Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

 

« Il Meo Patacca 09-3La Secchia Rapita 07-1 »

Il Trecentonovelle 48-50

Post n°1302 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA  XLVIII

Lapaccio di Geri da Montelupo a la Ca' Salvadega dorme con un morto: caccialo in terra dal letto, non sappiendolo: credelo avere morto, e in fine trovato il vero, mezzo smemorato si va con Dio.

Tanto avea voglia questa contata donna d'andar drieto al morto marito quanto ebbe voglia di coricarsi allato a un morto in questa novella Lapaccio di Geri da Montelupo nel contado di Firenze. Fu a' miei dí, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui, però che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: "Il tale è morto", e avesselo ritocco con la mano, subito volea ritoccare lui; e se colui si fuggía, e non lo potea ritoccare, andava a ritoccare un altro che passasse per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona, averebbe ritocco o un cane, o una gatta; e se ciò non avesse trovato, nell'ultimo ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso vivea, che se subito, essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per certo di far quella morte che colui per cui era stato tocco, e tostamente. E per questa cagione, se un malfattore era menato alla justizia, o se una bara o una croce fosse passata, tanto avea preso forma la cosa che ciascuno correa a ritoccarlo; ed elli correndo or drieto all'uno or drieto all'altro, come uno che uscisse di sé; e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono grandissimo diletto.
Avvenne per caso che, essendo costui per lo comune di Firenze mandato ad eleggere uno podestà ed essendo di quaresima, uscío di Firenze, e tenne verso Bologna e poi a Ferrara, e passando piú oltre, pervenne una sera al tardi in un luogo assai ostico e pantanoso che si chiama la Ca' Salvadega. E disceso all'albergo, trovato modo d'acconciare i cavalli e male, però che vi erano Ungheri e romei assai, che erano già andati a letto; e trovato modo di cenare, cenato che ebbe, disse all'oste dove dovea dormire. Rispose l'oste:
- Tu starai come tu potrai; entra qui che ci sono quelle letta che io ho, e hacci molti romei; guarda se c'è qualche proda; fa' e acconciati il meglio che puoi, ché altre letta o altra camera non ho.
Lapaccio n'andò nel detto luogo, e guardando di letto in letto cosí al barlume, tutti li trovò pieni salvo che uno, là dove da l'una proda era un Unghero, il quale il dí dinanzi s'era morto. Lapaccio, non sapiendo questo (ché prima si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), vedendo che dall'altra proda non era persona, entrò a dormire in quella. E come spesso interviene che volgendosi l'uomo per acconciarsi, gli pare che il compagno occupi troppo del suo terreno, disse:
- Fatti un poco in là, buon uomo.
L'amico stava cheto e fermo, ché era nell'altro mondo. Stando un poco, e Lapaccio il tocca, e dice:
- O tu dormi fiso, fammi un poco di luogo, te ne priego.
E 'l buon uomo cheto.
Lapaccio, veggendo che non si movea, il tocca forte:
- Deh, fatti in là con la mala pasqua.
Al muro: ché non era per muoversi. Di che Lapaccio si comincia a versare, dicendo:
- Deh, morto sia tu a ghiado, che tu déi essere uno rubaldo.
 E recandosi alla traversa con le gambe verso costui, e poggiate le mani alla lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sí di netto che 'l corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave, e con sí gran busso, che Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: "Oimè! che ho io fatto?" e palpando il copertoio si fece alla sponda, appiè della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente:
- Sta' su; ha' ti fatto male? Torna nel letto.
E colui cheto com'olio, e lascia dire Lapaccio quantunche vuole, ché non era né per rispondere, né per tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui, e veggendo che non si dolea, e di terra non si levava, comincia a dire in sé: "Oimè sventurato! che io l'avrò morto". E guata e riguata, quanto piú mirava, piú gli parea averlo morto: e dice: "O Lapaccio doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io andare! ma io non so donde, ché qui non fu' io mai piú. Cosí foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io sto, serò mandato a Ferrara, o in altro luogo, e serammi tagliato il capo. Se io il dico all'oste, elli vorrà che io moia in prima ch'elli n'abbia danno". E stando tutta notte in questo affanno e in pena, come colui che ha ricevuto il comandamento dell'anima, la mattina vegnente aspetta la morte.
