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Messaggi di Dicembre 2014

Ar 2015

Post n°938 pubblicato il 31 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Ar 2015

Così 'n antro po' d'anni se son iti,
lascianno appena quarche strascichetto.
Tiro le somme e faccio 'n bilancetto,
potenno dì: "Ce semo ripuliti!".
 
De anni brutti assai n'ho visti tanti,
ma 'r peggio, me sa, è stato 'st'urtim'anno
ch'a ttutti ja pportato 'n gran ber danno,
che tte li trovi tristi e llacrimanti.
 
Nun só si ccambierà ne l'anno nôvo
e si le cose 'n po' ppiù andranno lisce,
armeno da poté comprasse 'n ôvo.
 
A ccontinuà ccosì, e ddaje e ddaje,
'n ber giorno t'aritrovi che ffinisce
che manco pôi magnà più le fusaje!
 
Valerio Sampieri
30 dicembre 2014

 
 
 

Rime inedite del 500 (XL)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XL

[1 Di Nino Nini]

Sonetti di Monsignor di Potentia Nino Nini viterbese.

Se 'l buon celeste seme ch'ora spargo

Con quest'impura mia non degna mano,
Piace al signor che non sia sparso invano,
Con dargli poi quel su' incremento largo,

Quasi da grave, eterno, alto letargo
Destar vedrassi oltra poter umano
L'eletto di Dio stuol, di cieco insano
Fatto sagace e socchiuso più d'Argo.

Vedransi ancor per questa fredda falda
Dell'appennin le voci il ciel ferire
Di gente al sant'oprar disiosa e calda.

Egli che può la speme col desire
Adempia e fondi in la gran pietra salda
Che non curin del ciel l'impeto e l'ire.

[2 Di Nino Nini]

Se d'una pianta esce l'agresto e l'uva,
Il primo acerbo e l'altro poi maturo,
D'una radice escon' ambi e d'un seme,
E, se creder si de' quel che i moderni
Scrivon(o), Pepi, son piante diverse
Del nero, e bianco, come ancor dell'uve
E tanto e l'un, come l'altro, maturo;
Né del lungo la pianta ha simiglianza
Con gli altri duoi, sì come ancor del frutto,
Onde bisogna con miglior ragione
Trovar risposta a quei che del soero
E del Pepone in una medicina
Medesma usano il seme e la radice;
Sì che d'altro che burle fa mestiero
Al nostro amico per scior' questo nodo
Senza mandar' in Grecia ambasciadori.

[3 Di Nino Nini]

Pascete, o pecorelle, i dolci campi
Pria che sugga la rugiada il giorno,
Acque pure e correnti avete attorno,
Perché la dura sete non v'avampi.

Né temete di lupo, che vi accampi,
Se il pastor vostro fa con voi soggiorno,
Ché ben vi guarda e teme danno e scorno;
Che s'egli no, chi fia che più vi scampi?

Dormite pur senza sospetto, o pena,
O ritornate al buon pasto di pria
Che franga il dente un'altra fiata e prema.

Così dicea il pastor, e già s'aprìa
L'ora del giorno e fuggìa l'altra estrema
Et attenta la greggia sua l'udìa.

[4 Di Nino Nini]

Canzone dello stesso.

Sì dilettosa valle, o colle ameno
Non vide forse mai Cipro, né Cinto
Quanto quel ch'io mirai mentre al ciel piacque.
Quivi era più che altrove il ciel sereno,
Quivi il terren più verde e più dipinto;
L'aura più grata e più salubri l'acque,
Onde nel cuor mi nacque
Alto desìo di farvi albergo eterno,
E 'l pie' fermai; ma fu pensier mal saggio,
Ché quel fiorito Maggio
Tosto cangiossi in bisso, orrido verno,
Dove continua pioggia ancor discerno.
Felice pianta in quel medesmo colle
Fu trasportata, e col favor del loco
Di picciol tronco al ciel s'andava alzando
Quando il sole ha più forza e 'l terren bolle.
Chi s'appressava a la dolc'ombra un poco
Ponea la noia e la stanchezza in bando;
Ivi s'udìa cantando
Febo scordato del suo lauro verde
Tesser' d'olmo ghirlande a le sue chiome,
Ed ecco, non so come,
Riman negletta e la vaghezza perde,
E serba appena del suo ceppo il verde.
Fior d'un bosco sacrato e verde sempre
Lasciando il nido ove pur nacque dianzi
Parvoletto leone uscia veloce.
Quell'età par ch'ogni fierezza tempre,
E con questo pensier gli corsi innanzi
Et umano il trovai, più che feroce;
Ma il troppo ardir poi noce,
Perché seco scherzando in un momento
D'ira s'accese, e con turbato aspetto
Squarciommi i panni e 'l petto;
E partissi da me con passo lento
Tal che solo a pensarvi ancor pavento.
D'oro sparso e di gemme alfine scorsi
Purpureo letto, ove dormìa soave
Giovane illustre di ferir già stanco,
Nel cui bel corpo, ove le luci io porsi
Grazia vidi e beltà quant'amor hàve;
Dove ogni stile, ogni pensier vien manco,
Ma sovra l'omer bianco
Volar faville dal mio petto acceso
Nel mirar lui, che 'l mondo accende e sforza
Così, desto per forza,
Via sen' volò quasi d'ingiuria offeso,
Io restar cieco e ne' suoi lacci preso,
Canzon mia, se di questo
Al triste avviso fui mesto a dolente,
Che fia poi che 'l mio danno è già presente?

