Creato da anna_861 il 27/05/2014

MASSA: 1915-1918

MASSA (MS) NEGLI ANNI DELLA GRANDE GUERRA: MONUMENTI, STORIE, IMMAGINI, RACCONTI

 

 

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STORIE DI VITA

Post n°5 pubblicato il 08 Luglio 2014 da anna_861
 
Foto di anna_861

MI CHIAMO VINCENZO FORTE, CLASSE 1916

Questo racconto che ho scritto è una delle esperienze casuali della vità che, senza che tu lo sappia, ti porta dritto alla meta. Condividere storie di vita sconosciute ed apparentemente non collegate e poi scoprire, a distanza di anni. un altro filo da legare.

Vincenzo era un uomo splendido che nasceva mentre il mio bisnonno moriva, un uomo che ha fatto lunghi anni di Guerra in Africa dove ha conosciuto quello che poi sarebbe diventato il nonno di mio figlio.

E tutto questo non lo potevo sapere quel giorno in cui, dopo un viaggio in pulman durato una notte e un giorno, giravo solitaria in un paese sconosciuto e semideserto del Sud.

Tutto ha un senso... basta aspettare. Ed io aspetto di poter scrivere altre storie di una Guerra di 100 Anni fa. Ma il bandolo della matassa sta anche nella storia di Vincenzo.

Se avete voglia ... leggetela.

Vincenzo viene fatto prigioniero il 21 gennaio 1941 a Tobruk ed imbarcato sulla nave indiana Viceroy of India, diretta verso la G. Bretagna. La nave attracca ad Alessandria d’Egitto, Bombasi e poi veleggia verso il nord. A Tobruk si trova gomito a gomito con soldati italiani provenienti da diverse parti d'Italia. A guidare il camion su cui viaggia Vincenzo, è un piccolo autiere toscano, con gli occhi blu, Domenico Falossi classe 1919.

Vincenzo arriva iin Gran Bretagna e viene portato in un campo di concentramento, prima a Shieffeld e poi a Birmingham. Resta prigioniero per cinque anni. Ritorna a Saracena, in Calabria l' 11 maggio 1946.

Lo incontro un giorno di luglio 2011 mentre giravo per Saracena Vecchia, alla ricerca della chiesa in cui si doveva sposare una mia amica tedesca. Un paese antico, tutto in salita, semi abbandonato e aggrappato al pendio di un colle, schiacciato dalle case moderne del nuovo paese.

Nel paese vecchio... case antiche in pietra, dalla bellezza intatta; persiane quasi tutte chiuse e muri diroccati alternati a piccole piazze ricche di vita e di acqua. Vincenzo lo trovo qua, vicino ad una fontana.

Arrivo di spalle e sto ben attenta a non disturbare la quiete perfetta di quella piazza, immersa nel silenzio di un afoso pomeriggio estivo. Un fisico asciutto, appena curvato dalle nodosità dei suoi 95 anni, sosta alla fonte, allunga il braccio verso il fiotto di acqua fresca che zampilla dalla fontana. Mi appoggio al muro di sassi di una casa, aspetto che beva dalla sua tazza di alluminio quel fresco respiro di vita.

Mi guarda, lo guardo. Indossa una camicia verde, due larghe bretelle  e sul viso un paio di baffi ammiccano un sorriso curioso, mentre i suoi occhi scuri e profondi indagano e mi fanno mille domande.

Rompo il ghiaccio con un buongiorno, accompagnato da un sorriso. Non sorride Vincenzo, ma continua a guardarmi. Allora mi avvicino, racconto perché mi trovo li, per caso in quella piazzetta a quell’ora.

Mi sorride e mi allunga la tazza d’alluminio per farmi bere la sua acqua.

Gli occhi sorridono e poco dopo anche i baffi, quando chiedo se posso fargli una foto.

