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Mondo Jazz

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Messaggi del 07/04/2015

I 100 ANNI DI BILLIE

Post n°3955 pubblicato il 07 Aprile 2015 da pierrde

Era il 1939. I cinematografi americani passavano Via col vento, storia d'amore contornata da una pacifica, onesta e rispettosa convivenza della civiltà nera con i padroni bianchi del Sud. Era il 1939. In Europa la Germania nazista invade la Polonia, scintilla che accende la seconda guerra mondiale. Era il 1939. Billie Holiday, allora ventiquattrenne, al Cafè Society di New York, intonò per la prima volta, con la sua inconfondibile voce, Strange Fruit.

Ma torniamo al 1939. Strange Fruit inizialmente era un testo per "bianchi radicali", la sua natura sotterranea, drammatica, connessa intimamente al suo vero autore, Abel Meeropol che, da membro del partito comunista americano, fu costretto a scriverla sotto falso nome, con lo pseudonimo di Lewis Allan e pubblicarla come poema sul New York Teacher e sul giornale filo-marxista New Masses.

Meeropol era un insegnante ebreo di New York che poi prenderà in adozione i figli di Ethel e Julius Rosenberg, i due che furono condannati a morte nel 1953 perchè accusati di essere spie dell'Unione Sovietica. Meeropol scrisse Strange Fruit dopo aver visto una fotografia del linciaggio di Thomas Shipp ed Abraham Smith, due neri delle piantagioni del Sud. Quella visione lo scosse a lungo.

Più che solo una canzone Strange Fruit metteva le parole ed una faccia sugli orrori che subivano gli uomini neri in America. Solo il modo di cantare così sofferto e pieno di pause della Holiday poteva spingere quella canzone a quel punto. Ma purtroppo la denuncia razziale era ancora un tabù per l'epoca. Nei decenni la canzone, che il grande critico Leonard Feather aveva chiamato "la prima significativa protesta in parole e musica, il primo lamento non tacito contro il razzismo", era scivolata nel limbo, ricordata solo dagli appassionati di jazz, dai fans della cantante e dai veterani dei diritti civili.

Strange Fruit invece è stato un momento importante, se non fondamentale, perchè combinava elementi di protesta e di resistenza al centro della cultura musicale dei neri, avviando un processo di riappropriazione delle origini africane e del culto della diaspora reso manifesto anni dopo dal be bop e soprattutto negli anni '60 dal free jazz. Pochi si erano azzardati a cantare Strange Fruit prima che la Holiday la trasformasse in palese denuncia.

Charles Mingus, un altro gigante del jazz, disse: "cambiò la mia idea su come una canzone possa raccontare una storia. Quella canzone è lì per dire ai bianchi cosa fanno di sbagliato riguardo la razza." Il giornalista Harry Levin racconta di una sera quando Billie cantò a casa di Arthur Herzog, l'autore di un'altra grande canzone della Holiday, God Bless the Child. "Noi eravamo li, storditi ed incapaci di muoverci.

Lei ci mise in contatto fisico con quella canzone. Nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, mentre stavamo combattendo per riportare la libertà, Billie ci stava dicendo che c'erano alcune cose incompiute con le quali l'America doveva confrontarsi." La Holiday riservava sempre la canzone per il finale dei suoi spettacoli perchè lasciava inevitabilmente il pubblico in silenzio.

"Non c'è nient'altro che possa venire dopo di essa", parola della stessa Lady Day.

(estratti da Storie di strani frutti e diritti umani in musica di Antonino Musco)

 
 
 

STRANGE FRUIT

Post n°3954 pubblicato il 07 Aprile 2015 da pierrde

Nei primi mesi del 2000, allorquando si discuteva sulla più bella canzone del novecento, provai particolare piacere nell’apprendere che il Time considerava “Strange fruit” di Billie Holiday il monumento musicale del secolo, discostandosi dall’opinione generale che aveva indicato “Imagine” di J. Lennon.

Alla base di questo brano c’è una storia, questa ci viene raccontata con dovizia di particolari da David Margolick nel libro “Billie Holiday eseguirà…strange fruit” (ed. Arcana, 2000). Corre l’anno 1939, Billie Holiday si esibisce al Cafè Society di New York, uno dei pochi locali che permette anche alla gente di colore di entrare. Un posto molto speciale dove si incontrano intellettuali e musicisti.

Nel locale di Sheridan Square, la Holiday incontra per la prima volta Abel Meeropol, poeta, scrittore, compositore e fervido attivista politico-marxista. Su un tavolo del Cafè Society, Meeropol, sotto lo pseudonimo di Lewis Allen, e la Holiday scrissero i versi di Strange Fruit.

