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Andrea Liponi

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IL BUIO NELL'ACQUA

Post n°146 pubblicato il 24 Maggio 2020 da livio203

LUISE DOUGHTY, IL BUIO NELL’ACQUA, BOLLATI BORINGHIERI, 2017

 Questo romanzo si presenta come un thriller spionistico, ma anche psicologico: alla base della paura del protagonista di essere ucciso da un momento all’altro c’è la sua vicenda passata, una colpa da espiare, oltre che una vita intera intessuta di esperienze tragiche.  Nato in Indonesia, a Giava, in un campo di prigionia giapponese, il protagonista affronta una vita avventurosa in giro per il mondo fin dalla più tenere età: dall’Indonesia all’Olanda, alla California, all’Indonesia stessa.   Qui vive l’esperienza, da emissario di una misteriosa società che si occupa di fornire informazioni utili a chi investe in zone del mondo a rischio, di sanguinose repressioni delle opposizioni da parte di regimi militari che prendono il potere.   Si tratta di stragi che spesso colpiscono a caso, intrecciandosi con conflitti e risentimenti tribali, e investono per lo più persone innocenti o scarsamente politicamente impegnate.  Gli eventi storici che le provocano sono l’ascesa al potere di Suharto, nel 1965, e la sua caduta, nel 1998.  Proprio nel 1998 si colloca l’azione principale del romanzo: Harper, messo da parte dalla sua società per non aver saputo prevedere in tempo la caduta del regime, vive in un luogo isolato, nel terrore di essere ucciso.  Per fortuna, tuttavia, incontra una donna, Rita, che gli ispira nuova fiducia nel futuro, al punto di sognare di ricostruirsi con lei una vita proprio in quell’isola dell’estremo oriente in cui è nato.   Un sogno? Il romanzo non ce lo dice.  Dopo averci raccontato l’infanzia di Harper con i nonni americani, un periodo felice, ma funestato da una tragedia, e il primo ritorno a Giava, con l’avventurosa fuga attraverso le risaie e le foreste che gli consente di salvare la vita (ma a prezzo di quali compromessi con la sua coscienza?), il romanzo si chiude con una concreta prospettiva di salvezza, malgrado proprio alla fine si sveli la ragione che turba  profondamente il protagonista, il suo pesante senso di colpa per un evento del passato.   Ma la chiusura è ambigua, aperta, e lascia il lettore in sospeso.  

Questa autrice, insomma, un po’ subdolamente, non vuole proprio lasciarci gustare un “happy end” dopo averci proposto tante traversie dolorose. 

 
 
 

