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LE INSOSPETTABILI ANALOGIE TRA LA MUSICA JAZZ E LA MANOVRA FINANZIARIA

Post n°1932 pubblicato il 04 Settembre 2011 da pierrde

Passo una mezz'ora ogni sera navigando tra i siti più disparati alla ricerca di notizie o per semplice curiosità. Cosi' spesso mi imbatto in commenti o articoli interessanti. Oggi ho trovato questo scritto di Alessandro Dagnino sul sito Siciliainformazioni.com divertente ed in buona parte condivisibile e ve lo sottopongo:

 

 

In questi giorni ho scoperto un'insospettabile analogia tra discipline apparentemente diversissime tra loro: il jazz e la finanza pubblica.

Alla voce «jazz», su Wikipedia, si legge che «caratteristiche peculiari del genere sono il ritmo swing spesso sincopato, la poliritmia, l'uso intenso di improvvisazione e il tono malinconico dato dall'uso delle blue note».

Non saprei trovare espressione più adeguata per descrivere gli sviluppi della finanza pubblica italiana degli ultimi anni e, in particolare, delle ultime settimane.

È bene procedere in modo analitico. Il «ritmo swing spesso sincopato» e la «poliritmia» sono chiaramente percepibili. A periodi di grandi trionfalismi, nei quali si sono evidenziati le virtù dell'Italia, rispetto alla crisi internazionale, si sono alternati periodi — come quello attuale — nel quale sembra che tutto rischi di andare a rotoli, a meno di gravosissimi interventi dell'ultim'ora.

«L'uso intenso di improvvisazione» è forse la caratteristica più evidente. Nonostante i grandi proclami della classe dirigente oggi al governo, che ha concepito ben due progetti di riforma generale del fisco statale, nel 2003 e nel 2011, nonché, nel 2009, un progetto di riforma del fisco federale, attuativo dei principi costituzionali introdotti nell'ormai lontano 2001, ben poco di organico è stato realizzato.

La riforma del 2003 è rimasta attuata in minima parte, quella del 2011 deve ancora essere avviata e quella del 2009, secondo molti autorevoli commentatori, difficilmente riuscirà ad essere portata a compimento, nell'attuale quadro politico e finanziario. Ma l'arte di improvvisare sembra essersi sviluppata in modo particolare nelle ultime settimane. La concitazione dovuta alla notevole correzione dei conti pubblici che gli organismi internazionali chiedono all'Italia (oltre novantadue miliardi di euro, in tre anni) ha reso necessario il ricorso alla proverbiale capacità di affrontare le emergenze auto-prodotte, tipica dei popoli italici. Dai primi di agosto non passa giorno senza che si apprenda di nuove, originali, idee per salvare la Patria ed il Pubblico Erario. Gli sforzi sono certamente apprezzabili, ma in materia fiscale, a differenza che nel jazz, l'improvvisazione non è una virtù, ma un vizio, che può produrre conseguenze molto dannose.

Ad esempio il ritorno al principio «manette agli evasori», già istituito nel 1982 e abbandonato nel 2000 — anche se limitato, questa volta, ai casi in cui l'evasione superi tre milioni di euro — rischia di essere un flop sotto il profilo delle aspettative di maggior gettito, considerato che, secondo l'opinione largamente prevalente tra gli studiosi, l'evasione è condizionata più dalla probabilità di essere scoperti, che non dall'asprezza delle sanzioni.

Anche la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi nei siti internet dei comuni è una misura in relazione alla quale andrebbero considerate, ad esempio, le possibili ricadute della perdita del diritto alla riservatezza, non tanto nei confronti del fisco (che già conosce il contenuto delle dichiarazioni), ma rispetto al contesto sociale nel quale ciascuno è inserito. Per non parlare dell'idea di aumento temporaneo dell'Iva, che determinerebbe, per molti, la decisione di rinviare l'acquisto di beni e servizi non essenziali, con conseguente rilevante flessione dei consumi e dunque della produzione (ma fortunatamente, in compenso, si è pensato di accorpare le festività!).

Se il Governo sembra improvvisare, l'opposizione non offre concrete opzioni alternative (del tutto generiche si sono rivelate le proposte più volte annunciate dal Pd) e si limita a ripetere quotidianamente, con pedanteria, che «Berlusconi deve andare a casa», sapendo perfettamente che non vi sono, oggi, le condizioni perché questo possa verificarsi. Questo atteggiamento completa perfettamente la sinfonia jazz, aggiungendo il caratteristico «tono malinconico dato dall'uso delle blue note».

Da parte mia ritengo che sarebbe troppo facile limitarsi alla critica distruttiva e pertanto mi permetto un suggerimento: torniamo alla musica classica.

Tradizionalmente con le manovre finanziarie si interviene sugli aspetti quantitativi dell'imposizione, non su quelli qualitativi. Infatti mentre la variazione delle aliquote dei tributi può essere decisa in modo immediato, anche con decreto legge, per modificare gli istituti fiscali occorrono più attenti approfondimenti, per i quali sarebbe bene intervenire in Parlamento con legge ordinaria, come previsto, peraltro, dal sempre più calpestato Statuto dei diritti del contribuente, approvato con legge n. 212 del 2000.

L'intervento migliore dunque, resta a mio avviso, il più classico. Se si devono elevare le entrate fiscali, si eviti ogni forma di ipocrisia e si modifichino le aliquote dei tributi.

Mi rendo conto che ragioni di comunicazione politica suggeriscono di mascherare, per quanto possibile, gli aggravi impositivi ma, date le dimensioni dell'«aggiustamento» in atto, qui davvero sembra che ci si voglia nascondere dietro a un dito. Insomma, non che non ami il jazz, ma credo che in materia di finanza pubblica sarebbe ora di cambiare musica.

 

Che dire, l'autore sembra avere una buona conoscenza della musica afro-americana, e quindi dovrebbe sapere che, rimanendo nella metafora da lui creata, esistono e sono esistite grandi ochestre dove l'improvvisazione è ricondotta all'interno di strutture compositive ben delimitate se non addiritura composte ad hoc per i grandi solisti di turno. Penso a Duke Ellington ed ai grandi e meravigliosi musicisti della sua orchestra: quella voce unica che era Johnny Hodges per la quale compose il celebre Johnny Comes Lately, associando la brutta abitudine di Hodges di presentarsi in ritardo ai concerti e creando un brano in cui l'assolo, appunto, veniva nella seconda parte dell'esposizione del tema, quando anche il sassofonista aveva preso il suo posto.

Ebbene, tornando a Dagnino, oggi il nostro paese avrebbe bisogno di politici all'altezza della fantasia, della qualità e del rigore di Ellington e della sua orchestra, invece è ridotto ad applaudire gli  Apicella, i Pupo e  l'Emanuele Filiberto.

Una maggioranza costituita da incapaci e corrotti che da anni si impegna solo ed esclusivamente per salvare il capo dalla galera mentre L'Italia va a rotoli.

Una minoranza debole e divisa non in grado di intercettare la parte migliore del paese che chiede giustizia, equità e riforme.

Insomma, in attesa di una classe politica futura del livello di Duke Ellington ci basterebbero degli autarchici ma onesti Gorni Kramer o Nunzio Rotondo. Purtroppo abbiamo a che fare con tanti Giovanni Allevi, convinti di essere la reincarnazione di Mozart.

Povera patria, come direbbe Battiato. 

 
 
 
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