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“Dr. Livingstone….i suppose..”

Post n°7 pubblicato il 26 Luglio 2009 da max_6_66
 
Tag: laura
Foto di max_6_66

Iniziando come giusto dal principio, la correttezza storica  impone di ricordare che probabilmente la frase fu “Dr. Livingstone...i presume”. In ogni caso, quando la pronunciò, davanti a se Henry Morton Stanley aveva un uomo di circa 56 anni, sfinito dalla dissenteria e dalla malaria, seduto su un sedile di terra davanti alla sua capanna nel villaggio Ujiji, sulle rive del lago Tanganica. Ci vollero alcuni secondi prima che questi distogliesse lo sguardo dai disegni che stava facendo sul terreno rosso vicino ai suoi piedi con un rametto di acacia e che alzasse il capo verso l’uomo robusto e baffuto che aveva pronunciato il suo nome.

David Livingstone a dieci anni lavorava in una filatura in Scozia. Sulla filanda davanti a lui appoggiava  un libro e lo leggeva . Visto che lavorava per tutte le ore del giorno, tranne le poche dedicate al riposo notturno, quello fu l’unico modo possibile per poter in seguito frequentare gli studi di teologia e medicina a Glasgow, terminati i quali entrò nella Società Missionaria di Londra, pronto per partire per la Cina. Questo era il suo sogno, il fine al quale erano stati dedicati questi incredibili sforzi giovanili.

Purtroppo, a causa della guerra dell’oppio, fu invece destinato dai signori della società missionaria nel posto che consideravano più sfigato tra i tanti posti sfigati nel mondo: alle missioni africane, esattamente al territorio della tribù bantu dei Bechuana, nel Botswana. Nell'aprile del 1841 quindi il nostro eroe sbarcò a Port Elisabeth, 725 Km ad Est del Capo di Buona Speranza, salì su un carro che in soli due o tre mesi l’avrebbe portato alla sua destinazione finale e iniziò a guardarsi intorno. Fu immediatamente colto da una serie di folgorazioni visive, uditive e olfattive che in capo a pochi giorni lo portarono alla convinzione di essere (suo malgrado e casualmente, lui voleva andare in Cina….) sotto il suo vero cielo, in un mondo che sentiva suo e al quale pensò di appartenere da sempre.

La prima tappa del suo viaggio, il piccolo villaggio missionario di Kuruman, riuscì per poche settimane a placare la sua sete e dopo aver scritto in una lettera a suo padre "Io non costruirei mai sulle fondamenta poste da un altro, predicherò il Vangelo in zone nuove" , partì inseguendo un nuovo sogno. Un sogno che lo portò dopo trecentoventisei chilometri percorsi tra savana, paludi, deserti e sterpaglie in un posto chiamato Mabotsa, dove posò le fondamenta della sua prima missione. Nei tre anni successivi, oltre a fondarne un altro paio, ebbe anche il tempo di sposarsi con tale Mary Moffat, figlia di un altro missionario, Irlandese, conosciuta durante un periodo di convalescenza a causa delle ferite riportate dopo aver subito l’attacco da parte di un leone. E qui potremmo anche terminare la storia dei suoi successi come missionario e traghettatore di anime, giusto il tempo di fare  due  puntualizzazioni: la prima riguardo al fatto  che dopo tre anni, delle missioni da lui fondate non era rimasto più niente, la seconda riguardo all’unica conversione che gli storici gli attribuiscono, ovvero quella di Sechele, capo della tribù dei Bakwena, il quale però, appena informato riguardo al fatto che sua la nuova religione non consentiva la poligamia, facendo uno strano gesto consistente nel poggiare violentemente la mano sinistra a metà del braccio destro disse “Kolc….” , che tradotto nella nostra lingua vuol dire approssimativamente “forse ci devo pensare meglio…”

Ma passiamo ai motivi che hanno reso questo personaggio famoso nel mondo: le esplorazioni.