Apparendo l'alba del dí, li romei si cominciano a levare e uscir fuori. Lapaccio, che parea piú morto che 'l morto, si comincia a levare anco elli, e studiossi d'uscir fuori piú tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse; la seconda per dilungarsi dal morto, e fuggire l'ubbía che sempre si recava de' morti.
Uscito fuori Lapaccio, studia il fante che selli le bestie; e truova l'oste, e fatta ragione con lui, il pagava, e annoverando li danari, le mane gli tremavono come verga. Dice l'oste:
- O fatti freddo?
Lapaccio appena poté dire che credea che fosse per la nebbia che era levata in quel padule.
Mentre che l'oste e Lapaccio erano a questo punto, e un romeo giunge, e dice all'oste che non truova una sua bisaccia nel luogo dove avea dormito; di che l'oste con uno lume acceso che avea in mano, subito va nella camera, e cercando e ricercando, e Lapaccio con gli occhi sospettosi stando dalla lunga, abbattendosi l'albergatore al letto dove Lapaccio avea dormito, guardando per terra col detto lume, vidde l'Unghero morto appiè del letto. Come ciò vede, comincia a dire:
- Che diavolo è questo? chi dormí in questo letto?
Lapaccio, che tremando stava in ascolto, non sapea s'era morto o vivo, e uno romeo, e forsi quello che avea perduto la bisaccia, dice:
- Dormívi colui, - accennando verso Lapaccio.
Lapaccio ciò veggendo, come colui a cui parea già aver la mannaia sul collo, chiamò l'oste da parte dicendo:
- Io mi ti raccomando per l'amor di Dio, che io dormii in quel letto, e non potei mai fare che colui mi facessi luogo, e stesse nella sua proda; onde io, pignendolo con li calci, cadde in terra; io non credetti ucciderlo: questa è stata una sventura, e non malizia.
Disse l'oste:
- Come hai tu nome?
E colui glilo disse. Di che, seguendo oltre, l'oste disse:
- Che vuoi tu che ti costi, e camperotti?
Disse Lapaccio:
- Fratel mio, acconciami come ti piace e cavami di qui. Io ho a Firenze tanto di valuta, io te ne fo carta.
Veggendo l'oste quanto costui era semplice, dice:
- Doh, sventurato! che Dio ti dia gramezza; non vedestú lume iersera? o tu ti mettesti a giacere con un Unghero che morí ieri dopo vespro.
Quando Lapaccio udí questo, gli parve stare un poco meglio, ma non troppo; però che poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto; e preso un poco di spirito e di sicurtà, cominciò a dire all'oste:
- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o che non mi dicevi tu iersera: egli è un morto in uno di quelli letti? Se tu me l'avessi detto, non che io ci fosse albergato, ma io sarei camminato piú oltre parecchie miglia, se io dovessi essere rimaso nelle valli tra le cannucci; ché m'hai dato sí fatta battisoffia che io non sarò mai lieto, e forse me ne morrò.
L'albergatore, che avea chiesto premio se lo campasse, udendo le parole di Lapaccio, ebbe paura di non averlo a fare a lui; e con le migliori parole che poteo si riconciliò insieme col detto Lapaccio. E 'l detto Lapaccio si partí, andando tosto quanto potea, guardandosi spesso in drieto per paura che la Ca' Salvadega nol seguisse, portandone uno viso assai piú spunto che l'Unghero morto, il quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell'animo, che non gli fu piccola, per un messer Andreasgio Rosso da Parma che aveva meno un occhio, il quale venne podestà di Firenze; e Lapaccio si tornò, rapportando aver fatta elezione al detto podestà, ed esso l'avea accettata. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenze, ebbe una malattia che ne venne presso a morte.
Io credo che la fortuna, udendo costui essere cosí obbioso e recarsi cosí il ritoccare de' morti in augurio, volesse avere diletto di lui per lo modo narrato di sopra, che per certo e' fu nuovo caso, avvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma quanto sono differenti le nature degli uomeni! ché seranno molti che non che temino gli augurii, ma elli non vi daranno alcuna cosa di giacere e di stare tra' corpi morti; e altri seranno che non si cureranno di stare nel letto dove siano serpenti, dove siano botte, scorpioni, e ogni veleno e bruttura e altri sono che fuggono di non vestirsi di verde, che è il piú vago colore che sia; altri non principierebbono alcun fatto in venerdí, che è quello dí nel quale fu la nostra salute; e cosí di molte altre cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro.


