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super-ufficio postale

Post n°74 pubblicato il 04 Dicembre 2009 da max_6_66
 
Tag: Fabio
Foto di max_6_66

Non manca molto alle vacanze Natalizie. Sai, quando ti svegli e pensi a queste cose vuol dire che senti il peso del tuo quotidiano. Stanco del lavoro, stanco delle tue relazioni familiari, stanco delle tue abitudini, stanco del tuo ruolo, del tuo personaggio. Se in una giornata così ci metti un paio di bollette da pagare assolutamente, un l’ufficio postale che aperto solo fino alle tredici, pieno di gente in piedi che aspetta e vuoto di volontà da parte di chi sta dall’altra parte del bancone di ritirare il frutto della tua fatica in cambio di un timbro su un foglio di carta, tutto quanto viene estremizzato e trasformato nell’ennesima cosa che non hai voglia di fare. Non hai voglia di alzarti dal letto, non hai voglia di vestirti, non hai voglia di uscire di casa. Tra l’altro sai che fuori farà un freddo e soprattutto il movimento degli alberi che vedi dalla finestra indica in modo inequivocabile che c’è un ventaccio cane. E io odio il vento, figuriamoci il ventaccio cane.

Che poi i cani sono tutti buoni. A volte un po’ tontacchioni, ma solo per abbondanza di affetto, per esagerazione di sottomissione amorevole verso il padrone. Ora che ci penso non sono tutti buoni. C’è quello smagrito, segaligno, abbandonato e abituato a capire i colori dei semafori, che non è forse cattivo, ma è traditore. Quando ti viene incontro tiene il muso basso e la coda tra le gambe, ma un secondo dopo esserti passato a fianco, gira la testa con uno scatto e ti morde da dietro la caviglia, affondando lo spillo dei denti nel tendine d’achille. Quello è il cane che viene usato in forma di aggettivo per definire il tipo di vento che odio di più.

Cerco una buona ragione per rimandare vigliaccamente tutto quello che devo fare. Ma ci vuole una ragione altrettanto forte che sia almeno in grado, non dico di vincere, ma almeno di competere con i sensi di colpa che apparirebbero nel tardo pomeriggio nel caso non compissi tutti i miei doveri di oggi. I sensi di colpa del tardo pomeriggio-quasi ora di cena sono terribili. Abbiamo imparto a conoscerli da bambini, quando dopo aver passato un pomeriggio a giocare a pallone si rientra in casa e tutti i compiti di scuola per la mattina successiva sono ancora da iniziare.  Non sono sensi di colpa intensi, ma continui e snervanti. Non è una martellata su un piede, è un mal di denti.

Oggi proprio non me li posso permettere. Infatti mi sto già vestendo, distrattamente. Un paio di pantaloni macchiati, me ne sono accorto ma non fa niente. Tanto oggi mi sento così. Certo che sono veramente un po’ troppo macchiati. Ieri sera ho avuto qualche problema con la cena. Ad un certo punto ha dovuto uscire da dove era entrata. Ha dovuto forse non è la parola adatta, nel senso che non credo che fosse in qualche modo un suo dovere o un obbligo, ma tant’è che in modo inaspettato e improvviso è successo. Probabilmente avevo proprio questi pantaloni. Non stavo male, è stata solo una reazione emotiva. Mi succede, non è la prima volta. Tutti ricordi ovattati dal mal di testa che si rincorrono quando sono già in strada. Devo cercare una cabina del telefono. Sempre lo stesso problema. Guardo ancora i miei pantaloni, non sono poi così sporchi. Cabine del telefono nell’era dei cellulari non ce ne sono più, un ulteriore elemento che dovrebbe farmi capire una volta per tutte quanto sono fuori moda. L’ho trovata, finalmente posso liberarmi dei pantaloni sporchi. Mi tolgo il giubbotto, inizio a sbottonarmi la camicia. Bottone dopo bottone appare un pezzo in più della mia “S” sul petto. Mi tolgo gli occhiali giusto mentre sto spalancando le porte della cabina telefonica, pugno al cielo e via verso l’ufficio postale.

Niente di più e niente di meno di quello che mi aspettavo. Lo stesso ufficio postale di sempre, lo stesso di tutti noi. Adesso ci sono dei pulsanti. Una volta capito quale devi premere a seconda di cosa devi fare, la macchinetta sputa il foglietto con sopra un numero che prima o  poi apparirà nel tabellone a lato della stanza. Le prime volte sbagliavo pulsante. Quando era il mio turno venivo respinto, dovevo premere un altro pulsante e ricominciare tutto da capo. Poi ho iniziato a premere tutti i pulsanti in modo da avere tutti i numeri. Se venivo respinto ne avevo già pronti altri tra i quali c’era sicuramente quello giusto. Adesso ho imparato e ci indovino al primo tentativo. Tanto sempre le stesse bollette devo pagare. Vecchi che ritirano la pensione, sono sempre i primi ad arrivare. Addirittura quando gli impiegati aprono al mattino l’ufficio, ne trovano già qualcuno fuori che aspetta. Calzamaglie smagliate. Mantelli sporchi nella parte inferiore, quella che frega per terra, l’orlo sdrucito. Lettere cucite nel petto che avrebbero bisogno di qualche punto di rammendo. Operazione che in molti casi non ha molta utilità, visto che comunque nessuno sarebbe in grado di ricordare di quale parola, di quale nome, quella lettera rappresenta l’iniziale.

A cosa serve, penso, cosa ce ne facciamo. Quante cose che non vogliamo sentire siamo costretti ad ascoltare con il super-udito. Quante cose che non dovremmo vedere ci mostra la super-vista a raggi x. Per non parlare dei disgraziati che sono condannati alla capacità di leggere nella mente delle persone. Un prezzo da pagare, una sofferenza gratuita che riempirebbe di astio il cuore di chiunque. E così noi, che per natura e il ruolo che la società ci impone non riusciamo a permetterci nemmeno questo lusso, consumiamo per spengere questo incendio le nostre migliori energie. Quando ero bambino mi piaceva coltivare le fragole. Non serviva a niente, lo facevo per gioco, con l’unico risultato di potermene mangiare qualcuna a maggio e soprattutto a giugno per il mio compleanno. Poche, perché non ne avevo mai più di due  tre piantine. Ma ero felice quando le vedevo nascere dai fiori e poi crescere. Mi sentivo un mago, un Supereroe.

 
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