Si appoggia al muro di sassi, tiene orgoglioso tra le mani la sua tazza d’alluminio, uno di quei misurini per il latte da un quartino. Stringe il manico tra le mani forti e nodose, alza il viso verso la luce del sole e mi sorride, ma la luce che emana da quel volto, dalle sue mani e dalla fierezza dei suoi occhi è molto più luminosa della luce bianca che il sole regala al sud dell’Italia.

Lo guardo un po’ emozionata e lui mi risponde aggiustandosi i baffi e stringendo ancora di più la sua tazza.

La foto è stata come una formula magica che ha aperto la porta nei ricordi di Vincenzo. Mi chiede perché gli ho fatto una foto. Penso un attimo prima di rispondere, non so se la mia verità possa fargli piacere o ferirlo.

Lui aspetta paziente e mi indaga con i suoi occhi profondi.

Cercavo qualcosa di bello da fotografare, qualcosa che mi raccontasse la storia del paese e le emozioni di chi ci aveva vissuto nel tempo. Vincenzo era la cosa più bella che avevo incontrato in quel casuale peregrinare, la cosa che più di tutte poteva raccontare e far vivere quel luogo.

Il suo silenzio, dopo la mia verità, mi preoccupò un poco. Però mi prese sottobraccio e ritornò alla fontana. Si appoggiò e le parole cominciarono a fluire senza posa dalla sua memoria.

Mi chiamo Vincenzo Forte, classe 1916

Ho passato la guerra, ma sono qua a raccontare a te. Ma perché ti interessa la mia guerra?

Ho fatto la guerra in Africa, tanti anni sono stato laggiù nel deserto. Sono arrivato fino a Tobruk, in Libia e lì mi hanno fatto prigioniero gli inglesi. Era il 21 gennaio 1941. Ho conosciuto tanti toscani sai...

e come i grani del rosario ripete i nomi dei compagni... dice anche un "Falossi" .. Non voglio interromperlo, ma freno a stento la curiosità di fronte a quel nome, ripetendomi che è impossibile.... Vincenzo continua a raccontare.

Mi hanno imbarcato su una nave, la Viceroy of India, che era diretta in Inghilterra. Ci siamo fermati ad Alessandria d’Egitto e poi a Bombasi prima di arrivare lassù. Quando sono arrivato in Inghilterra mi hanno portato nei campi di concentramento, prima a Shieffeld e poi a Birmingham. Sono stato prigioniero cinque anni e l’11 maggio del 1946 sono riuscito a tornare a casa mia, qua a Saracena. Da allora non mi sono più mosso.

Vivo qua, c’è ancora mia moglie Maria. Non sta bene e la devo guardare io, sono io che mando avanti al casa e la sua malattia. I figli si sono sposati e sono lontani, per il lavoro. Al paese siamo rimasti in pochi, tutti vecchi come me.

Vieni, vieni a casa mia. Ti faccio conoscere Maria. E’ brava, ma malata”.

Lo seguo per una di quelle strette viuzze scavate tra le case di sasso. La sua casa si affaccia su un’altra piazzetta, vicino alla chiesa. Una porta a vetro e la chiave sulla toppa, sono il fragile schermo che separa il fuori dal dentro della vita di questo uomo non a caso Forte.

Maria è sulla poltrona, con lo sguardo perso in qualche paesaggio fantastico fuori da casa sua. Forse è in viaggio. Vincenzo la carezza e le parla con calma, dolce. Mi chiede se gli do una mano a tirare su Maria per appenderla ad un grande trespolo. Serve per farla camminare un po’, anche se lei non ne ha voglia, anche se le manca la forza. Maria è quasi eterea, anche il fisico sembra perduto in un viaggio. Consunto e quasi rigido, lento e affaticato nel movimento, impercettibile il respiro. Vincenzo la pettina e poi si mette di fianco a lei e le circonda le spalle con un abbraccio.

Assisto intontita a tanto amore e bellezza insieme, a tanta forza e determinazione.

