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Rime inedite del 500 (L-2)

Post n°971 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L

[6 Muse padovane]

Muse padovane.

Voi, che 'n fiamma amorosa acceso 'l core
Nel sen di Brenta le vestigia sparse
Delle nimphe cercate a tutte l'ore
Ne' dolci lumi ond'elle son sì scarse,
Desïando temprar lo 'ntenso ardore,
Venite meco, e le vedrete far se
Dive del sacro umor, che 'n cedro e myrra
Consacra chi ne bee 'n Parnaso e Cirra.
Fiamma gentil, che co' tuoi raggi ardenti
M'accendesti nel cor nuovi desiri
Se giammai ti fur' grati i mesti accenti
Che per te sparsi 'n mille versi miri,
Hor mi scorgi 'l camin', m'aqueta i venti
Cruciosi, e fa ch'una dolce aura spiri;
Né t'incresca che quanto io m'alzo et ergo
Fia sua loda, a cui sol le carte vergo.
Era nella stagion che l'erbe e i fiori
Muoion languendo nel materno seno,
Arsi dalli soverchi, gravi ardori,
Che muove 'l sol nel mezzodì sereno,
Quando Febo già carco di sudori
A veloce destrier raccolte il freno,
E mentre quei pascendo all'erbe intorno
Gìano errando, in Parnaso fe' ritorno.
Quivi 'n mezzo le nove alme sorelle
Sovra le fresche, verdeggianti sponde
D'Hippocrene, le chiome aurate e belle,
Cinto della sua santa, armata fronde,
Rinfrescossi la fronte, e ambe le stelle
Col beato liquor de le sacre onde;
Indi la lira in mano e 'l plettro tolse
E 'n dolci note la sua lingua sciolse.
Al dolce suono, all'armonia celeste,
Gli alberi, i sassi 'ntorno alle fresche acque
Si ragunaro, e di purpuree veste
Si copriro le piazze, e intento giacque
Ogni animal, né in ciel veduta avreste
Pur' una nube, et ogni vento tacque;
Sol la fontana, qual risponder voglia;
Nel chiaro fondo mormora e gorgoglia.
Ei cantava sì come il sommo Giove
D'acqua, di terra, d'aere, di fuoco
Creò ciò che quà giù si ferma e muove,
E che di tal semenza a poco, a poco
Il mondo crebbe in varie forme e nuove,
E come dal diluvio fu ogni luoco
Sommerso, e che da Pirra poi di duro
Sasso i mortali reparati furo.
Così diceva Apollo, a cui le Muse
Ripetendo con rime dolci e terse
Quel che egli nell'estremo suon concluse
Respondieno; ma sì varie e diverse
Dall'armonia ch'aver prima eran' use
Che non cantar', ma più tosto dolerse
Parieno, e qual tra cigni roca turba
De' corvi che gracchiando il canto sturba.
Due e tre volte quei medesmi metri
Iterar' per ridurli al vago stile,
Che da chiari cristalli, puri vetri
Del Castalio liquor, dolce e gentile
S'infonde a chi ne gusta; ma più tetri
Furno gli accenti, et ogni rima umìle
Onde qual fu al stillar del nuovo elettro
Sul Po la lira gittò Febo e 'l plettro.
Indi s'accese di tanta ira e sdegno
(S'ira e disdegno può cader ne' dei),
Ch'a' feroci corsier senza ritegno
Ripose i morsi, e quattro volte, e sei
Con la sferza gli strinse finché 'l regno
Passò di Spagna, e i popoli che lei
Hanno da tergo, e giunse ove già pose
Hercole i segni ed entro 'l mar s'ascose.
Né perché sia dal piè fin sovra al collo
Bagnato, spegner può la mente accesa,
Anzi ha fermo 'l pensier che non dia crollo
Etho dal giogo che sì 'l grava e pesa
Con gli altri tre, finché non sia satollo
D'aver trovato da chi meglio impresa
Sia la sua mente, e chi 'l Castalìo umore
Guardi 'nvece dell'alme nuove suore.
E così poi che di Titon' la sposa
Del mar degli Indi trasse il robicondo
Volto, e di gigli, e di vermiglia rosa,
E di mille fioretti sparse il mondo,
Senza aver mai potuto trovar cosa
Che gli piacesse il di primo e 'l secondo,
Togliendo al mondo il manto umido e nero
Tutto Febo trascorse l'hemispero.
Il terzo dì sopra la verde piaggia
