Creato da PapaveriSparsi il 26/04/2010

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Dodici

Post n°27 pubblicato il 07 Maggio 2012 da PapaveriSparsi

Il dolore ha grandi mani.
E le usa per stringere, per strangolare, per attanagliare.
Agendo in silenzio. In quel piccolo spazio che dal Cuore porta all'Anima, in modo da detonare nel mezzo e distruggere tutto.
Nulla distoglie il dolore dal suo compito.
Il suo movimento segue rotaie solide ed infinite, rette parallele che trafiggono ogni ostacolo, ogni speranza, ogni sorriso e seguitano a trapanare la vita senza sosta.
Chiara era ferma davanti allo specchio.
Come ad una fermata di un treno senza meta, uno di quei luoghi nebbiosi che confonde i contoni, ma rende visibili gli aloni dei lampioni accesi in una sera qualunque.
Alori che le contornavano gli occhi cerchiandoli di fatica, di sonno mancato, e le palpebre gonfie a rendere lo sguardo sottile e sfuggente.
Una cornice di sgomento teneva al centro un viso quasi sconosciuto, in cui lei a stento ritrovava i lineamenti antichi che disegnavano la sua identità.
Con le dita seguiva quelle rughe ostili, come se una carezza leggera potesse alleviare il loro solco, la loro implacabilità. Come se si potesse cancellare il grigiore del sudario che il dolore stende sul volto.
In certi momenti malediva il suo stesso respiro, il suo essere viva ed inerme di fronte alle sberle della vita.
Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sentire il cuore fermarsi, e non avvertire più nulla, solo il conforto del silenzio assoluto, dell'assenza di alito vitale.
Ma la fuga non è una buona soluzione, forse nemmeno dignitosa.
E la dignità per lei era un valore assoluto.
Cercò di pensare ad altro. Si lavò il viso con acqua fredda, massaggiò la sua crema e pettinò i capelli, raccogliendoli poi sulla nuca con una pinza.
Era venerdi. Lui stava per arrivare.
Si vedevano solo durante i fine settimana, lui abitava in un'altra città, aveva una vita che si intersecava con la sua solo per due giorni alla settimana.
Un singhiozzo di rapporto portato avanti così da anni, in modo meccanico, asettico.
Una collaborazione silente. Stanca. Vuota.
Lui aveva appoggiato il suo cappello sull'appendiabiti di lei, aveva preso possesso dei suoi spazi, riempito di cose sue i cassetti, lasciato lo spazzolino in bagno e questo lo faceva sentire stabile, radicato. Tanto statico ed indifferente da non doversi neppure preoccupare di commentare i silenzi di lei, o le lacrime che spesso scendevano in silenzio sul suo viso, così, senza un apparente motivo, senza un fattore scatenante, come chi è triste dentro da una vita e non ha nemmeno bisogno di un motivo per piangere perchè il motivo è la vita stessa.
Si mise a preparare la cena.
Iniziò a pulire ed affettare le verdure per un minestrone e aggiunse una crosta di parmigiano per insaporire.
Ripensò per un attimo al suo incontro del pomeriggio, all'uomo della vetrina.
Non era stato solo un altro cappello nella sua vita, ma un timido desiderio di speranza, un piccolo giro in una giostra che lei amava moltissimo e di cui aveva un dannato bisogno. La giostra in cui ci si prende per mano e si cammina insieme, condividendo ogni sensazione, guardandosi negli occhi, ascoltandosi sul serio, partecipando alle emozioni dell'altro.
L'essere stata così bene con lui aveva reso insopportabile la serata e il ritorno alla solita vita, alle solite cose fatte ormai meccanicamente, alle solite frasi che si sarebbero dette, alla solita noncuranza che avrebbe subito, alla solita sensazione di incompletezza a cui ormai si era abituata, alla solita tristezza che la possedeva completamente.
Le lacrime di Chiara scaldavano una notte fredda, ma il calore della sofferenza nasconde un nodo serrato di gelo che paralizza.
"Accidenti alle cipolle! " pensò.
Il dare la colpa a qualcosa che non fosse lei, la aiutava ad odiarsi di meno, a sentirsi meno inadeguata nei confronti di se stessa.
Era un conforto che durava un secondo.
Ma anche un solo secondo di pace aveva una sua importanza.

 

(continua...)