NOVELLA  XLIX

Ribi buffone, tornando da uno paio di nozze con certi gioveni fiorentini, è preso di notte dalla famiglia: giunto dinanzi al podestà, con un piacevole motto dilibera lui e tutta la brigata.

Molto fu piú ardito e piú coraggioso Ribi buffone incontro a uno cavaliere d'uno podestà che 'l prese, e ancora col podestà, che non fu Lapaccio vile e timido, per essere stato in un letto con un uomo morto. Questo Ribi fu piacevolissimo, e fu fiorentino, e molto si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de' signori lombardi e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi, ché dava parole, e ricevea robe e vestimenti; e quando venía in Firenze, non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna cosa leccava.
Essendo costui in Firenze una volta, e facendosi là verso Santa Croce un bello paio di nozze, egli vi stette quasi tutto il dí, e vegnente la notte, avendo ciascun uomo e donna e cenato e ballato, e coricatosi lo sposo e la sposa, il detto Ribi con una brigata di gioveni di buone famiglie si partí per andare albergo con loro.
Avvenne che, passando questa brigata da San Romeo, s'abbatterono nel cavaliero del podestà che andava alla cerca; il quale comincia a dire:
- Che gente siete voi?
Risposono:
- Amici, messere.
- Passate innanzi; quanti siete voi?
Dissono:
- Vedetelo.
E fra 'l noverare, e dire: "Tanti uomeni, tanti torchi", al cavaliere venne veduto un torchio, la cui cera non era sei once.
Disse il cavaliere:
- Quello torchio non è di peso.
Ribi fassi innanzi:
- Messer sí, è.
Disse il cavaliero:
- E' dee pesare tre libbre, e non è quattro once.
Ribi rispose e subito:
- L'avanzo aveste voi in culo.
Come il cavaliero ode questo:
- Za, famiglia, pigliate costui; piglia za, e piglia là, menategli tutti al palazzo.
Ribi dicea:
- Perché, messere, omè! perché?
- Come perché? - dice il cavaliere - dunque credi che io sia un bambarottolo: io ci ho impeso gli uomeni per minor parola che quella che in vituperio della Corte ci hai detta tu.
Dicea Ribi:
- Doh, messer lo cavaliere, noi venghiamo dalle nozze e siamo caldi; quello che noi diciamo, diciamo per sollazzare.
- Per sollazzare nella malora; - dice il cavaliere - e dite che sete caldi; altrimenti vi ci farò riscaldare, per le chiabellate di Dio; se giunghiamo a palazzo, ci parlerete d'altro verso su la colla; menateli oltre.
E con questo busso furioso la famiglia condusse la brigata in palagio: e giugnendo dentro nella corte, il podestà, che credo era da Santo Gemino, andando per lo verone in capo della scala, però che era di state, e 'l caldo grande, veggendo costoro, disse che gente era quella. Il cavaliere, che ratto andava verso lui, disse se volea gli menassi dinanzi da lui. Rispose di sí; e cosí tutti vennono dinanzi al podestà. Il quale addomandò il cavaliere perché coloro fossono presi. A cui il cavaliere rispose, volgendosi verso Ribi, e dice:
- Signor mio, questo rubaldo ha fatto gran vergogna a voi e a tutta la vostra Corte.
- E che ci ha fatto? - dice il podestà.
Dice il cavaliere:
- Hacci fatto cosa che mai non ce la direi.
E 'l podestà dice:
- Che ha detto nella malora?
Disse il cavaliero:
- La piú laida cosa, e la piú vituperosa che tu udissi mai; piacciati, signor mio, non la volere udire, ché c'è troppo abbominevole.
Il podestà al tutto dice:
- Io ce la voglio sapere; e se mi ci metti a ira, quello doverrò fare a loro, farò a te ipso.
