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Gonna find my way to heaven, `cause I did my time in hell... (Keith Richards)
 

 

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Di certe amicizie...

Post n°134 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da nahan
 

 

(post riciclato)

 

Il cancello di casa gli si aprì a tre famiglie. Senza contare gli zii non sposati e quindi poco più che teppistelli.

Fu uno di loro, al solito, a portarlo a casa.

Diventò quanto quel batuffolo zampettare plantigrado indicava: ad un anno era ormai quello che sarebbe sempre stato: fratello a quel Buck di Jack London, una irsuta selvatica livrea bruna bruciata dal grigio disegnava 50 chili di cane alla forma di un solido terranova vestito a malamute.

Iniziò il cucciolo curiosare. Agli ovvi incidenti di percorso del crescere tra galline e conigli rimediò la pedagogia del nonno. Pur lontanissimo dal sapere montessoriano, erudì alla sua crescita e l’immagine di quel gigante che ostenta menefreghismo al becchettargli intorno, fu il risultato di quei dolenti metodi di efficace.

Dell’interessarsi ai gatti conseguiva solo scorno. Non gli riusciva di annusarne. Svelti come tali, lo snobbavano annoiati, guardandolo con sufficienza dall’alto di un albero o di un alto davanzale. Finchè, satanico di felicità, gli riuscì lo stringere all’angolo l'allora sprovveduto Saltapicchio, un macilento gattino capitato da noi qualche giorno prima a rinforzare la già nutrita colonia felina.

Imparò che non a caso le linee che descrivono quella razza sono quelle del leone, di cui il coraggio: pur terrorizzato da quel faccione ghignante d'annuso, inarcoso, il micino sfoderò le unghiette e lo fornì di un occhio blu da pus e di due settimane di pensiero al perder l'occhio (furono i giorni di un suo circolare sussiegoso, dichiarando a tutti quelli che incontrava pienamente soddisfatta la sua curiosità sui gatti).

Che fibra di cane.

Il nonno allevava conigli e quindi li adorava e quindi li macellava con la perizia delle tantissime volte. Per misteriosissimi motivi che si  è portato con se, pover’uomo, stendeva il macabro vello a seccare al sole.  Forse vendeva le pelli, non so, non ne ho idea. Resta che l’affamato la giurò leccornia e se la mangiò dando il via ad una terribile e letale occlusione intestinale.

Non si chiamava il veterinario allora per un cane. Un cane era, per quanto amato, un cane. Forse per i rimedi fattucchieri di antichi saperi della nonna ma, credo meglio, per la sua mastodontica vitalità, sta di fatto che dopo un paio di giorni allibiti digerì il tutto e si presentò ciondolante ma allegro ancora ai nostri giochi.

Non ci giocavo più di altri e chiunque lo accudiva ma per quelle strane alchimie della vita e, forse più, per quel modo simile al mio di crescere, per tutti diventò, senza dirlo, il mio cane.

Significava essere responsabile delle sue malefatte.

Amava il calcio ma non mi fu mai possibile inculcargli le regole e le nostre partite finivano sempre con il pallone sgonfio di azzanno: memorabile quando, durante una partita di prima squadra del paese, terrorizzò l’arbitro e sbranò il pallone tra stupore e ilarità degli astanti. Al calcio in culo che gli rifilò lo zio seguì immediato un mio stop al riso divertito e il pensiero: oggi è il caso torni a casa più tardi!

Alle ire del punire fuggivamo divergendo.

Mentre io scalavo scoiattolo i rami alti del possente albicocco a guardar negli occhi i piani alti della casa (dove incontravo il sorriso divertito della sorellina incredula al pensare che quel fratellone matto volesse entrare senza usare le scale), lui fuggiva ingenuo nell’unico luogo che sapeva rifugio, la sua cuccia, e dove veniva immancabilmente raggiunto dalla personalissima e manesca giustizia del nonno dispensatore. Al seguente silenzio di quel latrare, sia di paura che di dolore, lo raggiungevo e il mesto dell’incatenato si trasformava in allegria dello scodinzolo al nonostante tutto, nel vedermi. E, di contro, nel dolente del “quando toccava me”, lo vedevo arrivare contrito e sincero nel dirmi quanto gli sarebbe stato meglio il prenderle lui al posto mio.

Proteggeva tutti gli esseri viventi della nostra tribù, uomini o bestie ed era micidiale di dolcezza con i piccoli.

Non morse mai nessuna persona. Bastava il vederlo.

Lola, una cucciolotta di pastore tedesco, (ennesima refurtiva istintiva dello zio cleptomane di cinofilo) durante una delle allegre passeggiate organizzate dallo stesso, si intrufolò curiosa dove non doveva e si prese un morso dal tignoso bassotto padrone di casa… il caì spaventato della piccola scatenò il bestione che ridusse a sangue il povero malcapitato (stavolta le rogne furono dello zio).

L’occasionale permesso a partecipare ai pranzi o alle “soiree” nella grande sala durante le Grandi Feste Comandate ostinava di convinzione un suo erroneo pensiero all'essere gradito pure nelle cucine. Era scenetta frequente vederlo esplodersi fuori dalla casa mentre il grosso mestolo di rame gli rimbalzava sul groppone. Lesto l’affiancarlo, inseguito ora io dal: lega quel cane!