 
 
 

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Post n°26 pubblicato il 12 Aprile 2012 da PapaveriSparsi

Il cielo mi aveva avvertito.
C'erano segnali che mi stringevano il cuore come una mano che strangola l'anima.
Ho combattuto fino all'ultimo.
Forse sbagliando.
Certe battaglie non si possono vincere e il coraggio non serve.
Serviva la resa e la tenerezza. Il lasciarti andare via come una piuma al vento.
Lasciare che il Tempo facesse il suo corso e ti strappasse via dal mio abbraccio.
Ma io ci ho sperato. Ho sperato che potessi farcela, che potessi tornare a casa.
Ti ho chiesto di resistere, ti ho chiesto di resistere davanti ad uno scoglio insormontabile, ma tu eri stanca.
Dovevo evitarti l'ultima immensa sofferenza, dovevo sollevarti dal non capire cosa stesse accadendo, dal perchè di tanto dolore.
Ora pago il conto del mio egoismo con una angoscia nel cuore che non mi abbandonerà mai, così come il filo spinato dei sensi di colpa, stretto sulla gola.
Dovevo proteggerti e non l'ho fatto. Sono stata accecata dalla determinazione della lotta, dal voler fare, dal voler agire.
Non c'è poesia in queste parole, le affido al vento anche se so che non ti arriveranno, che non potrai sapere, che non potrai capire.
Scrivo qui perchè parlare non serve, non so chi potrebbe davvero capire.
Non so chi potrebbe guardarmi con occhi sinceri ed immaginare 18 anni di vita insieme, con tutto il peso degli avvenimenti più pesanti del mio vissuto, delle paure, dei rischi, delle notti insonni per gli incubi e il terrore per le prove difficili che dovevo affrontare per sopravvivere.
Tu c'eri. Tu ci sei sempre stata. Solo tu.
Solo tu con il tuo sguardo profondissimo e i tuoi baci sulla fronte, e sulle guance, a leccare via le lacrime.
Ora sono sola, come mai prima.
E annego nel pianto per la tua morte, per quel piccolo immenso cuore che si è fermato
portandosi via per sempre una parte di me, una parte che era solo tua, che solo tu conoscevi.
Nulla sarà più lo stesso. Io non sarò più la stessa.
Sono sola, come mai prima.
E di questa solitudine faccio il mio silenzio.
Tenendo stretto nel cuore, nel suo posto più profondo, il nostro ultimo abbraccio.
Amore mio immenso dormi serena, io sarò sempre accanto a te.
Sempre e dovunque tu andrai.
Ti prego di aspettarmi perchè quando sarà il momento ti cercherò.
E non ci sarà più nulla che potrà impedirmi di accarezzarti ancora, ancora e ancora.
Di trasmetterti tutto il mio amore. E vedere i tuoi occhi luminosi di gioia.
Questo è l'unico per sempre che esiste nel mio cuore.
Per sempre.
A presto amore mio, a presto piccolina mia...

Ciao Cleo...

 

 
 
 

