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Messaggi di Ottobre 2014

Tu' moje

Post n°581 pubblicato il 31 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Tu' moje

Quanno l'hai conosciuta era pischella;
la coccolavi come 'na pupetta,
tornanno a ccasa: stava llì a tt'aspétta.
Tu' moje era pe' tte come 'na stella.

Mica è rimasta sempre e solo quella.
Vicino a tte, per ogni strada stretta,
sempre c'era 'sta donna che è pperfetta:
l'anni sò' iti e llei è sempre più bbella.

Magara, quarche ddubbio poi t'assale,
pensanno a ccome te sei comportato.
Ricordete, Righé, nun faje male,

perché saresti propio 'n disgrazziato.
Nun ce stà ccosa che pe' tte più vvale
der bene che tu devi a chi t'ha amato.

Valerio Sampieri
30 ottobre 2014

 
 
 

Rime varie di Tullia d'Aragona

Post n°580 pubblicato il 30 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Concludo la pubblicazione delle "Rime di Tullia d'Aragona". Nella raccolta delle Rime di Tullia è compreso un gran numero di poesie composte in suo onore da vari poeti ed in particolare da Girolamo Muzio che fu suo amante appassionato.

 

LIV.

Se materna pietate afflige il core
onde cercando in questa parte e in quella

il caro figlio tuo, Lilla mia bella,

piangi, e cresci piangendo il tuo dolore:

a te, ch'animal se' di ragion fore,
e non intendi (ohimè) quanto rubella

sia stata ad ambe noi sorte empia e fella,

togliendo a te 'l tuo figlio, a me 'l mio amore;

che far (lassa) degg'io? Qual degno pianto
verseran gli occhi miei dal cor mai sempre,

che conosco il tuo male, e 'l mio gran danno?

Chi potrà di Psichi con alto canto
cantar l'altere lodi: o con quai tempre
temprar quel, che mi da sua morte affanno?



LV.

Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
scemar (misera me) l'ardente foco

con cercar chiari rivi, e starne a l'ombra
ne i più fronzuti e solitarii boschi:
ma quanto più lontan luce il suo raggio
tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

Chi crederebbe mai che questo vampo
crescesse quanto è più lontan dal sole?
E pur il provo, che quel divin raggio
quant'è più lunge più raddoppia il foco:
né mi giova abitar fontane o boschi,
ch'al mio mal nulla val, fresco, onda od ombra.

Ma non cercherò più fresco, onda od ombra,
che 'l mio così cocente e fero vampo
non ponno ammorzar punto fonti o boschi;
ma ben seguirò sempre il mio bel sole,
poscia che nuova salamandra in foco
vivo lieta, mercè del divo raggio.


[LV.]
(Codice Vat. ottob. 1595, c. 118–119)


Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
scemar misera a me l'estremo fuoco,
con cercar chiari rivi e stare all'ombra
dei verdi faggi ed abitar fra boschi;
ma quanto più lontano è il suo bel volto
tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

Chi crederebbe mai che questo vampo
crescesse quanto è più lontan dal sole?
Io pur il provo, che quel divin volto
accresce e 'n me raddoppia ognor il fuoco
né mi giova cercar fontane o boschi,
che questo sol non cuopre e frondi ed ombra.

Non cercarò vie più posare all'ombra
per minuire il mio cocente vampo,
né, lassa, errando, gir fra folti boschi:
ma ben seguirò io sempre quel sole
per cui sì lieta mi nutrico in fuoco,
che a ciò mi sforza il cielo col suo bel volto.

Deh! perché non m'alluma il vivo raggio
ovunqu'io vado, o per sole o per ombra,
che lieta soffrirei sì dolce foco,
e contenta morrei del suo gran vampo?
Ma non spero giammai, lassa, che 'l sole
scopra giorno sì chiaro in questi boschi.

Ond'avrò sempre in odio i monti e i boschi
che m'ascondon la luce di quel raggio,
che splende e scalda più de l'altro sole;
biasmi chi vuole e fugga i raggi a l'ombra,
ch'io per me cerco sempre e lodo il vampo
che m'arde e strugge in sì possente foco.

Quanto dunque mi fora grato il foco,
ingrati i monti, e le fontane, e i boschi,
u' non veggo il mio sole e sento il vampo
s'io potessi appressar l'amato raggio
e del mio stesso corpo a lui far ombra,
e quando parte e quando torna il sole.

Prima sia oscuro il sole e freddo il foco,
né faranno ombra in nessun tempo i boschi,
che del bel raggio in me non arda il vampo.