D'Euganea, ove 'l Troian riposò 'l piede
Dopo la crudel strage, empia e malvaggia,
E 'l grave incendio della patria sede
Come passando il suo bel lume raggia
Tra ramo e ramo una gran turba vede
Di pastoral' sampogne e note alpestri
Risonar sente i bei luoghi silvestri.
E vago di veder che questo sia
Lascia nell'aria l'infiammate ruote
E ratto in terra scende per la via
Ch'apre il cerchio macchiato in bianche note
Verso la turba, verso 'l suon s'invia;
Ma prima le vermiglie bianche gote
Di lunga barba veste, e 'l bel crin d'oro
Cuopre e si spoglia del divin decoro.
La sampogna dall'un, dall'altro fianco
Pende la tasca senza legge e norma,
Le lievi membra quasi lasso e stanco
Appoggia ad un bastone, e si trasforma
Tutto in pastor, come già più volte anco
Per le Tessale rive seguir l'orma
Lo vide 'l vago Amphirse della greggia
Che Batto cangiar fece in dura scheggia.
Indi, poscia che fu al bel luogo giunto
Là 've da cridi pastorali et alle
Rozze sampogne dolce canto aggiunto
Ribomba il monte, e la vicina valle,
Tacito passa ove di fior trapunto
Appar segnato il rugiadoso calle,
E vede che con rito e patria legge
La turba onora il Dio che Brenta elegge.
Presso ove spiega il Dio le altiere corna
Giace un prato che mai greggi, né falci
No 'l tradiro, ove sì che altrui distorna
Non entra il sol, s'abbassi 'n capro, o s'alci
Nel marin' granchio, perché 'n vista adorna
Velo diffendono alni, abeti, e salci,
Quercie frondose e co' rami ritorti
Abbenché 'l canto piacque al Dio degli orti.
Fanvi di sé bella e gioconda vista
In gran parte le suore di Fetonte
Allegre, poi che di lor fronde trista
Ornossi Alcide vincitor la fronte
'U è 'l lauro, il mirto, il pino e seco mista
L'elce e l'horno pur hor scesi dal monte,
Sopra di cui con dolci modi e belli
S'odon cantar mille soavi augelli.
Gira il bel prato men d'un miglio attorno,
Eterna primavera lo dipinge
Di mille varii fiori, e quasi un corno
Le verdi sponde mormorando stringe
Dolcemente un ruscello, e d'ogni intorno
Quinci e quindi i bei lati abbraccia e cinge
Un bosco d'odoriferi ginepri,
Albergo e stanza a paurose lepri.
Quivi 'n sublime et onorato seggio
Tutto di toffo e di pomice viva
Siedesi lieto, in atto adorno e reggio
Il dio che regna in la vicina riva;
Cingonlo intorno di verdigno treggio
Canne palustri, giunchi, edera, oliva,
La bianca barba, e le canute tempie
Stillano acqua che 'l seno e 'l grembo gli empie.
Veggonsi 'ntorno pastori e bifolci,
Lasciate le spelunche e le capanne,
Ballare a prova, a suoni alpestri e dolci,
E di pive, e di zuffoli, e di canne,
Al cui suono tu ancor t'aggiri e folci,
Pan, benché sbuffi e vuoti ognor le zanne.
Tendon lacciuoli i satiri alle ninfe
Per l'erba fresca e per le chiare linfe.
Le Driadi, Amadriadi e Napee
Seguono ornate in modi chiari, illustri,
Con tutte l'altre boscarecce dee,
E come a gara ciascuna s'industri
Qual gigli e rose, qual delle amiclee
Valli 'l bel fior qual vanni e ligustri,
Qual'offre al dio pien di narcisi 'l grembo,
Qual di mille altri fior gli scuote il lembo.
Altri la palma piena, e piena cesta
Gli sparge di papavero e di calta,
Altri di croco e di fior di ginestra,
Di varie erbe ghirlande 'nteste smalta;
Non tutte ad una guisa hanno la vesta,
Non dissimil però, qual da terra alta
Porta la gonna, e per l'erbetta fresca
Muove i pie' ignudi, e mille cuori invesca,
Qual le chiome de l'or pel collo ha sparte,
Qual l'ha raccolte in vaghi nodi strani,
Evvi chi nel bel seno aperto ad arte
Mostra i pomi d'avorio, et a Silvani
E Fauni strugge i cori a parte, a parte;