Undici

Post n°25 pubblicato il 05 Aprile 2012 da PapaveriSparsi


Il telefono gridava il suo trillare nel silenzio della casa vuota.
Insistentemente.
Chiara non rispondeva più al numero di casa da molto tempo.
Chi la conosceva sapeva di dover lasciare un messaggio in segreteria, poi sarebbe stato richiamato.
A volte attraverso un filo ci arrivano notizie che andrebbero date guardandosi nel viso, tenendosi le mani, stringendosi al cuore. E la freddezza, il distacco di una cavo metallico ricoperto di gomma non isola dal dolore che si può sentire, dal gelo che può segnare per un vita intera.
Non rispose. Lasciò la sua vulnerabilità sulla punta delle dita e si appoggiò una mano sul petto, respirando a fondo, strappandosi i ricordi di dosso per non rivivere gli incubi del passato.
Il silenzio la riprese tra le braccia.
Ci sono solitudini partorite da amori infiniti.
Da un sentimento che in parte nemmeno esiste, ma cresce nel desiderio, si alimenta di sogno.
L'ideale di un amore è un disegno dell'anima, e la voce tenera della condivisione, della spontaneità di un gesto, del sentirsi presi per mano lungo le anse più tortuose del cammino, dentro le tempeste.
E se manca quell'abbraccio la vita si colora di una tristezza che diventa l'unica compagna nel buio. Manca il faro che ci insegni la via, manca il passo della forza, manca la fame di vita.
Il desiderio resta solo, a creare fantasie che ci coccolano l'anima per la pena che si prova nel cuore. E si aspetta che qualcosa cambi, che la presenza diventi realtà, che il sorriso vinca le paure di dover affrontare il vivere.
Il sogno diventa amico del silenzio, colora le ombre per allontanarle e confonderle col cielo, ci regala un'altra immagine nello specchio, accanto alla nostra, un viso vicino al nostro viso, occhi che ci guardano, che ci parlano con un solo sguardo.
La carezza che ci manca può nascere dal dare vita ad una speranza, rincorsa come in un  nascondino di bimbi, dal vento dell'altalena che ci scompiglia la solitudine e ci dona una illusione di serenità.
Fosse anche solo per un attimo, il sentirsi amati riconcilia con l'abisso in cui ci si sente sprofondare e ci aiuta ad accettare e poi combattere ogni strapiombo.
Chiara pensava a quanto le mancasse quella sensazione. A quanto annaspasse ogni giorno tra le correnti. A quanto si sentisse sola, fragile ed inutile. Alla paura della sofferenza, di quel suo potere di insinuarsi dentro e corroderci poco a poco, in una tortura interminabile.
Nel ricordo del suo sorriso di bimba riviveva tutte le sue aspettative, ciò che pensava sarebbe potuto accadere di bello, le rincorse degli arcobaleni, i giochi sul profilo degli orizzonti, il volare sugli aquiloni, il falò dei tramonti, la dolcezza delle aurore.
E l'amore, quello per cui si vive, che ci stringe al petto, che ci solleva e ci accompagna, che ci ride accanto, che raccoglie le lacrime, che trasforma ogni respiro in un canto.
Non sapeva se avrebbe mai potuto provare queste emozioni.
Sapeva solo che l'abito della malinconia le vestiva l'anima e che la mancanza di ciò che aveva sempre desiderato era una condanna che non credeva di meritare.
Non ci sono colpe da espiare, o meriti da conquistare, c'è solo il coraggio di andare avanti, di guardare in faccia la sofferenza e cercare di disegnarci sopra un nuovo paesaggio.
Una casetta bianca col tetto rosso e il camino con un fil di fumo, due finestre aperte con le grandi imposte verdi e una porticina marrone, le nuvolette bianche nel cielo azzurro, il sole giallo con lunghi raggi e il giardino, con gli alberi dalle fronde piene di un verde acceso, i fiori con petali immensi.
E una piccola altalena, in un prato infinito, per giocare ad essere felici.

 

(continua...)

 
 
 

Dieci

Post n°24 pubblicato il 30 Marzo 2012 da PapaveriSparsi


Lei adorava i mughetti.
Aveva imparato a camminare sull'erba del giardino di sua nonna.
Con l'incertezza dei nove mesi di vita e l'effetto strano che quel soffice tappeto
verde le dava.
I mughetti sotto il nocciolo le aveva insegnato il colore bianco.
E quei piccoli calici, che potevano al massimo contenere un ditino curioso
di bimba, erano stati subito una grande attrattiva, soprattutto per il profumo
che donavano all'aria.
Fin da allora, dall'alba della sua esistenza, erano stati una caratteristica della
sua vita.
Il suo bouquet da sposa era stato di mughetti.
Semplice, piccolo, quasi spoglio nella sua essenzialità.
Lo aveva tenuto tra le mani quando, tremando, aveva camminato verso l'altare, 
senza forse rendersi conto di cosa stesse realmente facendo.
Domandandosi come fosse possibile donarsi ad un uomo, avendone nel cuore
un altro.
Ma la vita è sempre sottilmente complicata.
E ci mette alla prova, ogni giorno.
Per poi osservarci impietosamente quando commettiamo errori, quando inciampiamo
sul nostro cammino.
Lei era inciampata tante volte.
Aveva ricamato i fallimenti su un angolo di un fazzoletto di lino.
Con l'ago aveva trafitto il tessuto creando una C, iniziale del suo nome. Chiara.
E quel fazzoletto le serviva da monito, era il ricordo di ciò che non era potuto essere,
di ciò che lei, sbagliando, aveva modificato della sua vita e della sua stessa essenza.
Un fazzoletto che raccoglieva lacrime frequenti, generose, lacrime che poi si lavavano
via, come se ci fosse una via di fuga per certe sofferenze.
Un bucato dell'anima.
Ma la cicatrici restavano lì. Intonse. Come il filo del ricamo penetrava la stoffa così le
rughe le segnavano il cuore. Indelebilmente.
Tornando a casa quella sera aveva osservato i mughetti che aveva in un piccolo vaso
di vetro, sul davanzale della finestra della cucina.
Erano chini.
Essere chini è nella loro natura. Forse perchè troppo delicati per osservare il sole.
Ma lei voleva perdere parte della sua delicatezza per fortificare il suo domani.
Per renderlo meno potente su di lei, per non dover abbassare il capo di fronte alle
insoddisfazioni che le vivevano accanto, come l'ombra di quella infelicità che ti si
attacca addosso e ti divora a morsi.
Nel nome di ogni persona c' è un po' nascosta la sua vera identità.
Cresciamo influenzati dal nome delle cose, dal loro suono, dal preludio di come potranno agire su di noi. E temiamo tutto ciò che suona male, che ci richiama a
ricorsi dolorosi, a paure.
Sfuggiamo la negatività delle parole e ci accoccoliamo in ciò che ci pare abbia un
atteggiamento benevole.
Chiara era così. Benevola e trasparente come il suo nome.
Semplice, forse anche ingenua e sognatrice, ma vera, pulita.
Viveva cercando di crearsi un posticino nel cuore degli altri. Non per insicurezza,
ma per bontà, per amore. Per desiderio di credere che se si ama,  e si condivide
amore, ogni negatività scompare, ogni problema si risolve.
E ogni goccia di sofferenza può trasformarsi in candore.
Lo stesso candore di quei piccolini campanellini bianchi, che possono al massimo
contenere il ditino curioso di una bimba, ma che significano la preziosità delle
piccole cose.
La leggenda dice che il mughetto porti fortuna e significhi il ritorno della felicità.
Lei non credeva molto alle dicerie, ma le piaceva trattenersi a pensare al suono
dolce delle parole più positive.
Fu in quel momento che squillò il telefono.