Deh! perché non è meco il sacro volto
dovunque io vadi, o per sole o per ombra,
ch'avria forse men forza al cuore il fuoco
e soffrirei più lieta ogni mio vampo;
ma puote solo un raggio del mio sole
farmi beata ne gli ombrosi boschi.

E perciò in odio avrò sempre quei boschi
che torrammi il veder del sacro volto,
e i chiari raggi dell'almo mio sole
che fean sgombrar le nube e fuggir l'ombra,
e me sola gioir nel chiaro vampo
qual salamandra nel più ardente fuoco.

Quanto mi fora dilettoso il fuoco,
noiosi i fonti e via men grati i boschi,
men cari i faggi e men noioso il vampo,
s'unir potessi il mio volto al bel volto
e col mio stesso corpo al suo far ombre,
ben d'arder godrei toccando il sole.

Deh, dicesse il mio sole: anch'io sto in foco
però non cercar più ombra ne' boschi
che vo' che 'l volto mio tempri il tuo vampo.



LVI.

Alma del vero bel chiara sembianza,
a cui non può far schermo né riparo
così gentil e cristallina stanza
che non mostri di fuor l'altero e raro
splendor, che sol ne dà ferma speranza
del ben, ch'unqua non fura il tempo avaro:
deh! fa, se morta m'hai, ch'in te rinnovi
acciò di doppia morte il viver pruovi.



LVII.
(Cod. Vat. ottob. 1595, c. 119)


Lieto viss'io sotto un bianco lauro
e vivrò fin che 'l bianco amor m'infondi
non per ornar le tempie d'ostro e d'auro
ma sol delle tue sacre altiere frondi;
ma poi che più e più volte il sole in Tauro
tornato fa che i suoi bei crini ascondi
se s'affredda stagion mutarà il corso,
i frutti seccarà, le frondi e il dorso.

Tullia d'Aragona
 
 
 

Esse poveta

Post n°579 pubblicato il 30 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Esse poveta

Nun serve, pe' ssognà, d'esse poveta,
l'hai detto e mmó co' tte semo d'accordo.
Però io te dicevo, m'aricordo,
nun posso sopportà chi fà l'asceta,

lo sguardo cià com'uno stoccafisso,
che ddorme e fà ssembratte d'esse assorto
-e ppiù lo guardo e ppiù me pare 'n morto-,
che ppuro quann'è mmuto è 'n gran prolisso.

Ecco com'è, a la fine de li ggiochi:
t'ascorto si a parlà lo fai cor côre,
ne l'anima sentì mme fai dei fôchi,

beannome co' 'n po' de bbonumore.
Me devi crede, sò' ddavero pochi
queli che ssò' ppoveti con amore.

Valerio Sampieri
29 ottobre 2014

 
 
 

Una vita

Post n°578 pubblicato il 30 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Una vita

La tua infanzia,
le tue speranze,
i tuoi amori,
le tue ansie,
le tue gioie
sono tutte lì:
in quel composto
sorriso di morte,
riflesso dal tuo viso.

E l'alba
si confuse al tramonto.

25 gennaio 1970

 
 
 

Al Cardinale di Tournon

Post n°577 pubblicato il 30 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

LII.
Al Cardinale di Tournon

Sacro pastor, che la tua greggia umile,
di caritade acceso e d'Amor pieno,
guidi fuor del mortal camin terreno,
per ricondurla al suo celeste ovile;

se 'l ben' oprar ti rende a Dio simile,
or che raggio divin le scalda il seno,
ricevi o Santo nel tuo pasco ameno
questa tua pecorella errante e vile;

sì che possa ridotta in piagge apriche,
ove nocer non può contraria sorte,
né fiere stelle al nostro danno intente;

poste in oblìo l'acerbe sue fatiche
fuggir le pompe, e disprezzar la morte,
tenendo sempre in Dio ferma la mente.

 

LIII.
Allo stesso

Signor nel cui divino alto valore
tanto si gloria l'una Gallia altera,
e l'altra tutta mesta e afflitta spera
por fin a l'aspro suo grave dolore,
poscia che voi tornando, il suo splendore
torna e fa bella Roma:
ecco la sparsa chioma,
ella v'accoglie lieta, e manda fore,
voci gioconde a asciuga gli occhi molli,
e Tornon grida 'l Tebro e i sette colli.

La pace, la letizia, a la sublime
schiera de le virtù sacre, ch'a noi
spariro al partir vostro, ora con voi
riedono, e fan contesa al tornar prime
le Muse a celebrarvi in versi e in rime;
destano i chiari spirti,
ond'or s'ergano i mirti,
e i lauri spargon l'onorate cime,
e prima de l'usato il mondo infiora,
e l'aria empie d'odor Favonio e Flora.