[5 Di Nino Nini]

Standomi sol co' miei pensieri un giorno
Cose vedea di maraviglia piene,
Che presagio fur' poi d'angoscia e pianto.
Caro armellin di sua bianchezza adorno,
Che pur col pie' facea le piaggie amene,
Vago m'apparve e mi passò d'accanto.
Era leggiadro tanto
Che ciascun' alma nobile e cortese
Bramò d'aver sì bella fiera in mano;
Ma perfido villano
Col fango intorno la rinchiuse e prese
Onde pietate e sdegno il cuor m'accese.
Quasi in quel punto agli occhi miei s'offerse
Dolce, amoroso, candido colombo,
Né tale il carro a la sua dea sostenne
Dal cielo, ove le nubi eran disperse.
Quasi un augel calar vedeasi a piombo
E fender l'aria senza mover penne
Da traverso poi venne
Griffagno augello e di rapina ingordo,
E seco trasse l'innocente e puro
Col fiero artiglio e duro,
Ch'era di furti e d'altre macchie lordo
E sospiro qualor me ne ricordo.

[6 Di Nino Nini]

Sonetti di monsignor Potentia

Ch'aspro dolor vi prema è ben ragione,
Se il vostro danno e il pubblico stimate,
E se quanto vi spinge la pietate,
Di pianto eterno siete alta cagione.

Ma riguardando in chi tutto dispone,
Che ritoglie et in questa e 'n quell'etate
Chiunque egli vuol, ond'è che vi turbate
E divien l'alma qual'è la stagione.

Ché non correte a quel dolce liquore
Che pronto agli altri sovente porgete
Onde salve ne son mille ferute.

Vostra non si può dir quella virtute,
Ch'aita altrui, e 'l vostro gran dolore,
Non lieva, né sanarvi ivi potete.

[7 Di Geremia Guglielmi]

Canzone del Guglielmi.

Benigno amor, che col tuo lume santo
Il tutto allumi e dolcemente reggi,
Priegioti che propizio a me ti mostri,
E dai superni chiostri
Mentre le lodi tue rinnovo e canto
Fa che l'impresa il mio poter pareggi.
Tu che le prime leggi
Di poesia dettasti, oggi a me chiare
Le mostra, e 'l don rivolgi in tuo favore
Acciò che 'l mondo impare
Quanto sei grande e sei divin, o Amore!

[8 Di Cesare Malvicini]

Di Cesare Malvicini.

Per mostrar quanto possa un cuor mortale
Quando per camin dritto al cielo è volto
Colui che a morte con sua morte ha tolto
L'umane gente sì smarrita e frale

Mosse di Catarina esempio tale
Ch'è il mondo tutto in gran stupore involto:
Ne gode il ciel di lei mirando il volto,
Non men qui che lassù fatto immortale.

Di Cristo ella si attese all'aspra vita
Che quant'anni ei portò terrestre soma
Tant'il seguìo pur coi sensi afflitti.

Ei l'alme al cielo, ella i suoi scettri a Roma
Rivolse, e se ei ferito, ella ferita
Si vidde il cor, le mani e i pie' trafitti.

[9 Di Annibale Di Osma]

Di m. Annibal d'Osma.

Il bel raggio, signor, lucente e chiaro
Che il sol delle virtù vostre diffonde,
Cotanto all'alma mia splendore infonde
Che d'ir volando al ciel la strada imparo.

