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A sud di nessun nord...

 

In the death car

 

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INVISIBILI VITE DI SACRILEGHI APPESI

Post n°248 pubblicato il 02 Novembre 2012 da chinasky2006
 




Foto di chinasky2006



Il cielo iniziava a rischiararsi, striato di biancastre venature nel tenue porpora dell’alba. E nella piccola chiesa di paese rintoccavano le campane della messa. La prima della giornata, quella che alle 5,00 raccoglie fedeli immortali, pazzi o prossimi alla morte.
Don Rino aveva appena iniziato la sua accorata omelia alle tre martiri devote, pronte a dare il buon giorno al loro Signore, che invece Adil barcollava, spegnendo la sua nottata. Fra i viottoli del borgo antico, trascinandosi dietro la sbornia di una notte passata ad ingollare ostie imbevute nel whiskey scadente.
Non chiedeva niente dalla via, Adil. Venuto via dal Marocco qualche anno prima, per diventare prigioniero e schiavo illegale nel cialtronesco paese della libertà. Nessun parente, alcun amico. Qualche compagno di bevute, al limite. Puliva le latrine dei cavalli e teneva in ordine il casolare di un negriero benefattore. Tanto bastava a pagarsi le bevute, un pacchetto di L&M e l’affitto di una capanna senza luce elettrica. Di sera spendeva i suoi venti denari per spegnere ogni malvagia realtà, ubriacandosi.
Viveva come una bestia. Una bestia senza Dio. E nemmeno l’Allah della sua religione.
Le vecchie intanto, strette nei fazzoletti che costipavano le loro teste canute, pregavano per tutti. Anche per la sua anima marcia e corrotta dal vizio. Il prete, con melodiosa voce ancestrale, esalò smorfie d’antologia. Teatraleggianti gesta delle braccia, ed un effluvio di parole dense di significato trasparente. Pareva stesse aizzando una fiumana di gente estasiata o fosse sul punto di spetazzare come un mulo tibetano, invece aveva innanzi a sé tre donne dalle ossa porose che sgranavano l’invincibile arma del loro rosario. E belavano con gracchiante anelito, rispondendo alle sue parole.
Il moderno schiavo camminava nel miracolo d’alba, osservando il chiarore che vince le tenebre. E rideva. Talmente ubriaco da riconoscere solo quel miracolo della natura. Udì le stridule voci irreali provenienti dalla piccola chiesa, e ci entrò. Osservò rapito, incuriosito e con lo sguardo perso. I sottili baffetti si distendevano in una risata e la pelle del volto avvizzita dal sole si ritraeva in rughe scafate. Dimostrava molti più anni dei suoi 27, pettinati da alcol e schiavitù. Un po’ intimorito dalla sua visione, il prete continuò il suo rituale sacro. Adil ora era quasi vinto da una luce immaginaria. Il frastuono soffuso di echi e voci lontane, tipiche di chi è allo stadio ultimo della sbronza, lo rapiva. Si sedette all’ultimo banco, per osservare meglio. Prese il pacchetto delle sigarette, ne tirò fuori una a fatica e se l’accese, senza perdere di vista il pulpito. Iniziò a fumare, gettando fuori nuvole sacrileghe. Don Rino scattò come un centometrista, e corse in sua direzione con la tunica svolazzante. Ne nacque un conciliabolo feroce. L’inviolabilità del tempio, contro l’incuranza sbronza di un povero derelitto. Le fedeli, dando compostamente le spalle al pulpito, osservarono la scena con un poco di timore. Alla fine il prete si fece consegnare la sigaretta, la spense gettandola fuori.
Riprese l’omelia. Il marocchino incosciente finì per adagiarsi mollemente su se stesso, con la fronte posata sul banco. Dormì un poco. Si svegliò di soprassalto. Non sapeva nemmeno dove fosse, chi fosse, quale mondo stesse vivendo. Probabilmente pensava d’essere in Marocco, di avere ancora 7 anni o d'esser già morto nella sua fatiscente spelonca. Chi può dirlo. Abbassò la cerniera e pisciò in piedi contro una colonna della navata laterale. Un lago di piscio giallastro, maleodorante come il peccato. Lanciò un ghignetto di soddisfazione e si stese sulle panche, come a voler dormire. L’unto sul sagrato diede la sua pace. Le zimarre si congedarono. Tutte e tre sotto braccio, passarono innanzi al turpe atto di profanazione. Fecero un segno di croce e volsero gli occhi al cielo. “C'è dentro un indemoniato”, gridò una di loro rivolta agli agricoltori radunati innanzi al bar di fronte alla chiesa, prima di andare nei campi. 
Capeggiate dall’uomo santo che correva tenendosi le gonne con le mani, si diressero al comando dei carabinieri. Passarono pochi minuti, e i solerti gendarmi fecero irruzione nell’edificio di culto. Furono attimi di lotta commovente a sacra. Lo presero a braccia, conducendolo nella volante che ancora si dibatteva come un verme sbronzo. Quel furente odio vendicatore continuò in questura. Spintoni, parole di sacra vendetta. Poi lo gettarono nella cella come un sacco di juta ripieno di sterco. “Maledetto figlio di una troia marocchina, lo sai che da qui non uscirai più?”, gli dicevano. Quindi un rumore sordo di ossa colpite, ed urla animalesche.
Il giorno dopo Adil fu trovato che pendeva dalla finestra, improbabilmente legato con una cinghia dei pantaloni. Qualcuno giura d’averlo visto col volto tumefatto e lividi sparsi per tutto il corpo, come il nazareno brutalizzato da pretoriani armati di elmetto e lance. Neppure i suoi famigliari in patria poterono riconoscerlo, in quanto sprovvisto o privato di ogni documento.
Così finisce chi non esiste. In un cimitero, nell’ossario comune e senza un prete che celebra la pietà del sacrilego suicida che non è mai esistito.
Mentre qualche chilometro lontano, eminenze nobiliari, virtuosi preti e sommi vati del garantismo di classe, si preoccupavano della sanità di un impresario manigoldo dal naso arricciato, perché il cibo delle carceri non è buono.



 
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