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STRANGE FRUIT

Post n°3954 pubblicato il 07 Aprile 2015 da pierrde

Nei primi mesi del 2000, allorquando si discuteva sulla più bella canzone del novecento, provai particolare piacere nell’apprendere che il Time considerava “Strange fruit” di Billie Holiday il monumento musicale del secolo, discostandosi dall’opinione generale che aveva indicato “Imagine” di J. Lennon.

Alla base di questo brano c’è una storia, questa ci viene raccontata con dovizia di particolari da David Margolick nel libro “Billie Holiday eseguirà…strange fruit” (ed. Arcana, 2000). Corre l’anno 1939, Billie Holiday si esibisce al Cafè Society di New York, uno dei pochi locali che permette anche alla gente di colore di entrare. Un posto molto speciale dove si incontrano intellettuali e musicisti.

Nel locale di Sheridan Square, la Holiday incontra per la prima volta Abel Meeropol, poeta, scrittore, compositore e fervido attivista politico-marxista. Su un tavolo del Cafè Society, Meeropol, sotto lo pseudonimo di Lewis Allen, e la Holiday scrissero i versi di Strange Fruit.

Una canzone bellissima, drammatica, agghiacciante sui linciaggi dei neri negli Stati Uniti del Sud: “gli alberi del Sud producono uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici, un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud, uno strano frutto che pende dai pioppi…qui c’è un frutto che i corvi possono beccare, che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca, che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere, qui c’è uno strano e amaro raccolto”. Gli strani frutti sono i corpi degli impiccati che penzolano dai pioppi.

Strange Fruit è una canzone durissima, le tragedie del razzismo e del Ku Klux Klan, naturalmente, allora non erano i migliori temi da mettere in musica. Un brano di denuncia sociale quando le battaglie per i diritti civili non erano neanche all’orizzonte. Nessuna casa discografica, infatti, all’inizio accetta di pubblicare il brano. La cantante, però, crede molto nel brano e continua a cantarlo.

Lentamente il brano sconfigge censure e paure. La Holiday ha la voce ideale per cantare i versi di Allen. Una voce rotta, dolente, spezzata, fortemente evocativa e fiera. Nelle sue interpretazioni sensualità e tragedia si combinano secondo un’espressione intensa che difficilmente pare obbligata ad assecondare i gusti del pubblico. Tecnicamente si ispira allo stile sassofono di Lester Young, anticipa le battute, avvolge la melodia di base con tante piccole note, sospiri o pause.

Billie Holiday fu condannata ad essere una donna ai margini infelice, prima bimba povera e molestata, dopo, da giovane cantante aveva visto i corpi neri penzolare dagli alberi; più volte, soprattutto negli Stati del Sud, le era stata negato l’uso della toilette dei locali nei quali si esibiva.

A causa del colore della sua pelle fu costretta ad abbandonare diverse orchestre. Da bambina era cresciuta come una piccola selvaggia tra le strade del quartiere nero di Baltimora, qui conobbe troppo presto gli aspetti più squallidi dell’esistenza. Dovette, infatti, subito industriarsi per guadagnare qualche centesimo: strofinava gli scalini dinanzi alle porte delle abitazioni dei bianchi e faceva piccole commissioni.

A soli dieci anni fu violentata da un inquilino della madre e giudicata corrotta fu rinchiusa in un riformatorio. Uscita ben presto dal riformatorio, Billie (il vero nome era Eleonora Fagan) divenne prostituta adolescente; qualche tempo dopo, però, fu assunta, quasi per caso, come cantante in un locale di Harlem. La sua aggressività e il risentimento furono accresciuti dalla ininterrotta serie di umiliazioni e violenze che fu costretta a subire. A complicare la sua esistenza giunge anche l’eroina.

Questa per la Holiday diviene una nuova schiavitù; parlando di questa sua dipendenza Billie scrisse: “non tardai molto a diventare una schiava tra le meglio pagate. Prendevo mille dollari alla settimana, ma quanto a libertà non ne avevo più di quanto ne potesse avere il più pidocchioso bracciante della Virginia, cento anni fa”. Ad aggravare la sua condizione si aggiunsero diverse storie d’amore difficili e disperate che la ridussero sul lastrico.

E’ inoltre una donna troppo trasgressiva per le autorità e per la società borghese. La polizia la perseguita a lungo e vuole incastrarla come spacciatrice Nessuno si meraviglia quando i giornali di tutto il mondo riportano la notizia della sua morte, avvenuta al Metropolitan Hospital di New York, il 17 luglio 1959. La polizia non la lascia in pace neanche negli ultimi momenti della sua vita, mentre è in agonia la squadra narcotici entra nella sua camera e la dichiara in arresto per la detenzione di un po’ di oppio, incautamente portatele da un amico.

La sua cupa infelicità, la sua continua ricerca di un amore che non trovò mai, si riversano nelle sue drammatiche e struggenti interpretazioni. La sua voce si è progressivamente modificata, all’inizio, infatti, è metallica, fredda, pungente, più tardi diventa acre, urtante, a volte miagolante. Strange Fruit è sicuramente il suo capolavoro.

Nel 1971 Meeropol, nel corso di un intervista, disse di aver scritto “Strange Fruit perché odio il linciaggio e odio l’ingiustizia e odio le persone che la perpetuano”. Le prime volte Billie la cantò per istinto, col tempo ne comprese il significato poetico, e non poteva più cantarla senza piangere. I versi di Meeropol e la voce di Billie immortalarono il capolavoro del secolo.

(Sergio Niger, da Netjus)

 
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