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Normalità

Post n°170 pubblicato il 11 Giugno 2012 da fran.cippo

Sono passati quarantasei giorni da quando misi piede per la prima volta in questo paese, capendo presto che non c'era poi una grossa differenza di clima mentre, intabarrato in un cappotto, facevo la sauna nel tragitto dall'aeroporto all'ostello. Ricordo come tutto mi sembrasse diverso, nuovo, non potevo fare un passo senza che qualcosa attirasse la mia attenzione. Tutto mi affascinava, ma, allo stesso tempo, mi faceva percepire un timore di fondo dato dalla diversità. Sentivo un gran numero di barriere a separarmi da tutto il resto della gente, percepivo chiara la differenza di un paese post-comunista, anche se ormai globalizzato, una barriera invisibile che, nella mia testa, si frapponeva tra me e la gente, facendomi credere un'isola a sé stante in un mare di differenza e di indifferenza. La vera barriera, quella che più mi spaventava, però era quella linguistica. Mi faceva effetto pensare che se mi fossi perso per strada in un paese dell'America Latina o dell'Oceania avrei avuto modo comunque di farmi capire dalle persone del luogo, mentre qua, a molto meno di mille chilometri da casa, non mi sarebbe riuscito neanche dire ciao se non mi fossi imbattuto in un qualche locutore inglese. Ascoltavo con attenzione ogni sonorità della loro lingua così dannatamente ostica e così dannatamente slava, senza riuscir a discernere per assonanza nemmeno una parola.
E così erano passati i primi giorni, fatti di compagnie improvvisate, escursioni improvvisate, pub crawl pianificati e conseguenti cerchi alla testa. Poi l'inizio del lavoro, le prime amicizie scelte non dal fato delle prenotazioni in ostello e la confidenza con qualche strada, qualche piazza e qualche rudimento di lingua. Il trasferimento in un appartamento con coinquiline autoctone e sempre pronte al sorriso e all'aiuto, mentre prendeva piede la costruzione progressiva di una routine.

E senza rendermene conto, tutto ciò che ho descritto all'inizio, è passato, non esiste in più. La città è semplicemente una città, e non mi fa paura nemmeno un po', anche se per motivi insondabili mi trovo a camminare da solo in tarda serata, rincasando dalle colline che la circondano. Gli sconosciuti così distanti sono semplicemente persone, persone che parlano una lingua diversa, della quale sempre più spesso mi scopro capace di cogliere frammenti. Per non parlare dei menù che ora riesco bene o male a decifrare.

E, camminando per la strada, mi sembra tutto così normale che fatico a capire come potesse non esserlo anche prima. 

 
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