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Il Meo Patacca 10-1

Post n°1312 pubblicato il 02 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO DECIMO

ARGOMENTO

Seguita ancor la festa, e 'l prauso dura,
E il regazzume spara zaganelle;
Si vedon fatte con architettura
Machine nove, et altre cose belle.
Un villano, che fece la figura
Di Gran Vissir, ci hebbe a lassà la pelle;
MEO, di farlo curà l'assunto prese,
E pur ci fù, chi dirne mal pretese.

Già della notte la prim'hora è scorza,
Passata è la seconda, e ancor la terza,
E sempre più la calca si rinforza,
Ch'arriva tuttavia gente diverza.
In lochi stretti el popolo s'intorza,
S'a caso una carrozza s'intraverza,
Di regazzi una truppa intorno sparza,
Allora di ripieghi non è scarza.

Non dico già, che di scanza' procuri
Il risico, che curre ogni perzona:
Anzi pare, che propio non si curi
Del pericolo, e a quello più s'espona;
Acciò che chalche donna si spauri,
Hanno una certa scola un pò barona,
D'accostarzi pian pian vicino a quelle,
E col miccio sparà le zaganelle.

Si fan queste di carta un po' grossetta,
Che di polvere s'impe, e poi si piega;
Come in sè si raggruglia una serpetta,
Così questa in sè stessa si ripiega.
Perchè poi stia ben riquadrata e stretta,
Con un spago nel mezzo allor si lega,
E fattone a 'sto modo un fagottino,
C'è in cima, et esce in fora, el su' stuppino.

Ne fanno li ragazzi un capitale",
Che più dir non si pò, pare uno scrocco,
Chi assai non se ne crompa, e ogn'una vale
O due quatrini, o al più mezzo baiocco;
Hanno un genio maligno di far male,
Mò fanno spaventà chalche marrocco,
Con vederzi attaccà foco alli panni,
Mò le donne co' strepiti assai granni.

Un de 'sti ghinaldelli, ecco s'abbassa,
Quasi vicino a terra, e prestamente
La zaganella appiccia, e poi la lassa,
Dove stà ferma e folta più la gente.
Doppo, via presto scivola e trapassa.
Pe' la folla con impeto, e tiè mente,
Ma però da lontano, e sta a vedene
La zaganella, se si porta bene.

Questa di lì a un pezzetto, e foco piglia,
E sbalza via de fatto, e salta, e scoppia;
Quanno sta pe' finì, forza ripiglia,
Le scoppiature e i zompi allor raddoppia.
La gente, ecco si slarga, e si scompiglia,
E colui come quaglia in te la stoppia
Tra la folla appiattatosi se tratta,
Che tra di sè, di ridere si schiatta.

Osserva certe femmine zerbine,
Che strillano, e salticchiano in vederzi
Le faville attaccate alle vestine
Et ai zinali, e fan de' brutti verzi;
Se ci hanno core allor le signorine,
Glie bigna rimedià, pe' non tenerzi
El foco addosso, e a fè, non se ne burlano,
Ma presto presto, le faville scurlano.

In più lochi insolenze de 'sta sorte,
Fanno i regazzi, e l'un dall'altro impara,
E nel zaganella, maniere accorte
D'haver procura ogn'un di loro a gara.
C'è spesso, chi li tozzola assai forte,
Et allor sì, ch'assai gli costa cara
La loro insolentaggine, che molti
Nel fatto, a cavaliere ce so' colti.

Et oh! quanto a costoro gli sta bene,
Che ci sia chalched'un che li rifili,
Perch'è assai gran ardir, e non conviene
Far alle donne atti così incivili,
Di zaganelle, haver le mani piene,
E annar facenno spari puerili.
È ver che MEO gli dette ampia licenza,
Ma non di far ad altri impertinenza,

C'è chalch'homo de garbo e risentito,
Che gira con le figlie e con la moglie;
Che non habbiano affronti sta avvertito,
E mai da 'sto penzier non si distoglie;
Ecco con zaganelle un frasca ardito
Ce s'arrisica, e quello ce lo coglie,
E quanno giusto sta pe' fa la botta,
Te lo schiaffeggia e te lo scappellotta.

Perchè 'sta razza della Cappellina,
Più ce vuò profidià, quant'ha più busse,
El baroncello fa una ramanzina,
Come s'a torto rifilato fusse:
Va via rognanno, e non si ferma, inzina
Che di Bassà, Vissir, o di Chiausse
Non trova altra comparza, e gente nova,
Qui dell'astuzie sue torna a far prova.