Fra tanto almo gioir, fra tanta festa,
ch'oggi al vostro tornar si mostra e sente,
anch'io la speme, e la letizia spente
poter nudrir ne l'alma dubbia e mesta,
se mirate, Signor, quel che m'infesta
noioso e aspro duolo
che voi potete solo
ridurmi in porto da crudel tempesta,
e volgendo ver me pietoso il ciglio
trar mia vita di doglia e di periglio.

Canzon, se innanzi a lui per grazia arrivi,
che dee chiuder di Giano il tempio aperto,
benché nulla è 'l mio merto
pregal, che sola non mi lasci in guerra
poi che per lui si spera pace in terra.

Tullia d'Aragona

 
 
 

Fiori d'acanto

Post n°576 pubblicato il 30 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Fiori d'acanto

Perdoneme, ciumaca de sto core,
si la sera, p'er gusto de vedette,
te faccio sta in finestra l'ore e l'ore,
sbattenno Dio sa quanto le brocchette.

Ma uno quanno è ceco da l'amore,
lo sai, Teresa mia, che nun connette;
e a costo de pijàccese un malore,
hai voja a dì! nun je n'mporta un ette.

Cusì so io, Terè. Si nun ce sei,
dico: "Madonna, fatela affaccià!"
E smagno, e me la pìo co te e co Lei.

Ma appena vedo su la finestrella
quel'occhiuccetti tui sbrilluccicà,
te chiamo santa, benedetta, bella.

Giggi Zannazzo

 
 
 

Sei sonetti di Tullia d'Aragona

Post n°575 pubblicato il 29 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XLVI.
Al Alessandro Arrighi

Spirto gentil, s'al giusto voler mio

non è cortese il cielo e amico tanto,

ch'io possa con ragion lodarvi quanto

me fate, e io far voi spero e desio;

dolgomi del mio fato acerbo e rio,
che ciò mi niega, rivolgendo in pianto

il mio già lieto e dilettoso canto,

per cui fan gli occhi miei sì largo rio.

Ma se fortuna mai si mostra amica
a le mie voglie, non dubito ancora
poter cantarvi tal qual mio cor brama,
e far sentir per questa piaggia aprìca
quant'è 'l valor, ch'in voi mio core onora,
piacciavi s'or lo riverisce e ama.

XLVII.
A Lattanzio de' Benucci

Io ch'a ragion tengo me stessa a vile,
né scorgo parte in me che non m'annoi,

bramando tormi a morte e viver poi

ne le carte d'un qualche a voi simile,

cercando vo per questo lieto aprile
d'ingegni mille, non pur uno o doi
suggetti degni de i più alti eroi,
e d'inchiostro al mio tutto dissimile.
Però dovunque avvien, che mai si nome
alteramente alcuno, indi m'ingegno
trar rime, onde s'eterni il nome nostro.
E spero ancor, se 'l mio cangiar di chiome
non rende pigro questo ardito ingegno,
d'Elicona salire al sacro chiostro.
XLVIII.
Ad Antonio Grazzini (Lasca)

lo che fin qui quasi alga ingrata e vile
sprezzava in me così l'intera parte,

come u' di fuor, che tosto invecchia e parte

da noi ben spesso nel più bello aprile,

oggi, Lasca gentil, non pur a vile
non mi tengo (mercè de le tue carte)
ma movo ancor la penna ad onorarte,
fatta in tutto a me stessa dissimile.
E come pianta che suggendo piglia
novo licor da l'umido terreno
manda fuor frutti e fior, benché s'attempi:
tal'io potrei, sì nuovo mi bisbiglia
pensier nel cor di non venir mai meno,
dar forse ancor di me non bassi esempi.
XLIX.
A Nicolò Martelli

Ben fu felice vostro alto destino,
poi che vena vi die' tanto feconda,

che 'l santo Apollo il vostro dir seconda

più ch'ei non fece al suo diletto Lino.

Il coro de le Muse a capo chino
lieto v'onora, e 'l bel crin vi circonda
di vaghi fiori e d'odorata fronda:
perché ragion è ben s'a voi m'inchino.
Il cantar vostro l'anime innamora,
e le fa da se stesse pellegrine,
che celeste virtù può ciò che vuole.
E 'n voi mirando grazie sì divine
chi ha più gentil spirto più v'onora,
altri d'invidia si lamenta e dole.

