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Post n°35 pubblicato il 01 Ottobre 2009 da max_6_66
Foto di max_6_66

Lunedì scorso, intorno alle 19,00. Era appena terminato il primo giorno di una nuova settimana lavorativa, anzi, quasi terminato, perché mancavano ancora quei maledetti cinquecento metri.

Ho sempre avuto un rapporto negativo con il dolore,  con la sofferenza, fin da bambino. La visione del sangue mi ha sempre fatto impressione, non solo la visione diretta, ma anche quella indiretta fatta attraverso il racconto di qualcuno. Non sto parlando necessariamente del mio dolore o del mio sangue. Non perché mi faccia meno effetto, ma perché quando ti fai male non fai in tempo ad accorgertene ed è già successo, il dolore vero e proprio è superiore al senso di paura che ti fa, e in ogni caso quando passa, sei talmente felice che è tutto finito che a quel punto hai solo una sensazione di sollievo.

Quei maledetti cinquecento metri che mi separavano dall’ufficio. Dovevo passare da li prima che la mia giornata lavorativa fosse veramente da considerarsi conclusa e a quell’ora ci si impiegano anche trenta minuti. Una congiunzione astrale negativa fatta di vari elementi che sommandosi tra loro creano un groviglio di auto e camion difficile da districare: una strada a due corsie che si restringe ad una sola, in corrispondenza di un ponte che porta ad una zona industriale con annesso interporto merci, il tutto in prossimità di un’ uscita dell’autostrada.

Nei rapporti tra noi e gli altri, molte situazioni sono governate e profondamente influenzate da una specie di empatia, o meglio, usando una parola che viene molto travisata nel suo significato: compassione. Il senso un po’ dispregiativo fatto nell’uso comune di questo termine ce ne ha fatto dimenticare il vero significato, di soffrire insieme, provare insieme dolore, ma anche sensazioni o sentimenti. Milan Kundera la chiama “la telepatia delle emozioni”.  

Ero a metà dell’ombelico autostradale del mondo, non avevo acceso nemmeno la radio, i minuti che ancora mancavano li stavo passando osservando la faccia delle persone dentro le auto che procedevano in direzione opposta. Esattamente sullo svincolo autostradale una macchina ferma, sicuramente in panne (nessuno parcheggerebbe su uno svincolo autostradale). Non mi sbagliavo, intravedevo anche il triangolo, posato a terra alcuni metri prima. Esattamente all’ingresso dello svincolo una ragazza con il classico  giacchetto fosforescente, sicuramente l’occupante dell’auto. Pensai che stesse aspettando qualcuno che venisse a prenderla o ad aiutarla a far ripartire il mezzo, forse il soccorso stradale. La vedevo ancora dallo specchietto retrovisore quando oramai avevo imboccato la corsia unica del ponte, poco dopo aver passato il punto critico dell’ingorgo.

Il rapporto di un bambino con la sofferenza, non è paritario. In realtà viene investito dalla stessa quantità di dolore di un adulto, quindi  sproporzionata rispetto alle sue  forze. Per questo non sfoga la sofferenza con le lacrime, la disperazione, la commozione. E’ un po’ come far passare l’acqua di un fiume da un tubo di gomma per innaffiare. Troppa acqua, troppa pressione, non passa niente. Rimane quindi tutto all’interno, scavando profonde ferite. Un giorno di molti anni fa (quasi quaranta), camminavo insieme a mia madre per i corridoi di un ospedale. Eravamo li per andare a trovare un suo cugino, quando vagando insieme a lei per i vari reparti, mi trovai in una stanza piena di bambini che dovevano avere circa la mia età. Mia madre  che chiedeva informazioni ad una infermiera e io ancorato alla sua mano, li osservavo. Osservavo le loro espressioni immobili e  tutti quei fili che collegavano strani macchinari ai loro corpi. E quei corpi osservavano me, silenziosi. In quel momento provai talmente dolore per quella situazione, unito al desiderio che intervenisse qualcosa in grado di farli guarire immediatamente, o comunque di far cessare la sofferenza in quella stanza che forse pregai, forse feci una richiesta strana, dettata dalla forte emotività del momento, forse dissi al mio angelo custode  che da quel momento in poi rimanesse li con loro,  riservandomi il suo aiuto negli anni a venire, per i due o tre casi veramente difficili che statisticamente possono capitare anche nella vita dei più fortunati. Ma anche no. Probabilmente le preghiere dei bambini hanno una specie di via preferenziale, tant’è che da allora sono rimasto solo.

In ufficio avevo sbrigato tutto in un lampo tanta era la voglia di terminare il prima possibile il lunedì lavorativo, che stavo già percorrendo il tratto di strada infernale al contrario. Aveva anche iniziato a piovere. Soprattutto sulla testa della povera ragazza di prima che era ancora ferma nei pressi dello svincolo autostradale, come se aspettasse qualcuno. Il posto non era dei migliori per fermarsi, ma con qualche manovra pirata ero riuscito ad accostare. Abbassando il finestrino gli avevo chiesto se aveva bisogno di qualcosa, di un passaggio. “ti bagnerei tutto il sedile dell’auto” mi aveva detto “e chi se ne frega, tanto sono assicurato” avevo risposto aprendo lo sportello. Poi, come leggendomi nel pensiero, ma anche anticipando domande ovvie, aveva iniziato a spiegare confusamente che pensava di chiamare qualcuno per farsi aiutare ma aveva pensato non fosse il caso, non era una situazione così di emergenza, e poi in qualche modo si riesce sempre a cavarsela, c’è sempre qualcuno che ti da una mano, eccetera eccetera. Mentre guidavo verso l’indirizzo che mi aveva detto, ripensavo ai momenti in cui ho avuto un aiuto importante. Una volta quando mi sono perduto in montagna, un’altra quando ho dovuto fare il salto tra essere un bambino e un quasi ometto, un paio di anni fa quando mi sono guardato allo specchio e mi sono accorto che non ero io. E l’aiuto è sempre arrivato, senza necessità di fare nessuna interurbana, è arrivato dal nulla, è sbucato fuori all’improvviso, sempre pronto. Non più di due o tre interventi, come da accordi. E mai su mia richiesta, sono sempre state iniziative sue. E quindi tante altre volte anche io, come la ragazza che stava infradiciando il sedile della mia auto, ero rimasto vicino alla mia auto in panne ad aspettare, perché comunque in qualche modo avrei risolto.

“Grazie, sei stato un angelo….” Sono state le sue parole mentre apriva lo sportello dell’auto per scendere. “Eh no….non confondiamo le persone con gli angeli” ho risposto “Magari a volte uno ne fa un po’ le veci, giusto per lasciare a loro il tempo di dedicarsi a cose più importanti….”. Ero sicurissimo che avesse preso la mia frase come una battuta, fino  a che scendendo dalla macchina mi ha detto “Hai ragione, il mio in questo momento è su una barca tra Malta e la Sicilia”.

Eh si…….Ne hanno di lavoro da fare.

 
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