CRONACHE FERRANTIANE

Post n°145 pubblicato il 23 Maggio 2020 da livio203

ELENA FERRANTE, CRONACHE DEL MAL D'AMORE, EDIZIONI E/O, 2016

Dopo la lettura della serie di romanzi dedicati all'"Amica geniale", la Ferrante è diventata uno dei mei autori preferiti, insieme a Grossman e Yehoshua, tant'è che ne avevo comperato anche questo volume, rimasto un paio d'anni a dormire in qualche scaffale.  Ma la sosta pandemica mi ha indotto a cercare tra i libri accantonati e a ritrovare questo, che pure ogni tanto mi tornava in mente, soprattutto in occasione della lettura del recente "La vita bugiarda degli adulti".   Certamente un'autrice straordinaria, questa Elena Ferrante, se non altro perché, nell'epoca dei social imperanti e della privacy proclamata ma costantemente violata, riesce a nascondersi dietro uno pseudonimo, tanto che non sappiamo per certo neppure se si tratti di un uomo o di una donna.   A dire il vero, per la proposta quasi ossessiva di figure femminili che parlano in prima persona e sembrano quasi uno sviluppo, una variazione sul tema dei un unico personaggio, sembrerebbe assurdo che dietro al nome di Elena si celasse un qualche autore di genere maschile.  Tuttavia, data la ripetizione di tematiche a sfondo sessuale e la sfrontatezza con cui queste vengono trattate, si sente quasi un che di maschile in questo misterioso autore.  Per continuare su questo tema (ma Ferrante ne propone tantissimi), le figure maschili, in genere, nei romanzi ferrantiani fanno una meschina figura: sono personaggi ambigui, incoerenti, falsi, al massimo inconsistenti.  Così, per esempio, in questa trilogia (nel libro sono riprodotte le prime tre opere narrative di questa autrice misteriosa, pubblicate tra il 1999 e il 2006), il marito de "I giorni dell'abbandono", che pure sembra un signore colto e ricco di fascino, visto che riesce a far innamorare di sé una ragazza molto più giovane, è poco più che un fantasma nell'economia del racconto: un fantasma che prende vita solo di riflesso, per l'angoscia che la protagonista-io narrante nutre in sè in seguito all'abbandono.  Il primo di questi romanzi, "L'amore molesto" (1999), che, nella bellissima introduzione di Edgardo Dobry (prefazione all'edizione spagnola del 2011), viene celebrato come un'apparizione mirabile e sorprendente ("Già in quel primo romanzo la sua voce era decisa, nitida e sorprendente") per poco non mi ha fatto ricredere sulla mia personale propensione per questa autrice.  Infatti, pur concordando sulla eccezionale perfezione della sua scrittura, soprattutto considerando che si trattava di un'opera prima (e qui viene qualche dubbio..), mi sono trovato per la prima volta in difficoltà, ad un certo punto, a proseguire nella lettura fino in fondo.  Troppo pesante e greve la materia trattata, troppo angosciante ai limiti dell'incubo e dell'assurdo.  Se questa è una tappa del "grande libro su Napoli" (Franco Cordelli), è la tappa più biecamente antinapoletana, la tappa in cui Napoli appare come la città dell'abbrutimento più totale della persona umana, la città disumana. Almeno, così mi è apparsa, ad un certo punto, questa vicenda, al punto da impedirmi di continuare a leggerla di seguito, come di solito faccio con la Ferrante, trascinato da una scrittura solitamente coinvolgente e intrigante.  Un tema ricorrente della scrittrice è, appunto, questo di Napoli, del rapporto ambiguo, di amore-odio, per quella città.  Tutte e tre le protagoniste vengono da Napoli, dalla Napoli popolare, dove i sentimenti sono esasperati e le parole urlate, i comportamenti scomposti, il linguaggio osceno.  Tutte e tre hanno ambito a riscattarsi da quell’ambiente, ad allontanarsene per vivere nel benessere e nell’equilibrio della razionalità, per raggiungere la serenità e la compostezza.  Tutte e tre, tuttavia, rischiano di perdere tutto questo e di tornare improvvisamente indietro, di annegare nell’angoscia della “frantumaglia”, ovvero nel disordine interiore, nella perdita di ogni valore saldo, di ogni certezza.   Così è per Delia, che insegue la verità sulla morte della madre, rischiando di perdersi nel suo medesimo disordine (ne L’amore molesto), così per Olga, che arriva all’orlo della follia, riprendendosi quasi miracolosamente prima di affondare (I giorni dell’abbandono);  e anche Leda, la terza protagonista, vive una crisi di identità a confronto con Nina, una giovane madre napoletana (La figlia oscura).   Ma la caratteristica fondamentale di questa scrittura sta nel proporre sempre e soltanto il punto di vista della protagonista: è lei che racconta il suo mondo interiore, i riflessi su di sé dell’incontro con gli altri.  Il mondo esterno è sempre filtrato attraverso il discorso indiretto libero del personaggio principale.  Tant’è che lo stesso Dobry sopra citato azzarda che quanto viene raccontato possa essere frutto – a volte – della “fantasia febbrile” della protagonista, ovvero una proiezione dei suoi desideri.  Del resto, questa è la cifra fondamentale di questa narrativa: la rappresentazione del mondo attraverso il soggetto narrante.  Insomma, tutt'altro che cronache, queste variazioni sul tema del mal d'amore.