 

L.
A Simone Porzio

Porzio gentile, a cui l'alma natura
e i sacri studi han posto dentro 'l core
virtù, ch'esser vi fa primo cultore
di lei, cui 'l cieco mondo oggi non cura;
poi che rendete a feconda coltura
sue alpestre piaggie, onde d'eterno onore
semi spargete, e d'immortal valore
cogliete frutti che 'l tempo non fura;
piacciavi, prego, che vostra alta mente
a l'umil pianta mia volga il pensiero,
s'ella forse non n'è del tutto indegna,
che di quel che per me poter non spero,
col favor vostro a la futura gente
di maraviglia ancor si farà degna.
LI.
A Giordano Orsini

Alma gentil, in cui l'eterna mente
per farvi sovra ogni alma, bella e chiara,

pose ogni studio; onde per voi s'impara

la via di gir al ciel sicuramente;

sì come il mondo della più eccellente
cosa di voi non ha, né tanto cara;
e come sola sete e non pur rara
d'ogni virtute ornata interamente;
potess'io dirne appien quanto 'l cor brama,
che d'invidia empirei e di dolore
ogni spirto più saggio e più gentile,
benché vostro valor eterna fama
per se vi acquisti, caro mio signore,
quanto 'l sol gira e Battro abbraccia e Tile.
Tullia d'Aragona
 
 
 

Er bacio

Post n°574 pubblicato il 29 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Er bacio

Nina, nu' je da retta ar confessore,
lui se sbaja, perché, si m'hai baciato.
sta' puro certa che nun hai peccato
e nun ciài perso un cinico d'onore.

Ninè, fatte capace, che l'amore
senza baci è 'n amore sfortunato;
perché er bacio, p'un òmo innammorato
è un gran tesoro, è un barzimo der còre.

Di' ar confessore che nun se confonna
e che, Ninetta bella, io t'ho baciato
perché tu arissomij a 'na madonna.

Te bacerò 'gnisempre in sempiterno,
a costo puro, vedi, l'ho giurato
d'annammene a scallà er coso giù all'inferno

Ernesto Aquilante (1884-1966)
1903

 
 
 

A 'n rompipalle

Post n°573 pubblicato il 29 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

A 'n rompipalle

Te ficchi 'n mezzo come a 'n omelette.
Puro si a tte nun me te sò ccacato,
dato che peggio sei de 'n ciorcinato,
le palle tu le fai sempre più a ffette.

Stavorta è ppropio a tte che stò a pparlà.
Si ssei malato, beh, chissenefrega,
te poi rivorge a li Fratelli Zega,
così sei bell'e ppronto pe' ccrepà.

Poi puro annà da 'no strizzacervelli,
ma credo che nun te servirà mórto:
tu, ne la zucca, ciài solo li capelli.

Mó te l'ho ddetto e nun ce sò' raggioni
che passi 'n'antra vorta da 'sto porto:
t'hai solo da levà da li cojoni.

Valerio Sampieri
28 ottobre 2014

 
 
 

Alcuni detti romani

Post n°572 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Alcuni detti romani

A ciccio de sellero = Cosa capitata al momento giusto: il sellero (sedano) era un ortaggio abbastanza raro alla fine del cinquecento e veniva considerato un'autentica primizia 

Fà come l'antichi = E' un'espressione di cui solitamente si usa solo la prima metà, essendo per esteso: fà come l'antichi, che magnaveno la còccia e buttaveno li fichi. Stando a questo detto, gli antichi erano soliti mangiare la buccia (còccia), gettando via la parte più pregiata del frutto. Viene sempre riferita a chi fa le cose in modo strampalato o controproducente

Morisse de pizzichi = Annnoiarsi a morte

Pijà d'aceto, pijà cicoria = Andare in collera a seguito di osservazioni o rimproveri ritenuti ingiusti

Restà come l'aretino Pietro = L'espressione per esteso è "restà come l'aretino Pietro: co 'na mano davanti e n'antra de dietro", ma in genere, dell'espressione si usa solo la prima metà, essendo il seguito fin troppo noto. Vuole indicare una situazione, in cui il soggetto a cui è riferita si ritrova preso tra due fuochi, o subisce danno in tutti i casi, sia che le cose vadano in un certo modo che nel modo opposto 

Ai tempi de Checchennina (di Checco e Nina) = Come ai tempi in cui si faceva tutto alla buona, senza pericoli nascosti

Annà pe' fratte = Andare verso una situazione pericolosa

Chi magna da solo se strozza = Invito a dividere qualcosa

Dìssene un sacco e 'na sporta = Scambiarsi insulti senza misura

Va cercanno Maria pe' Roma = Vuol dire cercare un ago in un pagliaio, ossia compiere una ricerca inutile e pertanto perdere tempo