Nel 1855 fu fulminato dall’idea che il fiume Zambesi potesse rappresentare una formidabile via fluviale, la spina dorsale di una nuova via del commercio e della spiritualità missionaria lunga quattromila chilometri da utilizzare al fine di unire le colonie dall’Atlantico all’Oceano Indiano. Dopo i primi ottanta di questi troppi chilometri trovò il primo ostacolo insuperabile, una serie di cascate alte più di novanta metri. Passarono circa dieci ulteriori anni, dove tra le rapide di uno dei fiumi meno navigabili del mondo perse per incidenti, malaria, abbandoni, tutte le persone che lo accompagnavano. Compresa la povera madre dei suoi numerosi figli, scomparsa a causa della dissenteria nel 1863. Nel 1864 tornò a Londra per cercare nuovi finanziatori per le sue imprese, ma la grande maggioranza dei personaggi da lui interpellati risposero “aaaaah ha ha ha ha….aaaaah ha ha”, frase della quale non so indicare la traduzione dall’inglese non essendo padrone della lingua.

Nel 1866 la nuova folgorazione: partire alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Tre tipi che si chiamavano Francis Burton, John Hanning Speke, e Samuel Baker rimasero molto sorpresi da questo fatto, fondamentalmente perché le sorgenti del Nilo le avevano già scoperte loro otto anni prima, identificandole nel Lago Vittoria e nel Lago Alberto. La cosa era però ancora dibattuta e il nostro eroe partì sicuro di raggiungere una nuova verità. Dopo un anno dei suoi (a lottare con le zanzare e la malaria nelle foreste più impenetrabili della terra), raggiungendo il Lago Lualaba vide che ne traeva origine un grande fiume. Per fortuna, prima che si decidesse di annunciare alla comunità scientifica la grande scoperta delle vere sorgenti del Nilo, qualcuno lo avvertì appena in tempo che si trattava del fiume Congo.

Siamo così arrivati sulle sponde del Lago Tanganica, dove Livingstone, si diceva, sta disegnando qualcosa sulla terra rossa africana con un ramo di acacia, quando l’udire il suo nome lo riporta nel mondo reale. E’ il suo salvatore, il capo di una carovana spedita appositamente da Zanzibar in suo soccorso. No c’è tempo per le cerimonie, il nuovo amico viene seduta stante arruolato per una nuova avventura. L’esplorazione di tutta la zona a nord del Tanganica. Henry Morton Stanley resiste dietro a Livingstone per un anno, poi una sera esce dalla tenda dicendo all’amico che deve andare a comprare le sigarette. Non lo vedrà mai più.

Livingstone continua per i tre anni successivi a vagare per lo Zambia, fino a quando nel 1873 anche il suo corpo si ribella e decide di abbandonarlo per sempre. Viene trasportato per oltre mille miglia da due suoi fedeli assistenti, Chuma e Susi, che si preoccupano affinché il suo corpo venga imbarcato su una nave a Port Elisabeth per essere portato nel suo paese natale. Li verrà seppellito con tutti gli onori che si riservano agli eroi, nell’Abbazia di Westminster. Il suo corpo.

La prima volta che sono stato in Africa (Marzo 2001) ho alloggiato in un cosiddetto “Lodge”, o meglio ho dormito in un tenda costruita su una specie di palafitta lungo il fiume che lo costeggia. Questo Lodge probabilmente non è mai stata una delle residenze di Karen Blixen (quella di “la mia Africa”) e probabilmente Karen Blixen non c’è nemmeno mai passata di li, ma a causa del fatto che da quelle parti tale nome permette di rafforzare il proprio mal d’Africa, ovvero da l’alibi a molti sospiri che affollano i racconti di chi torna dopo una settimana o due alla propria vita a Conegliano Veneto come  a Abbiategrasso, il nome della stupenda eroina del secolo scorso appare ovunque. Non a caso, sulle pareti della mia tenda erano affissi molti graziosi quadretti  contenenti preziosi aforismi. In uno c’era scritto “in africa ti svegli la mattina e pensi: sono qui dove devo essere, perché appartengo a questo posto – Karen Blixen”. Fuori della mia tenda invece c’era una certa quantità di animali parecchio incazzati, che non perdevano occasione di manifestarmi quanto io e la mia tenda fossimo degli intrusi piuttosto molesti, per quanto  potenzialmente appetitosi o nel peggiore dei casi comunque commestibili. Qualcuno che è stato ospite dopo di me nella stessa dimora, probabilmente avrà notato che tra le molte frasi ad effetto incorniciate, ce n’era tra le altre una scritta frettolosamente a penna che recitava “In Africa mi sono svegliato questa mattina e ho pensato: anche stanotte non mi hanno mangiato”. La firma in calce era questa volta la mia.