 

 
 
 

SEPULVEDA

Post n°144 pubblicato il 19 Aprile 2020 da livio203

SESTA CORONO-LETTURA:

LUIS SEPULVEDA, L’OMBRA DI QUEL CHE ERAVAMO (2009)

E’ morto da poco, questo scrittore cileno, e proprio in conseguenza di questa peste odierna.  Quindi, la lettura di un suo libro diventa un omaggio obbligatorio, in questo periodo di quarantena, ad una delle vittime più illustri della pandemia.  

Il romanzo, uscito nel 2009, è un libro agile, strutturato in 18 brevi capitoli più un Epilogo, dallo stile sintetico, quasi ermetico, apodittico e ironico insieme.  Uno stile del tutto diverso da quello di Marquez (vedi titolo di giornale girato sui social in occasione della morte dello scrittore che gli attribuiva la più famosa opera di Gabriel Garcia) e che corrisponde alla sua vicenda umana, ricca di fatti, di azioni e di lotta.   

Ne “L’ombra di quel che eravamo” è la nostalgia per un passato di lotta e di illusioni disilluse.   

Un gruppo di ex “compagni” si ritrova per un’ultima avventura, quasi a voler recuperare uno spirito rivoluzionario a cui guardano, tuttavia, con distacco ironico e disincanto.   Eppure, quando l’anarchico Pedro Nolasco, detto l’Ombra, li chiama a compiere un’ultima azione, tutti rispondono, come per senso del dovere verso quello che una volta erano stati e che ora non sono più.   Sono tutti ex profughi dell’epoca di Pinochet, alcuni anche passati per il carcere e la tortura, vissuti in esilio per anni, invecchiati nel ricordo dei tanti scomparsi e uccisi.   Eppure, quando l’unico dei loro che era sopravvissuto al regime grazie alla sua abilità a vivere in clandestinità, propone loro l’ultima impresa, si ritrovano pronti.    

Peccato (e qui è l’aspetto grottesco della vicenda) che l’eroe, l’Ombra sopravvissuto al regime, proprio mentre si reca all’appuntamento, viene colpito alla testa da un giradischi volante, lanciato dalla finestra da una donna infuriata contro il marito (anch’egli reduce di quella stagione di lotta politica, sia pure su posizioni perlomeno ambigue), stufa dell’inconcludente ménage che questi le propone in Cile e piena di nostalgia per l’esilio tedesco.  

Si direbbe che tutto è finito, che il riscatto di un passato deludente è ormai tramontato.   Invece, malgrado tutto, la sgangherata combriccola riesce a portare a termine l’azione, a dare un senso al sacrificio dell’”Ombra”.

Quindi, al di là dell’amarezza per tante vite sprecate, al di là della disillusione dovuta al fallimento di un’esperienza politica rivelatasi fallimentare, al di là delle divisioni ideologiche che tramano i discorsi dei congiurati e che costituiscono il tessuto di tutte le sinistre più o meno rivoluzionarie, più o meno di governo, l’azione unita di tre-quattro “ex”, conduce infine ad un risultato inatteso, si conclude con un piccolo, limitato, successo.   

Una speranza?

 
 
 

Elisabeth è scomparsa

Post n°143 pubblicato il 19 Aprile 2020 da livio203
 
Tag: romanzo

LA QUINTA CORONO-LETTURA.

EMMA HEALEY, “ELIZABETH E’ SCOMPARSA”.

Emma Healey nel 2014, a 28 anni, ha pubblicato il suo primo romanzo, Elisabeth è scomparsa, avendo subito un buon successo.  Infatti questo romanzo è stato subito ripubblicato, come dice il risvolto di copertina, in più di venti paesi, tra cui l’Italia.  E’ senz’altro un romanzo originale: la narrazione viene condotta attraverso le parole e i pensieri di Maud, una donna anziana di 82 anni che ha evidenti problemi di memoria.  