Brontolà come na pila de facioli = Lamentarsi di qualcosa in continuazione

Esse er fijo dell'oca bianca = Avere particolari privilegi rispetto a chi non ne ha

Chi cià le corna è l'urtimo a sapello = Chi è cornuto, è sempre l'ultimo a sapere del tradimento

Esse come la sóra Camilla = Il modo di dire per esteso è: èsse come la sóra Camilla, che tutti la vònno e nisuno se la piglia (cioè "essere come la signora Camilla, che tutti vogliono ma che nessuno si prende") Questo motto si basa su un fatto storico: donna Camilla, sorella di Felice Peretti cioè Sisto V, ebbe diversi pretendenti, ma alla fine entrò in convento Di qui l'espressione, che ironizza sulla vicenda, e che per traslato viene usata anche in altri contesti: per esempio, a chi riceve diverse proposte di lavoro ma non viene mai assunto

Esse cornuto e mazziato = Portare le corna ed esserne pure canzonato

Chi te loda in faccia, te dice male de dietro a le spalle = Chi ti loda apertamente ti dice male dietro alle spalle

A quattro cose nun portate fede: sole d’inverno, nuvole d’estate, pianto de donna, carità de frate = Non bisogna mai fidarsi delle cose che non durano

D’una bella scarpa ce resta sempre una bella ciavatta = Anche le belle donne prima o poi invecchiano

Se magna pè campà, no' pe' crepà = Non si può sempre rinunciare alle cose che piacciono

Voja de lavorà sarteme addosso = È il rimprovero per gli oziosi e i nullafacenti, cui segue spesso "e tu pigrizzia nun' m'abbandonà e famme lavorà meno che posso"

Li guadagni de Maria Cazzetta = Maria Cazzetta è un personaggio ipotetico, il cui nome dispregiativo è un evidente segno di scherno: l'espressione viene usata per bollare un affare solo in apparenza vantaggioso, ma che in realtà non lo è affatto

Nun c'è sta trippa pe' gatti = Espressione che equivale a "non c'è niente da dare" Il modo di dire risale ai primi del '900, allorché il sindaco Nathan cancellò dal bilancio del Comune l'acquisto di trippa destinata a sfamare i gatti, utilizzati tenere lontani i topi dal Campidoglio. Ma a fronte degli scarsi risultati del provvedimento, la spesa venne annullata e sul libro del Bilancio Comunale venne scritto: Non c'è trippa per gatti

Quanno er diavolo te lecca, è segno che vò l'anima = Il potere è come il diavolo, quando adula qualcuno vuole qualcosa in cambio

Roma è 'na città devota: 'gni strada un convento, 'gni casa 'na mignotta = Il detto corrisponde al fatto che nella seconda metà del XVI secolo Roma aveva circa 60.000 abitanti. Di essi, circa 20.000 facevano parte del clero e le prostitute censite erano circa 7.000. La ragione di una così alta densità di queste professioniste nella città dei papi stava nel fatto che Roma era piena di celibi, di uomini in attesa di essere avviati alla carriera ecclesiastica: le "donne di piacere" trovavano qui grande mercato e affluivano da ogni parte d'Europa, attirate dal lusso e dal denaro che scorreva copioso in alcuni ambienti della società romana

Annà all'arberi pizzuti - annà a fa' terra pe ceci - annà a ingrossà le cucuzze - stirà le cianche - annàssene all'antri carzoni = Se il romanesco si preoccupa di non menzionare la malattia, figuriamoci quando è l'ora di fare i conti con la commare secca (ovvero la morte): le perifrasi sono ancora più numerose e variopinte. Fra quelle usate ancora oggi c'è "l'andare agli alberi pizzuti" cioè "ai cipressi" (albero notoriamente cimiteriale). Ma anche "l'andare a far terra per i ceci" e/o "a far a concime alle zucche" testimonia come persino di fronte agli eventi più ineluttabili il romano non rinuncia mai ad assumere una posizione distaccata e beffarda. E l'espressione "stirà (cioè distendere) le cianche (gambe)" ne è un ulteriore esempio. Il quinto modo di dire, divenuto abbastanza infrequente, si trova nei testi di Giggi Zanazzo, e probabilmente si riferisce all'uso di vestire la salma col "vestito bbòno", quindi anche con un paio di calzoni che in vita non indossava spesso

E bonanotte ar secchio - avemo chiuso le messe a S. Gregorio = Essere giunti alla fine.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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