Mò lesto la fa netta, e non c'è colto;
Mò buscia gli riesce, e ci ha de guai
E da i compagni, dov'è il popol folto,
Si fa 'sta giocarella pur assai.
Ma lassamoli fà, che poco o molto
Ci han de crostini, e dir si senton: Ahi!
Perchè gli dà, chi ha rabbia soprafina,
Pugni che fanno ribomba' la schina.

Un altro curre come fa un lacchè,
Dove la gente ad affollarzi và,
Ritto ritto un bastone in mano tiè,
E sopra un cerchio congegnato stà.
Qui più d'un razzo attorno attorno c'è,
Prima in terra colui foco gli dà,
Poi giran le faville, e cascan giù,
Mentre currenno, lo tiè alzato in sù.

El popolo si scanza, e gli dà 'l passo,
Non volennose mette in compromesso,
Perchè quel foco in tel casca giù abbasso,
Fà delli brutti scrizzi, e bene e spesso.
Vestito un altro poi da babbuasso,
Finge d'esser un Turco, che dismesso,
E lacero, e pezzente, et in rovina
Si dà pugni, si sgraffia, e si sciupina.

In tel mezzo del popolo si caccia,
E smania, e smorfie fa da disperato,
Quell'abbito, ch'ha addosso se lo straccia.
Che con più pezze unite era aggiustato.
Tira le toppe a più perzone in faccia,
Che son piene di pece, e se infoiato
Calch'uno, pe' 'st'affronto lo scapiglia
E sgrugnoni gli da, lui se li piglia.

Più si va innanzi, più s'incontra robba,
Da sganassà di ridere a vedella;
In figura d'un turco con la gobba,
Uno sta ritto su 'na botticella,
Taffia con un cucchiaro certa bobba,
Ch'è messa pe' minestra in t'una tiella,
E scritto sul turbante c'è 'sto motto:
Stroppio, spiantato, a mendicà ridotto.

Sopra un banco più in là, puro di carne
Un altro sta su in piedi, et è alla vista
E per quello ch'ogn'un pò giudicarne,
E per l'atto in che sta, turco abbachista:
Fà conti e s'affatiga di rifarne
Co' i deti, e perchè sbaglia, si contrista;
Va storcenno la bocca, e se la sgarba,
E si strappa li peli dalla barba.

Giusto è vestito come un homicciolo,
Ch'è tutto cenci: al fianco ha 'na scudella,
È infasciato da un straccio il cucuzzolo,
Sotto il braccio mancino ha una stampella.
Pende dal collo de 'sto stracciarolo,
Con un laccio attaccata una cartella
Dov'è scritto così: Questo m'avviene,
Perchè non seppi far li conti bene.

Passata poi 'sta cianfonèa burlesca,
C'è 'na machina soda et assai degna;
È circondata dalla soldatesca,
Acciò non c'urti 'l popolo e la spegna.
Forz'è che cosa nobbile riesca,
S'opera è d'uno, ch'assai ben disegna,
E ci hanno in più figure, e senza motti,
Molto da interpretà l'homini dotti.

Sopra un palco di tavole assai lisce
Da grossi et alti travi sostenuto,
Depinto un mattonato comparisce,
Ch'il più superbo mai non fu veduto.
Un trono assai magnifico apparisce,
Et il Gran Turco ce sta su seduto,
Stregne lo scettro con la man tremante,
E tiè su la capoccia el gran turbante.

Sta in atto, d'un che guarda sbigottito
Cosa, che troppo la su' vista offenne;
Par, che voglia fuggì, ma che impedito
Dal suo terror non pozza i passi stenne,
Un numero di turchi scompartito
Di quà e di là per longo si distenne,
E ogn'un di questi le lanterne attento
Tiè in sù voltate, piene di spavento.

Non son già queste nò finte figure,
Ma tutti quelli delle due spalliere,
Che fann'ala al Gran Turco, e questo pure,
Homini vivi son di brusche cere.
Stanno aggiustati in varie positure,
E ce si sanno fermi mantenere,
Et è cosa assai bella da vederzi,
Star facenno d'orror atti diverzi.

In aria sta con semetrìa pendente,
Non senza maraviglia di costoro,
Misser Febbo, ch'è tutto risplendente,
E scialo fa con la su' cioma d'oro.
L'arte si vede qui d'homo intendente,
Perch'è 'no squisitissimo lavoro,
Sotto in chalche distanza l'ale spanne
In faccia al sole, un'Aquila assai granne.

Questa pur congegnata con maestrìa
Sta in aria riguardanno fissa fissa,
El bel pianeta, e par ch'intenta stia,
Più a vagheggiallo, più ch'in lui s'affissa.
C'è poi sotto di lei pe' dritta via
'Na mezza luna, e l'Aquila l'ecclissa,
Se con la spampanata delle penne,
Glie para el Sole, e scura assai la renne.