E' comunque singolare che una giovane di 28 anni riesca ad immedesimarsi in un'anziana, presumibilmente malata di Alzheimer, tanto da rappresentare la vicenda narrativa attraverso i pensieri e le parole di questo personaggio, peraltro il tipico candidato alla scomparsa.

Infatti, ogni tanto la figlia la perde di vista, ma la madre, grazie anche al fatto che è conosciuta anche dalla locale stazione di polizia, se la cava sempre.  

Il luogo in cui si svolge l’azione è una località marina dell’Inghilterra meridionale, una città che, nell’immediato dopoguerra, è ancora disseminata di rovine dei bombardamenti aerei, afflitta dalla povertà e dal razionamento alimentare e, sorprendentemente, anche dalla frequente scomparsa di persone.   

Il tema fondamentale del romanzo è proprio la scomparsa.   “Elisabeth è scomparsa” è la litania ricorrente della protagonista, Maud, cui nessuno dà retta, né la figlia, né il figlio dell’amica scomparsa, né la polizia;  tant’è vero che Maud arriva, un po’ avventurosamente, a pubblicare un’inserzione sul giornale locale.   In realtà, nella sua mente offuscata dalla malattia, emerge ogni tanto il ricordo di una persona veramente scomparsa proprio nell’immediato dopoguerra, la sorella maggiore Sukey.    Quindi il lettore si ritrova a seguire i pensieri frammentari della protagonista, la sua fatica di ritrovare un filo del proprio pensiero e della propria esperienza di vita e rischia di perdersi in questo andirivieni di pensieri e di ricordi che compaiono e scompaiono, nella confusione dei piani temporali, ove il presente e il passato si intersecano e si sovrappongono continuamente.  Quindi, sembra di perdersi in una realtà mentale confusa e al limite dell’allucinazione, di non trovare un filo conduttore che porti alla soluzione del giallo che a poco a poco emerge come il mistero vero e proprio che sta alla base dell’esperienza di vita di Maud.

Invece, alla fine, come per un incantesimo, il mistero si scioglie: la figlia capisce finalmente il legame tra la non-scomparsa di Elisabeth e la scomparsa della zia, avvenuta quasi settant’anni prima, e decide di seguire questa intuizione per svelare il mistero e mettere la parola fine alla tormentosa ricerca, da parte della madre, della sorella scomparsa.

Per noi di Penelope, nonché genitori di uno scomparso, è una lettura ideale, sia perché ci aiuta a capire i problemi e le difficoltà delle persone con patologie legate all’età e, per questo, a rischio di scomparire, sia perché propone come tema la sofferenza dei familiari di una persona scomparsa e la loro tormentosa ricerca della verità.

 
 
 

UN ROMANZO MERANESE

Post n°142 pubblicato il 17 Aprile 2020 da livio203

UN ROMANZO …LOCALE (la quarta coronolettura)

 Il fatto che un libro parli di noi, della nostra Provincia o, magari, sia scritto da una persona che vive in questa nostra limitata area geografica, lo rende certamente più interessante.   In fondo, la nostra letteratura, le opere letterarie, ma anche saggistiche, scritte da persone di lingua italiana sono di per sé rare, anche per la recente tradizione culturale italiana a Bolzano e provincia.

 

E’ questo uno dei motivi che un paio di anni fa ci ha fatto acquistare questo libro auto-pubblicato da una misteriosa scrittrice dal nome perlomeno stravagante, ma, tutto sommato, in linea con il suo contenuto romanzesco: “Come foglie d’autunno” di Clarissa Horse.   Un po’ difficile pensare che tale nome non sia uno pseudonimo, anche se nell’ultima di copertina si dice che si tratta di una laureata in legge con tesi di criminologia che vive in Alto Adige con un figlio, un marito un cane e delle cocorite e che, ”per passione e per non dare i numeri.. si dedica alla scrittura”.  In effetti, della stessa autrice avevo già letto il romanzo precedente, un giallo ambientato a Merano.

