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pane

Post n°104 pubblicato il 19 Gennaio 2010 da max_6_66
 
Tag: luisa
Foto di max_6_66

Non so perché ci sto pensando. Forse perché ieri sera, a causa di un menù incentrato sulle tagliatelle, non abbiamo nemmeno toccato il pane. Trascorro il sabato pomeriggio cucinando e i sabati sera a cena con il gruppo dei soliti amici. Non compro mai il pane perché uno dei partecipanti fissi del sabato sera è un fornaio, che puntualmente alle 20,30 si presenta con vassoi di pizzette, schiacciata, biscotti, e naturalmente il pane. La bozza pratese, forma tipica, non salato, pezzatura sul mezzo chilo, ideale per le merende prosciutto formaggio e vino rosso, buono anche dopo tre giorni. Domenica mattina, riassettando una cucina/trincea, con due bozze di pane da mezzo chilo che mi osservano interrogative. Non so perché ci sto pensando, a mio padre, mia madre, a quand’è il giorno, il mese, forse il periodo della mia vita che mi hanno insegnato questa cosa. Di più, che me l’hanno fatta entrare proprio in testa.

 

Quando siamo piccoli ci vengono trasmesse, insegnate, anche imposte, cose delle quali raramente comprendiamo il senso. Il pane non avanza e non si butta. Ancora oggi, quando rimane mezza fetta di pane vicino al mio piatto alla fine della pietanza, lo mangio. Da solo. Non è una cosa fatta consciamente, direi piuttosto un riflesso condizionato che affonda le proprie radici nei principi su cui è stata basata la mia educazione. E questo faccio anche adesso, che vivo in completa solitudine.

 

Ci sono anche altre regole alle quali sono profondamente abituato, tipo il non alzarsi da tavola fino a che tutti hanno finito di mangiare e non tenere accesa la televisione durante i pasti. Regole che rispetto con piacere, anche se per ovvi motivi solo durante i pasti insieme alla mia famiglia o comunque insieme ad altre persone. Non sono cose poco ragionevoli o difficili da considerare giuste. La mia difficoltà da bambino era infatti quella di capire che erano regole importantissime e prioritarie, alle quali non era possibile transigere, nemmeno se il cielo ti cadeva sulla testa.

 

Si diceva che queste due forme di pane mi stavano osservando, con una espressione tra l’interrogativo e la sfida. “E mo’….?”. E così, una fredda ma limpida domenica di gennaio sono uscito in cortile, a finire di fumare il mezzo cubano avanzato la sera precedente. Dietro casa mia ci sono campi per circa un chilometro, fino alla tangenziale. Sono tutti coltivati, la maggior parte ad orto. Un’idea vaga, informe, osservando un uomo chino su delle file di cavolo nero toscano. Lo chiamo per nome, lui si alza, mi saluta, mi invita a raggiungerlo. Da un lato del mio giardino c’è un piccolo cancello di legno, il tempo di aprirlo e arrivare vicino all’uomo che immediatamente e senza dire niente mi viene messo in mano un sacchetto pieno di verdure. Una mezz’ora di chiacchiere, uno scambio di consigli.

 

La ribollita Toscana l’ho imparata da mia madre. Si parte da una zuppa di verdura densa, assolutamente non passata. Il cavolo nero, lasciato a foglie quasi intere, fondamentale, insieme ai fagioli cannellini, la verza, le patate, le carote. Il tutto preceduto da un soffritto di cipolla, fatto direttamente sul fondo della pentola. Il pane si affetta, si taglia a quadretti di un centimetro e si mette in attesa dentro la ciotola. Otto ciotole in attesa che il contenuto della pentola vi venga rovesciato.

 

Il lavoro è terminato e sono soddisfatto. Le ciotole di ribollita stanno riposando sul tavolo di cucina, ricoperte da un canovaccio di cotone. Tra un’oretta le chiuderò con il cellophane, tornerò a chiacchierare una mezz’oretta con l’uomo dei cavoli porgendone una nello stesso modo come mi è stato dato il sacchetto prima. Poi andrò a suonare ai campanelli dei vicini. Rimangono solo alcune briciole sulla tovaglia dove ho affettato il pane. E questa è l’ultima cosa che ho imparato da mia madre. L’ho vista fare due volte al giorno per trenta anni. I passeri che oramai non lasciano le nostre città nemmeno per l’inverno cinguettano e mi trasmettono la loro felicità, mentre aspettano che una tovaglia venga scossa in cortile, in una fredda domenica pomeriggio di gennaio.

 

Trenta anni vissuti in una casa dove durante i pasti si parlava con i figli, e dove non è stato mai buttata via una briciola di pane. Ce n’è voluto del tempo, ma adesso, mentre mi accendo un nuovo cubano, inizio a capire.

 
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