E 'l cavaliere, alla maggior pena del mondo, gli disse:
- Podestà mio questo cattivo uomo, essendo con questa brigata, che è qui, a luogana, avea questo torchio che qui vedete che non è sei once; io ci dicea che non era al peso secundum formam statuti : esso dicea pur di sí; e io dissi: "Come di' tu di sí, ché non è quattr'once?" e quello disse: "L'avanzo avestú in culo".
Disse Ribi:
- Messer lo podestà, io non dissi con l'aste.
Disse il cavaliero:
- E che ci hanno a fare l'aste, che t'affranga Dio e la Matre?
Allora il podestà, che, come savio, avea già compreso il fatto e pigliavane diletto, si volse al cavaliero, e disse:
- Se costui non disse con l'aste, e la cera è poca, come tu di' e vedi, essendo intervenuto ciò che ti disse, non te ne serebbe venuto né debilimento di membro, né altro male; avesse detto con l'aste, serebbe stato cassale e mortale.
Disse il cavaliero, quasi sdegnato:
- Facci che ti piace, per le budella di Dio, se ce l'avesse a punire, la lingua con che lo disse gli farei trarre dalla canna.
Disse il podestà:
- Io ti dico, cavaliero, che si vuole aver discrizione: se costui non disse con l'aste, non mi pare che meriti alcuna pena.
Disse uno judice del maleficio che era col podestà, ed era fratello di quello messer Niccola da San Lupidio, a cui Ribi altra volta trasse le brache, come si narra nel libro di messer Giovanni Boccacci:
- Questi Toschi ci sono tutti gavazzieri, deasi lo sacramento a isso, se disse con l'aste.
E 'l podestà disse:
- E cosí si faccia.
E datoli il juramento, Ribi, alzando la mano, dice:
- Io giuro per quello Dio, cui adoro, che io non dissi con l'aste. Doh, messer lo podestà, sere' io sí fuori della memoria? ché so che se io l'avessi detto, n'andrebbe il fuoco, o la mitera.
Disse il podestà:
- Vacci con Dio; per questa fiata t'aio perdonato, e guàrdate bene per un'altra volta, quando la cera del torchio fosse di piú peso, ad un altro cavaliero non dicessi simili parole; però che, benché tu non dicessi con l'aste, e la cera fosse tanta quanto vuole lo statuto che sia, ed ella entrassi al cavaliere dove tu dicesti, e' serebbe sí pericoloso che tu potresti aver la mala ventura.
Ribi ringraziò il podestà della licenzia e dell'ammaestramento, e partissi con tutta la brigata; e 'l podestà ne rimase in gran sollazzo con li judici suoi; e 'l cavaliero dicea che di ciò la Corte si era vituperata, e rimase tutto scornato, e non volea fare officio, e molti dí combatté il podestà, volendosi pur partire, dicendo che mai in quello officio non credea aver altro che vergogna, poiché non s'era fatta justizia di sí vituperato delitto.
Alla per fine pur si reconciliò, e la novella si comprese sí per la terra che quando quel cavaliero era veduto, andando alla cerca, era detto da' garzoni:
- Quello è il cavaliero del torchio con l'aste.
Gran gentilezza usò questo rettore, che considerò alla qualità e al modo, e all'uomo chi era, e grande disperazione fu quella del cavaliere; ma pur procedea da justizia e da buon animo. Ma pur considerando quello che dovea considerare, e chi Ribi era, di quello che avea detto si dovea dar pace, però che a' loro pari pare che debba essere lecito ciò che dicono e ciò che fanno. Bella e nuova allegazione fece Ribi, e ragionevolmente da non potervi apporre, però che quanto piú dicea il cavaliero, quella cera essere di piccolo peso, tanto era la colpa di Ribi minore, e piú allegava per lui.



