alimentare.
Tachicardia.
Zanetti ti prego lasciami stare. Ce l'ho la bibliografia. Giuro che ho cominciato a scrivere. Il sommario. Il primo capitolo. Vabbè, paragrafo. Rigo. Non. Zanetti ci vediamo domani al bar di via Ponzio. Zanetti dimenticati di me. Scusi proff. Chiedo scusa.
Io non esisto, Zanetti, io sono un alluce.
Simone lo sa che alle dodici e mezza arriverà sua madre. Alzerà la tapparella e gli chiederà cos'ha, gli si pianterà davanti con le mani sui fianchi. Gli toccherà la fronte con il dorso della mano e poi con le labbra. Gli strapperà il lenzuolo di dosso. Gli parlerà dolcemente e poi si arrabbierà e griderà.
Mamma sto male. Mamma lasciami non esistere. Mamma fammi la tesi. Mamma dillo tu a Cristina che sono uscito. Dille che non torno, che non sai dove sono.
Mamma tieni mio padre lontano da me.
Non ce la fa. Simone non riesce più a controllare i suoi pensieri. Tra poco si muoverà. Può aspettare sua madre oppure alzarsi ora, uscire di casa e camminare. Prendere un tram a caso e non tornare indietro. Prendere la metro verde e scendere a Piola, cercare Zanetti, scusarsi e rammendare la figuraccia che ci sta facendo. Scendere a Centrale e salire sull'Eurostar per Napoli. Chiudersi nello sgabuzzino dietro alle valige. Prendere la novantadue fino al magazzino e aspettare suo padre. Aspettare. Non fare nulla. Stare fermo immobile. Concentrarsi su una parte del suo corpo. L’alluce sinistro.
 