Una canzone bellissima, drammatica, agghiacciante sui linciaggi dei neri negli Stati Uniti del Sud: “gli alberi del Sud producono uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici, un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud, uno strano frutto che pende dai pioppi…qui c’è un frutto che i corvi possono beccare, che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca, che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere, qui c’è uno strano e amaro raccolto”. Gli strani frutti sono i corpi degli impiccati che penzolano dai pioppi.

Strange Fruit è una canzone durissima, le tragedie del razzismo e del Ku Klux Klan, naturalmente, allora non erano i migliori temi da mettere in musica. Un brano di denuncia sociale quando le battaglie per i diritti civili non erano neanche all’orizzonte. Nessuna casa discografica, infatti, all’inizio accetta di pubblicare il brano. La cantante, però, crede molto nel brano e continua a cantarlo.

Lentamente il brano sconfigge censure e paure. La Holiday ha la voce ideale per cantare i versi di Allen. Una voce rotta, dolente, spezzata, fortemente evocativa e fiera. Nelle sue interpretazioni sensualità e tragedia si combinano secondo un’espressione intensa che difficilmente pare obbligata ad assecondare i gusti del pubblico. Tecnicamente si ispira allo stile sassofono di Lester Young, anticipa le battute, avvolge la melodia di base con tante piccole note, sospiri o pause.

Billie Holiday fu condannata ad essere una donna ai margini infelice, prima bimba povera e molestata, dopo, da giovane cantante aveva visto i corpi neri penzolare dagli alberi; più volte, soprattutto negli Stati del Sud, le era stata negato l’uso della toilette dei locali nei quali si esibiva.

A causa del colore della sua pelle fu costretta ad abbandonare diverse orchestre. Da bambina era cresciuta come una piccola selvaggia tra le strade del quartiere nero di Baltimora, qui conobbe troppo presto gli aspetti più squallidi dell’esistenza. Dovette, infatti, subito industriarsi per guadagnare qualche centesimo: strofinava gli scalini dinanzi alle porte delle abitazioni dei bianchi e faceva piccole commissioni.

A soli dieci anni fu violentata da un inquilino della madre e giudicata corrotta fu rinchiusa in un riformatorio. Uscita ben presto dal riformatorio, Billie (il vero nome era Eleonora Fagan) divenne prostituta adolescente; qualche tempo dopo, però, fu assunta, quasi per caso, come cantante in un locale di Harlem. La sua aggressività e il risentimento furono accresciuti dalla ininterrotta serie di umiliazioni e violenze che fu costretta a subire. A complicare la sua esistenza giunge anche l’eroina.

Questa per la Holiday diviene una nuova schiavitù; parlando di questa sua dipendenza Billie scrisse: “non tardai molto a diventare una schiava tra le meglio pagate. Prendevo mille dollari alla settimana, ma quanto a libertà non ne avevo più di quanto ne potesse avere il più pidocchioso bracciante della Virginia, cento anni fa”. Ad aggravare la sua condizione si aggiunsero diverse storie d’amore difficili e disperate che la ridussero sul lastrico.

E’ inoltre una donna troppo trasgressiva per le autorità e per la società borghese. La polizia la perseguita a lungo e vuole incastrarla come spacciatrice Nessuno si meraviglia quando i giornali di tutto il mondo riportano la notizia della sua morte, avvenuta al Metropolitan Hospital di New York, il 17 luglio 1959. La polizia non la lascia in pace neanche negli ultimi momenti della sua vita, mentre è in agonia la squadra narcotici entra nella sua camera e la dichiara in arresto per la detenzione di un po’ di oppio, incautamente portatele da un amico.

La sua cupa infelicità, la sua continua ricerca di un amore che non trovò mai, si riversano nelle sue drammatiche e struggenti interpretazioni. La sua voce si è progressivamente modificata, all’inizio, infatti, è metallica, fredda, pungente, più tardi diventa acre, urtante, a volte miagolante. Strange Fruit è sicuramente il suo capolavoro.

Nel 1971 Meeropol, nel corso di un intervista, disse di aver scritto “Strange Fruit perché odio il linciaggio e odio l’ingiustizia e odio le persone che la perpetuano”. Le prime volte Billie la cantò per istinto, col tempo ne comprese il significato poetico, e non poteva più cantarla senza piangere. I versi di Meeropol e la voce di Billie immortalarono il capolavoro del secolo.

(Sergio Niger, da Netjus)

 
 
 
 

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