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« Mó t'arisponnoSonetto di Tullia d'Aragona »

La Cortigiana

Il seguente brano è tratto da "Le rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI" edite a cura e studio di Enrico Celani, Bologna, presso Romagnoli Dall'Acqua libraio editore, 1891. L'immagine accanto al titolo rappresenta un dettaglio di "Tullia d'Aragona (1510-1556), ritratta nell' « Erodiade» del Moretto da Brescia. Pinacoteca di Brescia.". Copertina del volume di Pallitto, Elizabeth A., ed. and transl., Sweet Fire (New York: George Braziller Publishers, 2006).

Uno dei fatti più notevoli al principio del decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire della cortigiana; figura degna di considerazione e di esame non ebbe pur anco uno storico che di lei si occupasse scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche ed archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta questa pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il nome di cortigiana si collega certamente alla storia dell'umanesimo, ma quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora risposta sicura. Arturo Graf (1), che si occupò ultimo della questione con quell'acume di critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita a dare giudizio decisivo, attendendo pur lui che nuovi studî e documenti traccino via più ampia e sicura per definire tale punto.

Lo sviluppo della cortigiana prodotto dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel rinascimento, adattato al nuovo regime di vita che rese allora meno dure e servili le leggi sul costume, viene certamente a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior coltura e diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli stati italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di S.Bernardino (2) e del Savonarola (3); l'Ariosto stesso che non ne fu immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti. Ed allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui campioni; dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel Dialogo d'amore ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi dovendo quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor platonico, primi il Bembo e il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo definisce «un desiderio di possedere con perfetta unione l'animo bello della cosa amata (4)» contrastando all'amore che anela il solo possesso del corpo. All'amore assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo il lavorìo dell'Aretino, sono infirmate quasi tutte le liriche di cortigiane del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale furono create, queste la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla corte pontificia a quella dei Medici, da Venezia a Siena.

Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi nel medio evo alla coltura della donna, condusse a due estremi ostanzialmente diversi che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo decimosesto: la coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro: prodotta quest'ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono documenti il Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo la dichiarazione poetica dell'amore e trasportando il lettore nella Corte di Urbino, ove le lettere e le arti erano tradizione, appalesa per bocca di Giuliano de' Medici, la cui consorte Filiberta fu cantata modello di femminili virtù, che «la coltura della donna deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari.

Nei diversi rami della scienza e dell'arte essa deve possedere la conoscenza necessaria per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non sono professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver conoscenza di belle arti, essere esperta nella danza e nell'arte del vestire, saper evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e leggerezza, che quanto palesa mancanza di gusto. Il suo conversare, serio e faceto, dev'essere adatto alla convenienza de' casi, essa non deve mai parlare ad alta voce e con iscostumatezza, nè con malizia ed in modo da offendere, deve corrispon[spon]dere alla sua condizione con modestia e con modi convenienti, a cui è obbligata, verso quelli che costituiscono abitualmente la sua compagnia. Nel suo presentarsi e nel contegno sia aggraziata senz'affettazione. Le sue qualità morali, l'onestà e le virtù domestiche devono essere d'accordo con le intellettuali. Debb'esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad ogni parola libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia governar la casa e la sostanza e guidar l'educazione de' figliuoli. Non tenti d'imitar l'uomo negli esercizi del corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono. In tutto il suo essere, nel portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia, dolcezza femminile e non rassomigli all'uomo». E questi ammaestramenti seguirono donne d'illustre casata, quali Eleonora d'Aragona, Isabella d'Este, Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l'elemento borghese ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta il ricordo di Antonia Di Pulci e Lorenza Tornabuoni.

L'ambiente elevato e colto nel quale visse la cortigiana nel cinquecento non poteva non influire su di essa e spingerla a gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti in tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi che furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane: Veronica Franco e Tullia d'Aragona; e se tra loro molto lungi per costumi, non certo per meriti letterarii. Data questa coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana richiedersi necessariamente di esserle pari se non superiore, avere vivace ingegno, voce bella e gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra insomma in tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a considerarsi, altamente biasimate da uomini come l'Aretino e il Garzoni, che definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre. «Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti, i diporti loro, se non da quell'intento di aver l'applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratte da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli, rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore? (5)» E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci dal citare un altro particolare degno di nota che egli ci offre e riguarda il mezzano, che, dovendo esser in tutto degno della cortigiana che l'aveva prescelto, serve a gettare luce in quell'ambiente triste e tuttora oscuro. «Imita il grammatico nel scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell'esprimer secretamente il suo pensiero... appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di cuore... porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d'Ascoli, l'Arcadia del Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso, l'Amadigi, l'Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti d'Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione... Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini l'abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d'oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si scopre l'intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta... Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l'animo d'ogni lascivia, ruina i costumi, disperde l'onestà, infiamma l'alma di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole scerete... (6)». Questo procuratore di amore non è egli un tipo abbastanza curioso e interessante?

La cortigiana apparisce in Roma alcuni anni prima del 1500 (7) e come tale è ufficialmente, se così è lecito dire, riconosciuta in documenti autentici della curia papale. In un censimento (8) compilato d'ordine della suprema autorità di Roma, redatto certamente nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case, botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la patria, condizione ed arte, le cortigiane sono notate in numero esorbitante, spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in cortesane honeste, cortesane putane, cortesane da candella, da lume, e de la minor sorte. Una sola volta, e forse senza alcuna malizia, il compilatore della statistica dimentica l'aridità del suo lavoro e nota: «La casa di Leonardo Bertini habita Madonna Smeralda cura 3 figlie piacevoli cortegiane».

Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia del cinquecento, è l'Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli ventisei anni, (9) ricordata egualmente con ardore da storici e romanzieri, amata da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il famoso banchiere (10) : celebrata da poeti e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della romana aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre citansi le doti singolari: «Lucrezia Porzia, dice l'Aretino, pare un Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio, d'Orazio e d'Ovidio e di molti altri autori (11)»: la Squarcina conosceva benissimo il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso il ricordare.

Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento era pur sempre quella del medio evo: tolta dall'ambiente che l'avvinceva, costringendola a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di essa la donna nella quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano diretta conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza ed il Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse veramente amare, noi, più scettici, crediamo con riserva a questo amore che poteva esser cagionato da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo che la cortigiana avesse il cuore al di sopra della ragione, mentre accettiamo senza dubbio alcuno il fatto che nella prostituta di più bassa specie si rinvenisse l'amore nelle più forti sue manifestazioni. È questo un fatto che si ripete continuamente anche ai nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico, non cessa per questo di essere men vero.

Ricordasi l'Aragona innamorata del Varchi e del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell'Armi veniva consolata per lettera dall'Aretino; ma vogliamo proprio credere sul serio all'amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano allora come adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre, più ricchi d'ingegno, di madrigali, di epistole che di quattrini, esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri e capitoli e col sacrificio dell'amor proprio ricambiavano i favori lor concessi: Antonio Brocardo scrisse un'orazione in lode loro, il Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l'Aragona: il Molza, Beatrice spagnola: Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli l'onorata madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro (12) . La Tullia d'Aragona è quella che nelle sue rime lascia maggiormente scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare che alcune di esse siano opera del Varchi stesso, e dà in pari tempo la figura spiccata della strisciante cortigianeria che avviluppava anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi è in Veronica Franco della quale daremo in breve le rime, divenute di meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi più venturati (13) : essa è l'incarnazione della donna libera del cinquecento ed è l'unica che canti liberamente i suoi amori: non s'informa a platonismo o castità irrisori, ama per amare e soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni degli Agostini «con tal'arte seppe dipingerli e con tal frase adornarli che servono agl'incauti di vigoroso solletico alla concupiscenza (14) ». Tale non può essere oggi il parere di coloro che si occupano seriamente della nostra letteratura: ogni pagina, bella o brutta, sana o impura, che venga a chiarire la nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero vorrà essere accolta questa mia debole fatica.

NOTE

(1) Graf A. Atraverso il cinquecento. Torino, Loescher, 1888, pag. 215 e seg. - Nell'Hermaphroditus del Panormitano (1471) (Quinque illustrium postarum, Antonii Panormitani, etc. lusus in Venerem, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora, come neppure ne è parola in Giano Pannonio (1472) Poemata, Trajecti ad Rhenum, 1784.

(2) «Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, egli mente per la gola» (S. Bernardino, Prediche volgari, ed. Bongi, pag. 380).

(3) Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono santissime e mirabili, nè mai in Firenze fu tanta bontà e religione quanta a tempo suo... la sodomia era spenta e mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato... portavano i capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi. (Guicciardini, Storia, fiorentina, cap. XVII).

(4) Piccolomini A. Istituzione di tutta la vita, dell'uomo nato nobile et in città libera. Venezia, 1552.

(5) Garzoni T. La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.

(6) Garzoni T. Op. Cit., discorso LXXV, pag 605.

(7) Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra come l'ultimo d'ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro VI e della Lucrezia Borgia. «In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum; bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa victoribus». Diarium sive rerum urbanorum commentarii, Parisiis, 1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).

(8) Armellini M. Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell'Archivio Vaticano. Roma. Befani, 1887.

(9) Cfr. Bandello, Novelle, parte III, nov. XLII; Valery, Curiositès et anecdotes italiennes, Paris, 1842; Giovio P., De piscibus romanis, cap V; Forcella V., Iscrizioni delle chiese di Roma, Roma, 1878. Per l'epitafio che dicesi posto sulla sua tomba crediamo siasi troppo facilmente accettata la tradizione che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato che se pure l'epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba dell'Imperia. Di lei scrive il Bandello (op. cit, nov. XLIII): «Tra gli altri che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del Bufalo, uomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne, che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella entrava, veduto l'apparato ed ordine de' servidori, credeva che ivi una principessa abitasse. Era tra l'altre cose una sala e una camera sì pomposamente adornate, che altro non v'era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino, ov'ella si riduceva, quand'era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi d'oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici. V'erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari, essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico Campana detto Strascino; e già tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale». Ed a proposito del celebre camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita l'ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che gli stava alle spalle.

(10) Cugnoni G. Agostino Chigi il Magnifico, Livorno, Vigo, 1879.

(11) Aretino P. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere, Cosmopoli, 1660, pag. 442.

(12) E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana (Burchkardt. Diarium etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209); Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinal Vitelli «dopo cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte quattordici; e presene per sè una e una per el cardinale Vitello el resto acomodoli a la sua famiglia. (Fabretti, La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV, Torino, 1885, pag. 46).

(13) Graf A. op. cit., pag. 350.

(14) Theatro delle donne letterate, pag. 296.

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