Si sente il rumore della chiave, quattro mandate. Luciana, la mamma di Simone, è tornata. Tra poco entrerà nella stanza. Posa la borsa in sala, lascia le scarpe in bagno e apre la porta. Non accende la luce, non alza la tapparella, non dice niente. Simone è immobile sotto il lenzuolo, il cuore in gola.
Il materasso si piega sotto il suo peso, le molle gemono piano. Luciana si è seduta sul letto vicino a lui e gli cerca la mano attraverso il lenzuolo. Lo tocca per un momento.
“Simone."
Silenzio. La mamma fa un respiro.
“Senti. C’è qualcosa che non va, vero?” Luciana aspetta.
“Mi ha chiamato Cristina.” Un’altra pausa lunghissima.
“Mi ha detto che ti aspettava all’università. Hai staccato il telefono.”
“Mamma.”
Luciana aspetta, paziente.
“Mamma, ho un problema.”
“Eh. E’ per la tesi?”
“Anche.” Simone abbassa il lenzuolo, si scopre la faccia e respira.
“Anche? Vuoi dire che gli esami…”
“No, no, gli esami li ho fatti tutti. Ma la tesi.”
“La tesi?”
“La tesi no.”
“Va bene. Cosa ti manca?”
“Tutto.”
“Come tutto?”
“Mamma.”
Luciana accavalla le gambe, fa tremare il letto.
“Non dirlo a papà.”
“Eh. Mica è scemo. Ce ne siamo accorti da un po’ che c’è qualcosa che non va. Si sono laureati già tutti.” Luciana si ravvia una ciocca di capelli, la mette dietro l’orecchio.
“Hai problemi con il professore?”
“Ma no. Il proff non c’entra. E’ che sono bloccato. Non vado avanti. Non è solo che ci sto mettendo troppo. “
“Oh. Io ci avevo messo più di un anno a fare la mia. E’ normale.”
“No che non lo è. Non è come una volta mamma. La tesi della triennale è più semplice, si dovrebbe fare in pochi mesi. Io ho già perso un anno al liceo e mi sono iscritto fuori corso e se non la consegno entro dicembre dovrò pagare un altro anno e…”
“E?”
“E.”
“Ma hai anche lavorato. Ti sei pagato le tasse. Fa niente.”
“No, non è così semplice.”
“No?”
“No.”
Luciana ha lasciato la porta aperta e ora che si è abituata alla penombra riesce a vederlo. Ha sulle labbra la stessa espressione che faceva da bambino quando stava per piangere.
“Cosa vorresti fare?”
“Non so.”
“Non è che ti stanchi troppo? Quel lavoro al pub, fai tardi tutte le sere.”
“Sono abituato. Quando seguivo i corsi alla mattina e poi dovevo anche studiare era faticoso. Ma adesso.”
”E allora?”
“Non so.”
“Dai, alzati e fatti una doccia che tra poco arriva tuo padre. Parlane con lui.”
“Non mi va.”
“Va bene, allora gli parlo io.”
“Lascia perdere.”
“Simo, non pensare di poter andare avanti così per sempre eh.”
“Ma lo so. E’ che sono. Bloccato. Ogni volta che apro il file della tesi mi viene. Non so. Mi passa la voglia. Mi distraggo. Mi perdo. Poi mi sento una merda. Ma non posso farci niente. Mi viene un morso nello stomaco. Come di paura. Mi viene un sudore su tutto il corpo e un sapore di marcio in bocca. E il cuore mi esce dalle orecchie.”
“Ma perché?”
“Non lo so.”
“Ma se non lo sai tu cosa posso fare io? Posso parlare a papà.”
“Senti mamma. Vorrei chiederti una cosa. Una cosa che non ho mai detto a nessuno.”
“Dimmi.” Luciana si sposta un po’, il letto scricchiola.
“Ti ricordi quando ero in prima liceo, che andavo a lavorare in magazzino?”
“Sì.”
“Ti ricordi che a un certo punto non ci sono più andato?”
“A un certo punto non ci sei più andato. Quando è stato?”
“Andavo agli allenamenti, ti ricordi?”
“Più o meno. Ci sei andato per un sacco di tempo.”
“Una cosa che non sai è che gli allenamenti erano una scusa.”
“Una scusa? Non ci andavi? E dove…”
“Ma sì, ci andavo. Ma la passione per il kali e le arti marziali. Non era vero, era una scusa.”
“In che senso?”
“Mamma, tu lo sai cosa fanno papà e gli altri?”
“Eh?”
“Mamma. Papà lavora in un modo…”
“Ah sì, papà lavora tantissimo. A volte è…”
“No. Aspetta. Lasciami parlare.” Simone si passa una mano sulla faccia. Guarda verso la finestra, le tendine ondeggiano appena per l’aria che passa attraverso la tapparella chiusa. Luciana aspetta.
“Mettevo a posto gli scatoloni. A volte scaricavo i camion. Mi piaceva, mi sentivo grande. Avevo i soldi in tasca.” Si sposta indietro, verso la testata. Raccoglie le ginocchia tra le braccia, ci appoggia sopra il mento.
“Mamma. Papà falsifica le date di scadenza. Vende carne già scaduta per buona. Corrompe quelli che dovrebbero controllare.”
“Ma và, ma cosa ti viene in mente.” Luciana ride, scuote la testa, “conosco tuo padre, è impossibile.”
“Anche io credevo di conoscerlo. Ti giuro che è vero, l’ho fatto io con le mie mani.”
“Ma dai, Simo, non ci credo.”
“Prova a chiederlo a lui.”
“Se fosse vero… dico per ipotesi, se fosse vero sarebbe una cosa molto grave.  Fornisce le scuole, anche la mia. Ma tu come…”
“Me l’ha detto lui.”
“Quando?”
“L’ultima volta.”
“Quando eri al liceo?”
“Sì.”
“E perché lo fa?”
“Diceva che non poteva farne a meno.”
Luciana pensa. Ma io dov’ero quanto succedevano queste cose? Cosa stavo facendo? Le tornano in mente periodi di benessere che aveva accettato senza farsi troppe domande,  antiche incongruenze che non aveva mai avuto voglia di approfondire. Ne aveva già abbastanza dei suoi di problemi, il cambio del direttore didattico e le circolari dal ministero, giudizi estesi, giudizi sintetici, voti in numeri, voti in lettere, pagelle, pagellini, la pianificazione da organizzare con le colleghe, i genitori. E i bambini. I suoi bambini che non diventano grandi mai. Ogni ciclo ritornano piccoli e si ricomincia da capo. Ogni ciclo con più esperienza e con meno energie. E  Caterina e Simone che, loro sì per fortuna, diventavano grandi e avevano bisogno di aria, di comprensione, di libertà, di fiducia. L’autonomia reciproca che si impara dai figli perché non c’è nessuno che te la può insegnare. C’erano state telefonate serali, scatti di nervi, a ripensarci non può negarlo. Lui diceva che era solo stanchezza. Minimizzava. Lei pure era stanca, forse distratta. Ma il dialogo non era mai mancato. Se l’aveva solo creduto, se non aveva saputo ascoltare, se aveva sbagliato su questo allora aveva sbagliato tutto. Aveva un problema e non lo sapeva.
“Me l’ha tenuto nascosto. Tutti questi anni insieme e non mi ha detto niente. E tu.”
“E io. Cosa volevi che facessi?”
“E tutto questo cosa…”
“Ma che ne so.”
“Ma io ne devo parlare con papà. Non posso far finta di niente. Se è vero.”
“Lascia perdere.”
“Ah no. Una spiegazione. Magari c’è una spiegazione. Ma a te ti doveva lasciare fuori. Non aveva il diritto.”
“Io ci ero rimasto di merda. Non ne volevo più sapere. Ma ci pensavo. Ci ho pensato per un sacco di tempo.” Simone fa una smorfia, piega le labbra in giù. Quante notti a rigirarsi nel letto, cercando una via d'uscita. La rabbia che aveva addosso. Prendeva a pugni il cuscino fino a farsi male, fino a perdere le forze e crollare nel sonno, sfinito.
Respira forte. Alza la testa, guarda sua madre negli occhi.
“Poi ho deciso che all’università avrei studiato proprio quelle cose, sarei entrato in azienda e avrei fatto a modo mio. Avrei tentato di convincerlo. L'avrei minacciato se necessario. Mi sarei imposto. Ma se non riesco a finire la maledetta tesi, cazzo. Scusa. Insomma.”
“Davvero?” Luciana sorride, “davvero pensavi di entrare in azienda e…”
“Boh. Mi pareva di non avere scelta. Allora meglio sapere bene le cose, meglio essere preparato. Pensavo che avrei avuto la scienza dalla mia parte, o almeno la tecnica. Lo stato dell’arte. Che avrei potuto essere più forte. Anche di lui.”
Luciana guarda Simone e le sembra di non averlo visto mai. Non riconosce la persona  che ha davanti. Un uomo. E tutto quello che ha intorno è diverso da come lo ricordava. Si è persa, non sa più quando.
Lui abbassa gli occhi sulle dita appoggiate al lenzuolo. Gli trema un po’ la mano.
Suona il citofono. Voltano la testa insieme verso la porta:
“E’ papà.”

 
 
 
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