(continua...)

 

 
 
 

Nove

Post n°23 pubblicato il 28 Marzo 2012 da PapaveriSparsi

 

La primavera aveva spolverato i colori.
Si erano spalancate le finestre del mondo e l'aria profumata di luce regalava
nuove carezze ad ogni cosa.
Anche in città si sentiva un aroma nuovo, una brezza di rinascita, di rinnovate
energie, una voglia di vita.
Il loro primo incontro era scivolato come seta.
Il tempo volato.
Gli sguardi spesso abbassati.
I sorrisi tenui.
I cuori rincorsi.
I silenzi eloquenti.
Lui le aveva sfiorato una mano, quasi per sbaglio.
Lei aveva sorriso, senza sottrarsi al contatto, chinando un po' la testa.
Accompagnandola a casa lui più volte si era sentito tentato di invitarla fuori a cena,
ma temeva di affrettare le cose, di dare una impressione sbagliata.
Certi tragitti vanno fatti con calma.
Ed infatti camminavano lentamente, uno a fianco all'altra, scherzando sulle
scarpe, sugli impegni di lavoro, sulla voglia di vacanze, sulla tinta dei
capelli della cartomante, definita da lui 'nero pece', e su ogni cosa potesse
rallentare un po' il passo, per conquistarsi un attimo in più da passare insieme.
Sembravano due ragazzini acerbi alla scoperta di una nuova giostra.
Quasi persi in un lunapark immenso.
Ed ogni istante era una vertigine nuova, era il respiro corto delle montagne russe,
la contemplazione della ruota panoramica, le risate degli autoscontri, gli sguardi
sottili del tiro a segno, la golosità dei chioschi, l'ironia della casa degli specchi,
la delizia del teatro dei burattini e dello zucchero filato.
Si scoprivano simili.
Ad entrambi piaceva il gelato al limone.
Nessuno dei due zuccherava il caffè.
Londra era preferita a Parigi.
Il mare alla montagna.
I film d'azione alle commedie.
E questi sembravano segnali clamorosi di una intesa non comune,
come se si dovesse trovare sempre un perchè a ciò che si prova istintivamente.
Mentre il perchè non serve.
Basta la naturalezza. L'autenticità.
Basta essere se stessi, non chiudersi.
E contemplarsi.
Come un panorama nuovo, fresco di una rugiada inattesa, come un
tramonto condiviso camminando su un marciapiedi grigio di città.
Un marciapiedi confinato tra la monotonia dei muri di palazzi tutti uguali,
che diventano diversi se cambia il modo di guardarli.
E quel crepuscolo li abbracciava di rosa negli occhi, mentre fermi davanti
al portone di lei si salutavano con la promessa di rivedersi, di provare insieme
a zuccherare il prossimo caffè o a scoprire un gusto nuovo di gelato.
Il giro sulle giostre era appena cominciato.
Lo sentivano entrambi.
Ma c'era la voglia di non ammetterlo, di gustarsi poco alla volta. 
Anche questo dettaglio era in comune.
Il primo davvero significativo.
Non se lo erano detto.
Buon segno.

 

(continua...)

 

 

 

 
 
 
 

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