Mi risveglia la richiesta, inaspettata di Vincenzo: “mi fai una foto con la mia Maria? Non ne abbiamo di foto insieme!”

Gli sorrido e sorrido a lei che guarda la vallata fuori dalla finestra, sempre rapita dai suoi pensieri segreti. Faccio uno, due tre e altre foto ancora forse per nascondere una certa emozione che galeotta mi si è insinuata tra la gola e gli occhi e come una molla fa su e giù, appannandomi un po’ la messa a fuoco.

Sono attimi brevi eppure così lunghi quelli che divido con questi due sconosciuti nella loro casa.

Maria ritorna in poltrona, la ginnastica quotidiana per ora si ferma. Alle pareti della stanza sono attaccate le foto di bambini piccoli. Un cagnolino dalmata con i capelli biondi, un orsetto dai capelli ricci e rossi, un bambino lungo e secco alla sua Prima Comunione, una foto sbiadita con i riflessi verdognoli di un piccolo cowboy sul cavallo a dondolo. Brandelli di vita.

Quella dei figli e dei nipoti di Vincenzo e Maria.

Quella che loro due, vecchi e soli, possono solo immaginare guardando le foto appese alle pareti di quella stanza.

Vincenzo mi porge un cioccolatino me lo mette nel palmo della mano e me la richiude nella sua, stringendomi. Il suo sguardo mi apre una voragine, come se mi sentissi proiettata a velocità galattica in un viaggio fuori del sistema solare, in un luogo sconosciuto e confuso in cui però posso riconoscere emozioni, sensazioni e pensieri che guizzano veloci come immagini fuori dal finestrino di un treno in corsa.

Vedo la sua guerra, la sua vita e la sua Maria, ma più di tutto vedo la sofferenza di una solitudine difficile da colmare, l’attesa di un viaggio finale dopo una vita di attesa. Come pietre piantate nel terreno, sento la forza di Vincenzo e la sua determinazione a restare piantato nel terreno della vita perché ancora è presto per andare, perché c’è Maria da curare. E i figli sono lontani, i nipoti ancora di più.

Il cioccolatino forse si è sciolto, ma continuo a stringerlo anche uscendo dalla porta a vetro.

Cammino senza poggiare per terra i piedi e cerco una via che possa farmi risalire il colle, riportarmi al punto di partenza.

Le vie scavate nelle case di roccia non sono tutte uguali, anche le rocce han diversa resistenza. Vincenzo era un magnifico granito, io ero ancora un ammasso di sabbia.

Trovata la via del ritorno, mi sono avvicinata alla festa che era già iniziata.

Era il Matrimonio di una mia cara amica from Germany che aveva deciso di festeggiare il grande momento della sua vita proprio qua a Saracena, un paese semideserto e lontano dal mondo, circondata da amici italiani solari, semplici e un po’ fuori dalle righe. Me compresa.

Una bella festa, tra le case diroccate del paese, proprio sulla punta della vallata dove guardando all’orizzonte si vedeva il mare lontano. La luce delle candele rendeva ancora più bella Julia e frastornato il suo germanico sposo, poco “italianizzato”, per nulla a suo agio con la nostra lingua e tantomeno con le nostre proverbiali cordialità dei gesti. Chi cantava, chi ballava, chi beveva e chi, come me, fotografava nel tentativo vano e immodesto di fermare in uno scatto attimi splendidi brani di vita. Compresa quella di Vincenzo.

A distanza di qualche anno ancora sento forte il ricordo di quell’incontro, soprattutto sento di dover andare alla ricerca di altri brani di vita, come quella del mio bisnonno che moriva mentre Vincenzo forse nasceva.

E' solo un modo per ringraziare la casualità della vita e quella silenziosa immensa ricompensa che ne può derivare, se siamo capaci di cogliere l’attimo.

A proposito, il Falossi che aveva conosciuto Vincenzo è proprio quello che a distanza di 70 sarebbe diventato il nonno di mio figlio!

 
 
 
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