Era anche un buon attore ma con poca cura al costume del travestirsi, sicchè, col faccione appoggiato a terra che usciva dalla cuccia, pur vestendo lo sguardo da pesce lesso  veniva smascherato dalle piume ancora appiccicate sugli angoli della bocca: un comico non sufficiente a calmare l'ira delle persone al cancello che mostravano l'oca sbranata.

Quel cancello, scordato aperto alle sue fughe, era viatico all’arrivo dei resoconti sorridenti degli amici: aie devastate con la maleducazione del tanto non è roba mia, contadini infuriati, risse tra cani…

Gli fece qualche ripetizione il nonno e riuscì a passar l’anno con una sufficienza stiracchiata.

Le litanie dei suoi guai snocciolatemi rabbiose quando tornavo si sommavano ai rimproveri dei miei per i miei.

Mia madre ci battezzò fratelli mentre mi curava lo zigomo devastato dalla rituale rissa  partita con gli "odiati" simili del paese accanto:  non so chi è il peggiore tra voi due,  te o il cane! e zittiva con un'occhiataccia mio padre e lo zio che, silenziosi e severi, nascondevano l'animo perplesso ad un sorridente orgoglio.

Gli parlo: tu credi davvero che sia sempre un gioco? credi davvero funzioni così? fai quello che ti passa per la testa, ti prendi le tue legnate e fine? e via che si ricomincia?

Mi rispose con l'entusiasmo del "certo che si!" balzandomi al volto per leccarmi e contemporaneamente sbilanciarmi al trascinarlo.

Lottare con lui era gioia muscolare e non certo posa. Certe battaglie strepite sotto gli occhi sbigottiti delle donne atterrite dal latrare zannuto. Capitava che nella foga dell’istinto mi fosse dentata involontaria e allora, contrito e di immediato stop, si lasciava atterrare: era il suo modo per chiedermi scusa. Scuse di cui non ne sentivo certo il bisogno ma non glielo dissi mai: era il mio unico modo per batterlo e i sui morsi mi erano spaventosi solo d’innocuo.

Si, la pensavo come lui.

In sostanza la nostra comune filosofia era il circumnavigare il cerbero del nonno, incontrarsi sulla quella circonferenza e galoppare via insieme sulle rette divergenti del combinarne.

E certe sere stanche, sul prato dietro l’orto, steso a mangiar frutta mi appoggiavo alla sua schiena cuscino e ascoltavo un raccontare silenzioso mentre si leccava i piccoli sbreghi degli scontri con altri molossi, rincretiniti come lui dagli odori delle cagnette. Ed io pure. E pura poesia era il vederlo avvicinarsi al nonno nemico, sul cui viso da sigaro era ospite raro il sorriso, e godersi i buffetti di quelle mani callute. Una scena che rinforzava la mia certezza: sempre e in ogni caso esiste una via d'uscita che porta al sereno.

 

Purtroppo grande grosso e coglione è sincero motteggio al dipingere l’ingenuo di certi eccezionali.

Lui, tonto altezzoso di potenza che annulla l’imparare, l’altro, il nonno, ottuso di abitudine micidiale che derogò solo all’appendere più in alto il pellame dell’ennesimo coniglio macellato per la domenicale polenta. Ma la mia tigre non era colosso per modo di dire e i due metri a quel velenoso appeso non gli furono certo ostacolo, perenne affamato.

Stavolta non ce la fece.

Dopo una pesante agonia d’occhi da sangue e una sentenza d'impotenza si chiamò lo zio col fucile.

Un doloroso gonfiare il petto a uomo forgiava la mia nuova voce.

Lo faccio io!

Nessuno ebbe niente da ridire, avevo già sparato e, del resto, era il mio cane.

Con lo sguardo franco mi si spiegò il dove e come, fermo, che non fosse errore al far soffrire ancorpiù.

Sorrisi, certo non visto, a quello sguardo spento. Ma so che mi sentì.

E fu un rimbombo da tuono.

Le donne, affaccendate in casa, illusero lo sguardo alle finestre ma il terso di un nessun temporale le chinò silenti al proseguo delle faccende, mentre un magone ladro rubò a mia madre la dolcezza del non poter mai più pensarmi bambino.

 

Tom.

Il mio buon Tom.

Figlio di una lupa innamorata di un orso.

Aveva poco più di due anni.

Avevamo la stessa età

 

 
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En las orillas del duero


La lotta che si combatte nell’animo umano e che sfugge talvolta alla realtà è ben espressa nell’immagine del visionario “artefice di spettri”

Pensava d’essere ozioso
nelle sue prigioni anguste
e mai ha potuto esserlo
colui che, fermo sulla breccia,
in lotta disperata
contro se stesso combatte.

Pensavano che fosse solo,
e mai lo fu
l’artefice di spettri
che vede sempre nella realtà
il falso, e nelle sue visioni
l’immagine della verità.

Pablo Neruda

 

AD ALCUNI PIACE LA POESIA

Ad alcuni -
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.


Piace -
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.


La poesia -
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
Come alla salvezza di un corrimano.

Wislawa Szymborska

 

 
 
 
 

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