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Siamo ancora una Nazione? Gli esodi dei docenti non ci parlano solo della scuola

Post n°93 pubblicato il 18 Gennaio 2017 da ltedesco1
 

Certo, le attenuanti ci sono e non di poco conto: stipendi bassi e scarso riconoscimento sociale del ruolo svolto. In più, l’incremento del tempo pieno al sud, da più parti richiesto per contrastare la dispersione scolastica, potrebbe rendere meno pressante la necessità di trasferire insegnanti nelle scuole statali centro-settentrionali dove negli ultimi vent’anni il numero di alunni è aumentato di quasi 800.000 unità (mentre il Meridione e le isole hanno perso circa 500.000 studenti).

Ciò non toglie che il quadro tratteggiato dal rapporto sulla mobilità docenti del 2017, pubblicato sul portale telematico tuttoscuola.com, dovrebbe far arrossire dalla vergogna i suoi protagonisti; governo, sindacati e (non pochi) insegnanti.

Il tasso di mobilità di questi ultimi, che negli anni scorsi era di uno a dieci, quest’anno è esploso, triplicandosi, costringendo ad ammainare la bandiera della continuità didattica, fino a ieri da tutti brandita. È l’effetto del piano straordinario di mobilità previsto dalla Buona scuola, preliminare, spiega il rapporto, “al varo del piano straordinario di assunzioni voluto dal governo Renzi. In pratica un’‘ultima chiamata’ che doveva consentire al personale docente di spostarsi sulla sede più gradita anche ‘in deroga al vincolo triennale di permanenza nella provincia’. Fatto questa sorta di ‘condono’, doveva partire la nuova modalità di assegnazione della sede di servizio, la cosiddetta ‘chiamata diretta’: non sarebbe stato più il docente a scegliere la scuola, ma la scuola a scegliere il docente. È quanto prevede la legge ma l’accordo sulla mobilità firmato dalla ministra Fedeli con i sindacati allo spirare del 2016 prevede una nuova deroga da ogni vincolo di permanenza per tutti i docenti di ruolo, compresi quelli chiamati con incarico triennale dai dirigenti scolastici”.

Per ora i numeri ci dicono che dei 207 mila insegnanti di ruolo nelle scuole statali trasferiti quest’anno, almeno 130 mila sono docenti meridionali che dal nord si sono avvicinati a casa: “se in molti hanno parlato la scorsa estate di ‘deportazione’ di docenti dal sud al nord, quello che è avvenuto con i trasferimenti è stato un vero e proprio controesodo di docenti meridionali che avevano preso il “ruolo” (cioè il posto stabile) al nord e poi hanno colto l’occasione per chiedere il trasferimento verso casa. Back home”.

All’indomani dell’Unità d’Italia, schiere di insegnanti ‘piemontesi’ furono inviate nei comuni meridionali per procedere ad alfabetizzazione e Nation Building. Altra temperie storica, certamente; l’idea dello Stato-Nazione era allora la stella polare, l’alfa e l’omega del discorso pubblico e del sentimento identitario. Nonostante ciò è proprio necessario arrendersi alle miserie corporative e ai vittimismi lacrimevoli di chi ha perso qualsiasi senso dello Stato? Perché solo di questo, in fondo, si tratta; di mortificazione dei più basilari principi di solidarietà nazionale.

Cosa accadrebbe, infatti, se nelle altre branche dell’amministrazione statale (forze di polizia, sanità, giustizia) nel corso di un solo anno un terzo del personale migrasse dal nord al sud o viceversa, come è stato permesso che accadesse quest’anno nella scuola? Lo Stato semplicemente collasserebbe. Questo sarebbe il risultato: la somalizzazione del Paese, un altro, l’ennesimo, Stato fallito, una carcassa gettata lì, esangue, in mezzo al Mediterraneo.

