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Giuseppe Di Vittorio tra intenti etico-pedagogici e manipolazioni per carità di Patria
Post n°6 pubblicato il 19 Marzo 2009 da ltedesco1
Un sindacalista, da sempre riformista, che tentò lungo il corso della sua intera esistenza di conseguire l'unità della classe operaia e contadina. Questa è l'immagine che di Giuseppe Di Vittorio ci ha restituito la recentissima fiction Pane e libertà, diretta da Alberto Negrin e coprodotta dalla Rai e da Endemol. Un'immagine, quindi, assolutamente funzionale all'obiettivo, civicamente doveroso per la TV di Stato, di attingere dal patrimonio storico del nostro Paese quanto maneggiabile ai fini della corroborazione dello spirito identitario e del sentimento nazionale e di stendere invece un velo d’oblio su quanto non si presti a un simile intento. Ecco che, allora, merito dello sceneggiato è quello di aver palesato ancora una volta come le valutazioni etico-civili da una parte e quelle scientifiche dall'altra su queste operazioni di 'riscoperta' dei Padri della Patria non possano non essere divergenti. Come ad esempio la miniserie per la TV di Liliana Cavani su Alcide De Gasperi andata in onda qualche anno fa aveva sottaciuto un iniziale atteggiamento benevolo di De Gasperi nei confronti del primo governo di coalizione guidato da Mussolini, così anche il Di Vittorio di Pane e libertà si presta a qualche occultamento e mistificazione. Sugli anni della formazione del futuro leader della Cgil negli ambienti del sindacalismo rivoluzionario che lo portarono, poco più che ventenne, a condannare con asprezza dalle colonne dell'«Internazionale» i socialisti riformisti, rei di legare «i lavoratori al carro del politicantismo», lo sceneggiato televisivo nulla dice. Sulla Grande Guerra, poi, ci viene presentato un Di Vittorio graniticamente attestato su una posizione neutralista, mentre è accertata la sua evoluzione, in linea con gran parte dello schieramento sindacalista rivoluzionario, da un atteggiamento contrario alla partecipazione al conflitto a quello interventista, dettato dalla considerazione che il conflitto potesse sfociare in una sollevazione rivoluzionaria mondiale (dalla guerra agli Imperi centrali a «quella di classe») e sancito in un articolo apparso il 18 giugno 1915 sul «Popolo d'Italia» di Mussolini. Per quanto riguarda i rapporti con Stalin, la fiction, se giustamente ricorda la condanna netta di Di Vittorio del Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, solleva invece qualche perplessità quando racconta la reazione dell'esponente comunista alla teoria del socialfascismo avanzata alla fine degli anni Venti dal Comintern. Di Vittorio appare infatti anche su questo terreno un risoluto censore della politica staliniana. In verità, come ampiamente documentato dai suoi interventi in esilio a Parigi sulle pagine di «Stato operaio» (sotto lo pseudonimo di Nicoletti), Di Vittorio, mentre era fiducioso sulla possibilità di recuperare alla causa rivoluzionaria e anticapitalista le masse ancora egemonizzate dalla socialdemocrazia e dal movimento cattolico, rivolgeva alle dirigenze politiche e sindacali di queste parole di assoluta durezza:«nostro compito - scriveva - è di convincere questi proletari […] che gli strati superiori della socialdemocrazia sono inseriti coscientemente nel regime capitalista, e sono effettivamente al servizio di questo regime, contro il proletariato. L'aggravamento continuo della crisi economica e la conseguente acutizzazione della lotta di classe, costringendo i capi socialdemocratici a subire la stessa evoluzione in senso fascista del regime capitalista - cui essi sono inseparabilmente legati (social-fascismo) - ci offriranno incessantemente nuove e maggiori possibilità di dimostrare praticamente ai proletari socialdemocratici, che i loro capi sono dei traditori consapevoli della classe operaia» (Il Congresso dei sindacati rossi, luglio 1930).
Luca Tedesco
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