Non è l’unica autrice locale, basti pensare all’ormai notissimo Luca D’Andrea, ma anche al nostro sindaco Renzo Caramaschi, prolifico autore di romanzi a sfondo storico, senza contare la stellare Lilli Gruber.    

A differenza dagli altri autori, però, questa si è lanciata nel mercato del romanzo senza passare per una Casa editrice.   E la cosa si sente, oltre che per la difficoltà della distribuzione, anche nella forma narrativa.   Probabilmente una casa editrice fornisce all’autore un’assistenza nella rifinitura del testo che si sente mancare a quest’opera, tuttavia interessante.  

Il pregio maggiore di questo romanzo sta nel suo intreccio, piuttosto articolato, anche se l’azione si svolge prevalentemente a Merano e nel suo immediato circondario, in un ambiente sociale abbastanza ristretto, quello degli studi legali, anzi di due studi legali importanti e prestigiosi, che rappresentano l’ambiente di riferimento della protagonista, un’avvocatessa ancora giovane e graziosa, lanciata sulla via del successo professionale.   Ma pesano sul personaggio l’ambiente di origine, un maso di montagna e la storia travagliata della sua famiglia. Un padre assente che ben presto lascia moglie e figlie in balia di se stesse, una sorella scapestrata, una nonna rigida e poco empatica, una madre perennemente scontenta e infelice.   Bisogna dire che, da questa materia non entusiasmante, l’autrice riesce a ricavare una vicenda che via via riesce a interessare il lettore e a coinvolgerlo, per quasi settecento pagine, proprio per l’invenzione di vicende sempre più complesse e imprevedibili.  

Il leitmotiv, come in tutti i romanzi rosa, è l’amore: la ricerca di un amore definitivo, unico, completo… che, ovviamente, arriva solo alla fine.     Infatti, l’avvocatessa ha un presente - legato ad un avvocato di successo più anziano di lei, ma, ovviamente, fascinoso e donnaiolo - ma anche un passato, ovvero un matrimonio fallito nel peggiore dei modi.   Di qui l’aggrovigliarsi della vicenda, con colpi di scena, scene di sesso e litigate furiose.    Ma improvvisamente un deus ex machina, una donna serena, piena di attenzioni e di saggezza appare all’orizzonte a sgomberare il terreno dalle troppe macerie di più vite aggrovigliate e contorte insieme, fino al lieto fine.    

Bisogna dire che fino a metà romanzo si fa fatica a seguire tutta quella serie di dialoghi, un po’ stucchevoli e spesso anche non proprio raffinati.  Ma poi l’inventiva dell’autrice prende il volo e la vicenda si fa sempre più complessa e intrigante.    

Una nuova Liala è nata in quel di Merano… peccato, come dicevo prima, che si senta la mancanza di una maggiore rifinitura sia nella forma espressiva, sia nella materia narrativa.

C’è un motivo, che in qualche modo, coinvolge anche noi di Penelope.  La sorella della protagonista ogni tanto sparisce, poi ritorna, poi sparisce di nuovo…  Si direbbe il tipico caso di “non” scomparsa, di allontanamento volontario non “allarmante”: quello che noi tendiamo a dire che non esiste… Come si fa, infatti, a sapere che la persona che si allontana e fa perdere le proprie tracce poi tornerà?

Noi diremmo: mancato rientro allarmante?

 
 
 
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GOCCE DI MEMORIA..

E' la prima e migliore colonna sonora di questo blog..

 

VB33 8 GIUGNO 2018

 

MIRELLA INTRODUCE IL CONVEGNO DEL 2012

 

 
 
 

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