Destino ineluttabile? Forse no, purché coloro che quel destino vogliono scongiurare inizino a chiamare le cose con il loro nome e, quindi, a qualificare l’atteggiamento di coloro che quel destino intendono perseguire per quello che è: antisociale e antinazionale.

 

Luca Tedesco

 
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Pavone (e Pannella)

Post n°92 pubblicato il 04 Gennaio 2017 da ltedesco1
 

http://www.opinione.it/politica/2016/12/31/tedesco_politica-31-12.aspx

 
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Secessione: inorridisce

 

Salvare la casa natale di Hitler, salvare Har haBáyit

Post n°90 pubblicato il 06 Novembre 2016 da ltedesco1
 

 

«Abbiamo affermato chiaramente che una demolizione equivarrebbe ad una negazione del passato nazista dell’Austria», ha tuonato la commissione di studio istituita dal governo austriaco a proposito della possibilità, ventilata dal ministro degli Interni, Wolfgang Sobotka, di abbattere la casa natale di Adolf Hitler a Branau am Imm, costringendo così il membro dell’esecutivo a tornare sui suoi passi.

Non ha nulla a che fare con la disputa sulle ragioni e i torti di Israele e degli Stati arabi sul destino di Gerusalemme la condanna, necessaria, inevitabile, della risoluzione «Palestina occupata» della Commissione Unesco.

Occultare i nomi, infatti (nel caso specifico usare solo la terminologia araba per indicare luoghi sacri anche agli ebrei), è il primo passo per cancellare la memoria.

Abbiamo, forse, salvato la casa di Hitler, proviamo a salvare anche Har haBáyit.

Luca Tedesco.

 

 
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La parabola del Ttip

Post n°89 pubblicato il 23 Settembre 2016 da ltedesco1
 

 

“Il trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti d’America è saltato non per colpa della mozzarella, degli Ogm o del buy American che costringe chi partecipa alle gare d’appalto negli Usa ad utilizzare risorse locali per almeno il 50 per cento. No, la responsabilità è del popolo”, ha osservato epigrafico Stefano Cingolani qualche giorno fa su formiche.net.

Le elezioni oramai alle porte non solo negli States ma anche in Germania e Francia hanno suggerito infatti a Donald Trump di ergersi a paladino del posto di lavoro degli operai della Ford nel Michigan, alla Clinton di abborracciare una virata protezionista (dopo il sostegno prima al Nafta e poi al Trattato Trans-Pacifico) ed a Hollande e alla Merkel di schierarsi, rispettivamente, a difesa dei propri agricoltori e del “complesso finanziario-industriale […] perno del Modell Deutschland”.

Settori economici, così, la cui redditività è garantita dalle muraglie doganali, rischiano di far prevalere nell’agenda politica i propri interessi, marginalizzando quelli dei comparti richiedenti una maggiore libertà dei commerci e soprattutto dei più, vale a dire l’universo dei consumatori.

Ancora una volta, allora, la triste parabola che sta disegnando il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti sembra confermare la validità della “Teoria della scelta pubblica” di James M. Buchanan e Gordon Tullock, formulata negli anni Sessanta del secolo scorso sulla scorta degli studi dei nostrani Pareto, de Viti de Marco e Pantaleoni.

I consumatori sono maggioranza, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, e votano. Perché allora sembrano condizionare meno del blocco protezionista le leadership politiche?

Perché, ci dice quella teoria, la maggiore influenza politica dei settori protezionisti è da addebitare tra l’altro al carattere di bene “pubblico” attribuibile alla politica commerciale. I beneficiari di una politica economica liberoscambista, infatti, non possono essere esclusi da tali benefici anche se non hanno concorso al costo necessario per conseguire quella politica.

