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Mondo Jazz

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

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trombone, Filippo Vignato

vibrafono, Pasquale Mirra

batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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« ORNETTE COLEMAN ART DIRE...WAYNE SHORTER »

INTERVISTA A RICCARDO MUTI

Post n°1254 pubblicato il 13 Giugno 2009 da pierrde
 

«...una melode che mi rapiva sanza intender l'inno» (Divina Commedia, Paradiso, canto XIV)

Sul Venerdi' di Repubblica del 29 maggio c'era una lunga e interessante intervista al maestro Muti. Riporto solo alcuni passaggi, quelli a mio avviso più significativi.

  Quel verso dice tutto della musica. La musica è rapimento, non ragionamento. Dietro la forma delle note c'è solo l'infinito, e l'infinito non si può spiegare con le parole....La musica è inspiegabile. In ultima analisi, incomprensibile. Ma è possibile insegnare come aprire le porte al "rapimento". Si può e si deve. Insegnare la musica ai giovani è un dovere etico.

Piuttosto disatteso. Poche decine di ore in un'intera carriera scolastica.

«Le colpe non sono solo di chi governa la scuola di oggi o di ieri. Bisogna andare indietro per capire come mai la nazione con la più grande storia della musica, il Paese che con Guido D'Arezzo ha dato il nome alle note, che con Corelli ha inventato la forma concerto, che con la Camerata de' Bardi ha inaugurato il melodramma, che con Stradivari e Guarnieri ha fabbricato gli strumenti più fiabeschi del mondo, ha finito per recidere le sue radici».

Indietro quanto?

«All'Ottocento, quando il successo travolgente del melodramma emarginò gli altri generi musicali. Un genere nazional-popolare che ha prodotto oggetti musicali eccellenti, ma ha finito per deprimere la qualità delle orchestre, cacciate nella "buca", spesso più "fossa" che "golfo mistico". Da allora la musica italiana è diventata una performance quasi sportiva, col tifo dei loggioni, il divismo dei cantanti.

......si rischia di uscire dal liceo classico sapendo chi sono i poeti minori del Seicento, ma senza avere mai ascoltato, per non dire capito, Mozart».

E mai toccato uno strumento.

«Guardi, la stupirò: per amare la musica non è necessario saperla suonare. Forse che riesce a godere Shakespeare solo chi scrive tragedie? Credo che la didattica di base della musica, negli ultimi decenni, sia stata volonterosa ma fondamentalmente sbagliata. Diciamo la verità: certi infami pifferi messi a forza tra i denti degli scolari, con quegli strazianti miagolii che si sentono a volte uscire dalle finestre delle scuole, finiscono per farla odiare, la musica, a un ragazzino. Non credo neppure che sia necessario insegnare a leggere lo spartito, un esercizio tecnico dispendioso e inutile per chi poi non farà il musicista di professione».

 I ragazzi preferiscono abitare gli stadi del rock che i teatri della sinfonica. «I ragazzi che girano per strada con gli auricolari spesso ascoltano cose molto complesse. Non è la presunta "difficoltà" della musica colta a tenerli fuori dai teatri. Molte volte è una ritualità che non s'è mai rinnovata. Quanto vorrei che finissero certe liturgie, l'applauso, gli abiti scuri, l'ingresso sul palco dei "pinguini" col capo pinguino... Sogno concerti dove i musicisti, vestiti come i loro ascoltatori, spiegano e condividono ciò che stanno per fare, un concerto senza sacerdoti separati dai fedeli, un concerto dove tutti siano concelebranti...».

La lirica negli stadi?

«Non so se i Tre tenori e cose simili abbiano allargato il pubblico della musica, ma non credo l'abbiano comunicata. Quei recital sono condensati di arie celebri, una dopo l'altra, come cioccolatini; strappano applausi, ma un pranzo fatto solo di dessert finisce per disgustare. Un'opera è un apparato complesso, fatto di densità diverse, l'aria esplode al momento giusto, non la puoi strappare come un fiore dall'albero».

Cosa resta? La tivù?

«Vuole dire quei concerti-sonnifero trasmessi alle tre di notte, per assolvere un dovere?».

L'intervista completa è leggibile cliccando qui

 
 
 
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