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« Luca Tedesco e Le Carte ...La Peste italiana »

Il 25 aprile tra la retorica istituzionale e il classismo impronunciabil

Post n°8 pubblicato il 30 Aprile 2009 da ltedesco1

E così il Presidente del Consiglio ha affermato che il 25 aprile debba intendersi come la festa della Libertà, senza specificazioni ulteriori, provocando qualche perplessità nella stampa di sinistra. In verità non sembra che gli esponenti dell'opposizione abbiano sostenuto qualcosa di granché diverso. Sul palco a Porta San Paolo, ad esempio, si è assistita alla solita, oramai dalla metà degli anni Cinquanta, rappresentazione della Resistenza come conquista della democrazia, rappresentazione suggellata dalle parole con cui il Presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, ha ancora una volta pedantemente cristallizzato la Liberazione nello stanco e logoro slogan “fine del fascismo, libertà e democrazia”. Stigmatizzare la povertà e la pigrizia intellettuale palesati da simili formule sarebbe peraltro una assai poco intelligente operazione moralistica. Diversamente dalla comunità scientifica, difatti, il ceto politico, soprattutto nei vertici istituzionali, non può che adempiere l’obbligo civico di attingere dal patrimonio storico quanto utilizzabile (e manipolabile, quindi falsificabile) ai fini della corroborazione dello spirito identitario e del sentimento nazionale e di stendere invece un velo d’oblio su quanto non si presti a una simile operazione.

Così, nel corso del suo mandato presidenziale, Carlo Azeglio Ciampi ha legittimamente perseguito l’obiettivo di dipingere e divulgare l’immagine della Resistenza come di un’«epopea popolare» volta a liberare il suolo italiano dallo straniero, con il contributo dei resistenti in armi, militari e partigiani, e di quelli civili, intervenuti a soccorso dei primi. Nella pedagogia civile dell'ex Presidente della Repubblica, quindi, gli altri scopi che si prefissero le singole anime resistenziali, spesso incompatibili tra loro, illanguidiscono fino a scomparire, in quanto non maneggiabili ai fini della costruzione di un ethos condiviso. Stessa sorte, a fortiori, tocca al tema della guerra civile, marginalizzata nel discorso presidenziale dalla centralità quasi esclusiva della Resistenza decrittata quale «corale» e «tricolore» secondo Risorgimento. Al medesimo tempo Ciampi ha ripetutamente affermato che «il lavoro della memoria impone soprattutto che nessuna delle vicende di quegli anni venga dimenticata» e che tale «memoria intera» debba promuovere una «riconciliazione senza amnesie» (la possibilità dell’affermazione di una «identità condivisa» è stata espressa in occasione del primo messaggio al Parlamento da Presidente della Repubblica anche da Giorgio Napolitano). Da parte nostra non possiamo non avanzare la convinzione che proprio una memoria non parziale rende impraticabile il tentativo di tesserne una condivisa, non solo, com’è evidente, tra antifascisti e fascisti, ma anche all’interno del perimetro antifascista, data l’alterità valoriale sovente irriducibile delle forze in campo. Rifiutando l’obiettivo, in quanto non «conoscitivo» ma «politico», dei sostenitori della «“conciliazione” tra gli italiani», Salvatore Lupo ha scritto «che la storiografia non concilia nulla e nessuno. Anzi, in quanto libero esercizio conoscitivo, essa restituisce i contrasti nella loro lividezza e anche (se del caso) nella loro ferocia, e dunque casomai divide di nuovo, ricrea la memoria laddove quello che si vorrebbe determinare è l’oblio» (S. Lupo, Il dibattito sul fascismo, in Aa. Vv., Le categorie del revisionismo italiano tra storia e politica, Brescia, 2001, p. 46). Sergio Luzzatto ha avvertito nell’appello alla memoria condivisa il rischio di «un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze», di una «smemoratezza patteggiata», di una «comunione nella dimenticanza» (S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Einaudi, 2004, p. 23). Silvio Berlusconi non ci sembra, quindi, introdurre con le sue parole un elemento di novità in quella lettura della Resistenza che fin dalla riscoperta di essa da parte moderata oramai più di messo secolo fa ce la presenta come un evento meramente patriottico-militare e aclassista.

Stupisce, invece, come proprio il contenuto classista della Resistenza, e quindi divisivo, che non può fare del 25 aprile una festa di tutti, della Nazione, perché la Nazione, per un comunista (non un togliattiano) è solo un ipocrita e pietoso velo per occultare l'inevitabile contrapposizione tra classi, venga dimenticato o comunque marginalizzato dalla stampa (sedicente) comunista di maggiore diffusione. Ho dovuto, ad esempio, sempre a Porta San Paolo, acquistare l'ultimo numero della rivista a me sconosciuta Resistenza dell'altrettanto a me ignoto «Organo del Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo (Carc)» per poter leggere che «la Costituzione è stata un compromesso tra la forza raggiunta dal movimento comunista, dai lavoratori e dalle masse popolari organizzate e armate che nel nostro paese avevano sconfitto la dittatura fascista […] e le forze capitaliste, imperialiste e vaticane raccolte nella DC che avevano mantenuto nelle loro mani la direzione del nostro paese. È una “Costituzione sovietica” come dice Berlusconi, nel senso che sancisce i diritti politici e sociali delle masse popolari, però non lo è abbastanza visto che nello stesso tempo sancisce il carattere privato dei mezzi di produzione, riconsoce e difende la proprietà privata e la divisione in classi della società italiana». Altro che dogma e sacralità della suprema Carta...

Luca Tedesco

 

 

 
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