Ciò spinge coloro che non sono interessati all’adozione di politiche commerciali restrittive, vale a dire la vastissima platea dei consumatori non impiegati nei settori favoriti dal protezionismo, ad assumere un comportamento da free rider, a non impegnarsi cioè in una esplicita e dispendiosa azione di pressione nei confronti delle pubbliche autorità affinché assumano misure liberoscambiste, confidando che altri lo faranno al loro posto. Viceversa gli ambienti interessati a una politica protezionista, consapevoli della loro più esigua forza numerica, svolgono una più penetrante azione lobbistica nei confronti del potere politico. “L’incentivo al free riding – scriveva l’economista Paolo Guerrieri fin dagli anni Ottanta – sarà tanto maggiore […] quanto più alto è il numero degli attori coinvolti e, di conseguenza, quanto più dispersi ed esigui i benefici netti individuali legati alla produzione del bene pubblico”.

Se poi quell’azione lobbistica ricorre a pulsioni istintive, a riflessi condizionati ed a tic irrazionali, ogni argine alla marea montante protezionista è vano.

“Reciprocità, reciprocità!”; questa è difatti una delle ultime bandiere brandite dagli avversari del Ttip, accusato di violare quel principio a tutto beneficio delle multinazionali a stelle e strisce.

All’alba del nuovo millennio, l’economista indiano Jagdish Bhagwati (sostenitore, da liberoscambista radicale quale è, del multilateralismo e quindi critico nei confronti del Ttip, tacciato, come qualsiasi trattato “regionale”, di essere troppo poco coraggioso) respingeva, perché irrazionale, la tesi della reciprocità, tesi però fortemente radicata nel sentire comune in quanto frutto di quell’“ossessione della ‘fairness’, dell’equità” che fa ritenere che se il mercato di un Paese è aperto a quello di un altro che invece non lo è, ciò è ingiusto, sleale e quindi da evitare. Ma se uno Stato decide di chiudere il proprio mercato ai prodotti di un altro, quest’ultimo, si domandava Bhagwati, perché dovrebbe impoverirsi ulteriormente rinunciando ad importare i prodotti del primo?; “se qualcun altro getta massi nel proprio porto, non vi è alcuna ragione per fare la stessa cosa nel nostro”.

Ma anche questa immagine, a dimostrazione di come pulsioni e umori di cui sopra originassero perlomeno a partire dalla ottocentesca formazione degli Stati-nazione, rinvia chiaramente a quella evocata da Francesco Ferrara, antesignano del liberismo italiano che, interrogandosi sull’irrazionalità delle politiche di ritorsione che inducevano un Paese a rispondere con misure protezionistiche agli alti dazi posti dagli altri Stati, affermava che “se un nemico ci recide il braccio sinistro, nessun chirurgo vorrà consigliare di reciderci il destro”.

Il protezionismo era così l’ultimo, velenoso frutto di un nazionalismo parossistico ed esasperato: “Non vi ha dogane, non si può idearne, se non si parte dal principio implicito che l’umana famiglia deve essere, o è divisa in famiglie più piccole”. Ed ancora: “Il sistema doganale procede sempre così. La nazione, il paese, è la sua pietra angolare; gli individui che la compongono sono unificati in un corpo; le differenze o gli interessi tra uomo ed uomo spariscono; ciò ch’esso intende di calcolare è la differenza o l’interesse tra corpo e corpo, tra popolo e popolo. La sua figura retorica si riduce a copiare sulle nazioni ciò che le leggi naturali han fatto sull’individuo”. Finché la nazionalità non fosse stata “che un puro concetto implicito, sarebbe tollerabile, andrò fino a dire che qualche volta potrebbe esser vero. Ma il sistema ha fatto di più: ha celebrato una strana apoteosi al principio di nazionalità, gli ha subordinato tutta l’umana esistenza, gli ha immolato l’avvenire, ne ha creato un destino. Le nazionalità sono un fatto, ed esso ne ha formato uno scopo; sono una necessità, e ne ha formato un bene; sono un accidente e ne ha formato l’essenza dell’uman genere; sono l’ostacolo ed ha immaginato di costituirne il progresso”.

 
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