La seconda volta che sono stato in Africa (Agosto 2003), ma no, non era proprio Africa, quanto un pezzo creolo di Portogallo oramai indipendente da una trentina di anni e associato comunque a quel continente. Su una spiaggia sperduta presso un paesino di pescatori di Sao Vincente, isola dell’arcipelago di Capoverde, stavo trascorrendo oziosamente il tardo pomeriggio quando vidi al largo le barche che stavano rientrando. A Capoverde i pescatori partono al mattino con una barchetta a remi e rientrano nel tardo pomeriggio con la stessa carica di tonni di qualche quintale e con le pinne gialle. Era una settimana che tra i nostri compiti di ospiti di quella spiaggia (quattro toscani, due spagnole e due milanesi) c’era quello di aiutare i vari pescatori al loro rientro ad issare a riva le barchette, trascinandole poi sui classici tronchi di palma piazzati a tal uopo poco dopo la fine della battigia. Dopo aver compiuto l’operazione, si facevano insieme dei commenti sui vari tonni pescati (ognuno nella sua lingua…senza capirsi….in quei posti parlano creolo, che sta a metà tra il portoghese, l’arabo e qualche dialetto senegalese), magari ci scappava un sorso di grog (un distillato di canna da zucchero che al vicino aeroporto usavano per fare il pieno agli aerei quando gli mancava il Karosene….e volavano alla grande, anzi meglio…) e così passavano le giornate. Poco lontano dalle case dei pescatori, abbandonata al centro della spiaggia,  una capanna semidistrutta dall’aliseo con scritto “Bar – se vende” che tutti noi abbiamo fissato lungamente, in silenzio, senza farne parola con gli altri, per tutta la settimana di permanenza. Finita le settimana, siamo ovviamente tornati tutti a dormire tra le quattro mura in muratura di casa nostra.

Cammino per la cucina e penso. I sogni bisogna saperli maneggiare. Sono delicati, come le bolle di sapone, e come queste vanno seguiti con poco più di uno sguardo. Appena ti illudi che una si posi sulla tua mano……   ”plik….” , ma appena tuffato il bastoncino nell’acqua e sapone….non si può fare a meno di soffiarci dentro. Vado in cortile e guardo il giardino. I cipressi, gli aceri, la siepe. Oltre la siepe non riesco a vedere, devo salire al piano di sopra. Apro la finestra. Adesso vedo i campi coltivati e a circa un chilometro il tratto sopraelevato della tangenziale che mi nasconde quello che ancora c’è dietro. Ancora due rampe di scale e sono in soffitta. Scivolo carponi fino a un delle due finestrine nella parte bassa del sottotetto, fa un caldo bestiale, intravedo ancora qualcosa, al limite di quanto la vista può permetterci di vedere in modo definito e comprensibile, fa troppo caldo.

La cosa che mi ricordo della savana e degli altopiani del Kenia è l’orizzonte. L’aria pulita ti permette di vedere talmente lontano che si ha l’impressione di notare la curvatura della terra. Si vede talmente lontano che la terra diventa azzurra, fino a confondersi, nel punto estremo dove la vista arriva, con il cielo. In Africa la terra e il cielo si toccano. Questo pensiero continua a rimbalzare, così come rimbalza la sensazione che ci sia un modo di vedere più lontano di quanto sia nelle possibilità dei nostri occhi, o nelle possibilità di andare in un punto più alto del tetto della casa.

Torno in giardino e mi siedo davanti alla siepe. Dopo alcuni minuti inizio a sentire dei rumori differenti da quelli delle cicale di Luglio. Sono uccelli, ma hanno un verso più intenso, gracidante. In lontananza i rumori delle auto sulla tangenziale si interrompono improvvisamente dopo un rumore intenso, forse una frenata improvvisa. Sembra quasi un barrito. Dietro la siepe, un uomo sta facendo sulla terra rossa dei disegni con un rametto di acacia.

 
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