V'è chi dalle gentil', candide mani
Ha ignude insino agli omeri le braccia,
Ond'a mille pastor' l'anime allaccia.
V'ha in gran copia con gli occhi 'n mano e strali
Con le faretre al fianco cacciatrici,
Tutte succinte e i pie' sin' sovra i sali
Coperte delle pelli, che vittrici
Riportano di fere e mostri, quali
Soglion sovente giù per le pendici
Di Cinto mille ninfe in una schiera
Di Latona seguir la figlia altiera.
La dea di Cipri delle proprie foglie
Cinta, la fronte, co' lascivi figli
Ond'ordisca ghirlande lieta coglie
Azzurri, verdi fior, bianchi e vermigli,
E quei tra l'erba d'amorose voglie
Spargono l'esca e tendon lacci e artigli,
Esca dolce d'amor, dolci legami,
Ond'altri preso, ardendo in eterno ami.
Molti vanno a diporto e lor' trastullo,
Dolci cantando gli amorosi inganni,
Questa di Lesbia canta e di Catullo,
Di Nason per Corinna i dolci affanni,
Quella gli amor' di Properzio e Tibullo
Canta, e di Gallo i gravi, acerbi danni;
Gallo, che pianse per altrui paese
Licoride irne, e alfin sé stesso offese.
Altri d'Aci cantando e Galatea
Giva, che dal Ciclope ebbe sì avversi
I pensieri, e gli fu sì acerba e rea;
Altri con altra lingua et altri versi
Dante e Beatrice risonar facea,
E 'l gran Tosco con stili ornati e tersi
Addolcir Laura, talché la fresca aura
Ode sonar per tutto: Laura, Laura.
E non udì già mai tanto concento
Il bel Caistro ne' suoi stagni, quando
Senza strepito alcun stette più intento
Ad ascoltar' i cigni, che tornando
De' verdi, lieti parchi, l'aura e 'l vento
E l'aria intorno addolciscon cantando,
Come dolci, soavi accenti udìo
La gran Brenta, il bel bosco, il picciol rio.
Mira Febo il bel stuolo, e questa, e quella
Loda, e tra sé tacitamente parla;
Quindi sceglier convien chi abbia della
Rupe Elicona cura, o di lasciarla
Deserta, inculta, perché né più bella,
Né più dotta potrei d'altronde farla
Cercando 'ntorno dal Gange alla Spagna
Quanto il padre ocean circonda e bagna.
Taccia chi loda il bel terren toscano,
E quel cui la sirena il nome diede;
Perdonimi il gentil, piacevol' Fano
Fan' di fortuna che a null'altro cede
In produr' donne di giocondo, umano
Viso, e che fanno in terra del ciel fede,
Fano d'immortal, degno, eterno grido,
Delle grazie e d'amori albergo e nido.
Veggio due nel suo sen, dai cui begli occhi,
Dalla dolce, soave, alma sembianza
Par che tal grazia, tal virtù trabocchi
Che quindi Amor ogni sua impresa avanza;
Né più d'altronde par che l'arco scocchi:
Giovanna l'una s'è, l'altra Costanza,
Ambedue Gabrielli, e l'una e l'altra
Bella, gentil, leggiadra, onesta e scaltra.
Veggio due che dall'indo al lido Mauro
Son di senno e valore esempio e specchio,
Impoverito ha l'una il bel Metauro
Per far ricco e famoso Montevecchio;
L'altra partita insin' dal pie' d'Isauro
Fa nel tuo sen di bel nido apparecchio;
Felice chi tal' piante have produtto,
Ma più felice chi ne coglie il frutto.
Ecco la bella coppia pellegrina:
Camilla Castracani e Beatrice,
Costanza Nigosanti, e la divina
Hippolita Duranti, e chi felice
Col guardo ogni alma fa la Saracina
Giovanna, unica al mondo qual fenice;
Ginevra de' Panetii 'n cui si mostra
Quanta bellezza ha l'amorosa chiostra.
Leggiadramente le Palazze altere
Insieme in un drappel veggìo raccolte,
La Taddea Gambetella in vesti nere
Le care membra onestamente involte
E chi non è sezzaia in queste schiere
Giustina de' Duranti e altre molte,
Costanza Francescucci, a cui s'appressa

Null'altra di beltà la Taddea Alessa.

(continua)

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 
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