O adesso sì, eh' il popolo s'affolta,
E l'occhi dalla machina non leva;
Et ecco a un tratto l'Aquila si volta,
Quasi dal Sole l'ordini riceva,
Solo a forza d'ordegni si rivolta.
Giù per un fil di ferro, che pendeva
Inverzo el palco se ne vie fugata,
E da alla luna da solenne urtata.

All'impeto del moto, che fa questa,
Cede quella, e s'aggruglia, et allor passa
L'Aquila, che scurrenno, la calpesta
Con le gran zampe, e quasi la sconquassa.
Seguita il volo poi verzo la testa
Del Gran Turco, e col becco gli sfragassa
Il turbante, parendo un atto vero,
Questo per opra sol dell'ingegniero.

Benchè sano apparisca, in giro vasto,
El turbante veduto un po' discosto,
Perchè all'istante haver potesse il guasto,
Tutto quanto di pezzi fu composto.
Come intiero sul capo era rimasto,
Perch'eran quelli stati messi accosto,
Chi vicino sul palco non gli stava,
Fatto tutto d'un pezzo lo stimava.

Però appena dall'Aquila fu tocco,
Che svolazzanno a precipizio venne
Giù pel ferro filato, che de brocco
Si disfece, e più unito non si tenne.
Crede chalch'un di quelli, ch'è un po' gnocco,
Che l'animal da sè mova le penne,
S'è così bello e così ben dipinto,
Che pare natural, quanno ch'è finto.

Propio apparì, che il berettin turchesco
Dall'ucello real si lacerasse;
Stupì, non solo il popolo donnesco,
Che non capì, come la cosa annasse,
Ma si maravigliò pur l'hominesco,
E ben fu poi dover, ch'ogn'un ghignasse
Mentre il turbante al turco si sminuzza
In tel vedegli nuda la cucuzza.

Pare, col solo ciuffo, un babuino,
S'arrizza pe' scappà, ma con fragasso
El trono se gli sfonna, e a capo chino
Lui taffe, tiritombola giù abbasso.
Dell'aquila, ch'assalta el malandrino,
E del soglio, che tutto va in sconquasso,
Assai facili i moti furno resi,
Da corde, rote, molle e contrapesi.

Fornitasi così 'sta bella vista,
Smorzano i lumi, e resta l'aria oscura,
Perchè non vada chalche Dottorista
A riconosce la manifattura.
Che i ficcanasi, a farne la rivista
Se n'annariano là, cosa è sicura,
E poi tra questi chalche testa secca
C'è sempre, ch'alle cose da la pecca.

Le genti alla rinfusa si sparpagliano,
Se alla sfilata tutti se la cogliono;
Dell'ordegni discorrono e si sbagliano
Molti, che i sacciutelli far ci vogliono;
Come le cose viste si sbaragliano
Dicono de sapè, ma poi s'imbrogliano
E litiganno fra di lor bisbigliano;
Pescà non sanno al fonno, e granci pigliano.

Però chi ha un po' de musica et è forze
Pratico del mestier, non si confonne;
Dell'artifizio molto ben s'accorze,
E lo diciara all'homini e alle donne.
Poi del significato si discorze,
E chi a un modo, chi a un altro interpretonne'
L'atti delle figure, e assai parole
Si fecero da molti intorno al Sole.

Ogn'un dice la sua; ma chi è sapiente
Ben sà, che questo è di raggion quel lume,
Che di chi regna illumina la mente,
E ch'insegna ad havè savio costume,
Consiglia a gastigà dovutamente
Chi 'l giusto offenne, e farzi reo presume;
Così al Turco successe, e ben gli stette
Il gastigo, che l'aquila gli dette.

Viè ogn'altra cosa ancora a interpretarzi,
E glie se dà la su' significanza:
Del turbante spezzato ricordarzi,
Fava rider la gente a crepapanza.
L'havè poi visto giù precipitarzi
Quel Turco indegno, e nella su' cascanza
Sbalzargli via lo scettro, ben mostrava,
Ch'annà presto in rovina gli toccava.

In tel farzi 'sti belli discorzetti,
Va 'l popolo cercanno in altre banne
Chalch'un'altra comparza, che diletti,
E che faccia spicca grolie alemanne.
Trombe, tamburi e botte di moschetti,
Ecco, che co' 'no strepito assai granne
Sentir si fanno, e presto ogn'un là, dove
Si sente quel rumore, il passo move.

Come sferra un polletro a briglia sciolta,
Quanno col nerbo lo scozzon lo batte,
Così, più d'un birbante a quella volta
Battenno il selcio và con le ciavatte;
Chi ritto curre, e chi le strade svolta
pe' fà le scortatore, e come matte
Zampettano le femmine, e parecchie
Lassano sino addreto le lor vecchie.

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