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« If it bleeds, it leads. ...CasaPound e i guardiani ... »

L’ex comunista Fassino si converte (involontariamente?) allo Stato “minimo” .

Post n°64 pubblicato il 04 Dicembre 2013 da ltedesco1
 

 

«In genere, dagli oppositori aprioristici delle municipalizzazioni, si afferma che la soluzione dei problemi sta nel fare sapienti contratti con le società capitalistiche, con provvide concessioni, in modo da aver i vantaggi riuniti della libera iniziativa privata e del pubblico controllo. Questi sistemi ibridi, che sembrano tanto facili in teoria, trovano nella pratica tanti attriti, tante difficoltà che riescono in ultima analisi inadatti a raggiungere il vantaggio collettivo. In queste proposte sembra che si parta sempre dal concetto che sia facile trovare un tipo ideale di capitalista, pronto ad investire i suoi risparmi senza curare il proprio interesse ma tutto rivolto a favorire la collettività […]. La realtà dimostra che il capitale per essere invogliato ad investire, pretende i patti migliori, le più ampie garanzie che gli rendano possibili prezzi, ammortamenti e dividendi, pari almeno a quelli che si riscontrano in un determinato mercato per industrie non controllate. Ancora, nella pratica si riscontra che, ammettendo pure di riuscire a concludere sapienti contratti, questi contratti non saranno mai completamente applicati durante il periodo delle concessioni. Per quei patti che comportano oneri ai concessionari, si troverà sempre modo di sottilizzare sull’interpretazione dei contratti, di ritardarne i miglioramenti, di ostruzionarne la corretta applicazione […]. Se il municipio è cattivo produttore, si deve concludere che il municipio è cattivissimo controllore».

Così si esprimeva Giovanni Montemartini, economista, socialista e tra i maggiori studiosi in Italia del fenomeno delle municipalizzazioni, sul Giornale degli economisti nell’ottobre del 1909.

Da allora il dibattito sulla capacità del soggetto proprietario pubblico di costringere il concessionario privato a rispettare quanto previsto nella concessione non farà che crescere.

Piero Fassino, nell’intervista di pochi giorni fa sulla Repubblica a firma di Valentina Conte, sembra archiviare la questione come un residuo ideologico novecentesco, da cui liberarsi definitivamente.

“I dipendenti” – sostiene Fassino – “si tutelano evitando il fallimento delle aziende. Un’azienda che accumula debiti mette a rischio il lavoro. E poi basta mettere una clausola sociale nei contratti di servizio per mantenere i livelli occupazionali. E per garantire la qualità alle tariffe fissate dal Comune. La bontà di quanto si offre ai torinesi, ai genovesi, ai romani non dipende dalla proprietà, pubblica o privata, ma dal contratto di servizio. Se vogliamo servizi efficienti, a costi per i Comuni e tariffe per i cittadini sostenibili, occorre superare il tabù del pubblico e aprire questi settori ai privati, che possono assicurare investimenti nuovi”.

A voler applicare appieno lo schema di Fassino, il superamento del “tabù del pubblico” dovrebbe portare alla sostituzione dello Stato gestore con lo Stato controllore in ogni ambito della vita associata, sia a livello locale che nazionale. Se la bontà non dipende dalla proprietà, cosa osterebbe mai dall’appaltare ai privati, previa stipula di pignolo contratto di servizio, istruzione, sanità e via dicendo?

Da qui alla realizzazione dello Stato “minimo” (che, portando alle estreme conseguenze la visione fassiniana solo, forse, la forza militare dovrebbe rimanere appannaggio del potere pubblico) il passo è breve. Saprà l’ex comunista sindaco di Torino compierlo o, travolto dalle vertigini, tornerà sui suoi passi per volgere lo sguardo al più rassicurante secolo scorso?

Luca Tedesco

 
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