NOVELLA L

Ribi buffone, vestito di romagnuolo, essendo rotta la gonnella, se la fa ripezzare con iscarlatto alla donna di messer Amerigo Donati, e quello che rispondea a chi se ne facea beffe.

Troppo fece rappezzare meglio una sua gonnella un'altra volta questo Ribi, e a suo utile, che non ripezzò la scusa del torchio con l'aste. Però che, avendo in dosso una gonnella romagnuola, ed essendo vecchia, avea una rottura nel petto e una nel gomito. Ed essendo una mattina a desinare con messer Amerigo Donati di Firenze, andò alla donna sua in camera, però che avea contezza con le donne de' cavalieri, come sempre hanno, e disse:
- Madonna tale, averesti voi un poco di scarlatto?
Disse la donna:
- Ribi, se' tu per motteggiare?
Disse Ribi:
- Madonna no, anzi dico dal migliore senno ch'io ho, però che io vorrei volentieri che voi mi rappezzaste questa gonnella.
Disse la donna:
- O che buona ventura! vuo' tu ripezzare il romagnuolo con lo scarlatto?
Disse Ribi:
- Deh, non ve ne caglia: madonna, se voi l'avete, fatemi questo servigio.
La donna, vaga di veder questa novità, disse:
- Io n'ho bene, e acconcerottela, poiché tu vuogli; ma una nuova cosa fia a vederla.
Disse Ribi:
- Madonna, voi dite il vero: e perché io vo cercando cose nuove, come nuovo che io sono, però fo questo; e quando fia fatto, non starete tre dí che, sapiendo la cagione, serete contenta.
E brievemente, preso alquanto di rispitto, che come ebbe desinato con messer Amerigo, egli diede una mezza volta, e con un'altra gonnella in dosso recò quella sotto il braccio alla detta donna, la quale in quel dí la ripezzò con due pezzetti di scarlatto di colpo nuovi. Avendo Ribi la gonnella ripezzata, se la misse addosso l'altra mattina, e uscí fuori, andando in mercato nuovo, dove piú gente credea trovare. Chi lo vedea, dicea:
- O Ribi, che è questo? o tu hai ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto!
E Ribi rispondea:
- Tal fosse l'avanzo!
E cosí con questa gonnella e con questo motto diede piacere parecchi dí a' Fiorentini, avendo con loro buone cene e desinari. Dappoi (che fu piú nuova cosa) n'andò in Lombardia, portando questa gonnella cosí fatta nella valigia, e dinanzi a piú signori comparío con essa. E quando li diceano:
- Che vuol dir questo, Ribi? perché hai tu ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto?
E quelli dicea:
- Tal fosse l'avanzo -; aggiugnendo un'altra particella: - Gli uomeni di Firenze che non sono signori di terre, veggendomi vestito cosí male di romagnuoli, e che la gonnella era rotta qui e qui, mi cominciorono a farla di scarlatto in due luogora, come vedete. Pensai e penso che, vegnendo con essa dove fossono de' signori, che l'avanzo, che è molto piú, per loro si compiesse.
E cosí dicea a tutti, dov'elli andava: tanto che quel romagnuolo gli fu tutto coperto di scarlatto e ancora n'ebbe parecchie belle robbe. Quando la donna di messer Amerigo sentí quello che due pezzuole di scarlatto, poste sul romagnuolo, erano valute a Ribi, ebbe per certo lui essere savio e avveduto quanto altro buffone.
Questa parola o motto di Ribi viene spesse volte a proposito d'allegare, benché oggi non so se quello ripezzare fosse tenuto o povertà, o leggiadria; però che, non che i panni di dosso con molti cincischi e colori si frastaglino e ripezzino, ma le calze non basta si portino una d'un colore e l'altra d'un altro; ma una calza sola dimezzata e attraversata di tre o quattro colori; e cosí per tutto si tagliano e stampano i panni che con gran fatica sono tessuti.

 
 
 
Vai alla Home Page del blog
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

frank67lemiefoto0giorgio.ragazzinilele.lele2008sergintprefazione09Epimenide2bettygamgruntpgmteatrodis_occupati3petula1960mi.da2dony686giovanni.ricciottis.danieles
 
 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963