Ecco già già comincia essermi caro,
Assiso all'ombra della sacre fronde
Fra fior diversi e 'l mormorio dell'onde
Far' ingiuria cantando al tempo avaro.

Oh chi fia che mi dette le parole
Pari al pensier, onde la mente è piena,
Mentre al vostro cantar tutta s'accende.

Venga d'Apollo il coro, o, s'egli attende
Per coronarvi il crin, pur, come suole,
Prestatemi il dir voi, l'arte, e la vena.

[10 Di Scipion Da Castro]

Versi sciolti di Scipion da Castro.

Alta cagion, che in un momento desti
Alle cose create ordine e stato,
Stabil motor, fonte dell'esser vero,
Che ti pasci di fuoco e in fuoco alberghi,
Porgi l'orecchio e gira gli occhi insieme
Alle dolenti mie parole estreme.
Voce e lingua son' io degli elementi,
E di quanto è quaggiù sotto la luna,
Io sono, o re del ciel, quella stupenda
Opra della tua man, la qual pur dianzi
Traesti fuor de la confusa massa
Quando in sul carro del tuo amor portato
Era lo spirto tuo sopra gli abbissi
Dell'indigesta mole, or vaga e bella.
Fur' le bellezze mie di così estrema,
Di sì profonda meraviglia all'occhio
Dell'angelica mente, che io talora
Le piacqui al par de' suoi stellanti chiostri,
Perché imagine son di quell'eterne
Idee, che impresse dal tuo raggio han vita
Nel sen dell'increata e prima mente
Per l'altissimo parto a te sol noto.
Ma tra quanto crear giamai ti piacque
Dall'antartico all'Orse nel mio grembo,
Tu sai, padre del ciel, che l'uomo solo
Fo dell'opere tue l'ultimo colmo;
Perché cinto di gloria e d'onor pieno,
Alla sembianza tua lungi da morte
Poco minor degli angeli il formasti
Quasi un signor dell'universo in terra.
Questo fu sol partecipe e consorte
Dell'immortalità fra gli elementi;
A questo sol fu destinato il cielo
(Come spron che sovente il purga e mova)
Il desìo del saper l'eterne cause
Delle cose create, e l'intelletto
Potente a penetrarla, atto ad unirsi
Col su' fattor; e alfin volesti ch'egli
Solo fra quanto scalda e gira il sole
Fusse arbitro dell'opra eccelsa e magna,
Tutto creando a lui, cui per te solo
Il mondo un tempio, egli era un sacerdote
Che delle glorie tue la notte, il giorno
Offrirti il sacrificio sol potea,
Perché sol ti conosce, e sol ti adora.
Oggi è caduto, oggi è caduto, o padre,
Questo gran sacerdote, e fatto servo
Del cieco senso, e del serpente antico;
Oggi nel trasgredir l'alto precetto
Al giusto sdegno, all'ira tua destina
Tutta la massa ne' suoi lombi ascosa
Del seme uman della futura gente.
Questa è la porta, ond'oggi entra nel mondo
Superbamente trionfando morte;
Oggi il peccato al re dell'ombre dona
L'imperio della vita, e nell'inferno
Registra di sua man l'obligo eterno
Dell'immortal morir, che l'uomo ha seco.
Veramente infinita è la sua colpa,
Veramente condegne son le pene,
E giusta veramente è la sentenza.
O autore della vita, mai potrai
Consentir ch'altri ad altro fin rivolga
Questo miracol tuo, quest'opra altera,
Questa sembianza tua, che tanto amasti?
De le tue lodi risonar l'inferno
Non potrà mai; né cosa nel mio seno
Creasti che lodar sappia il tuo nome;
Chi solo il potea far, morte ci ha tolto.
Però sovienmi, alto monarca, come
Tutto quel ch'egli in Dio, è Dio anch'esso,
Né mancar gli si può, né si conviene.
Son dell'essenza tua parti supreme
(Se pur nell'unità si trovan parti).
Con la giustizia, la clemenza insieme,
Queste leggiadre due vaghe sorelle
Fur' sempre teco pria che 'l moto al tempo
Desse principio, e nel formar del mondo
Furno dell'opre tue fide ministre.
Alla giustizia ha sodisfatto a pieno
Oggi conforme al temerario fallo
E 'n giusta parte la sentenzia cadde.
L'altra dormir non può perpetuamente,
O fonte di pietà, nel vostro petto;
Ma sarà forza alfin ch'ella si desti,
Non perché io sappia dir come, né quando
Ch'io non entro per me senz'altra scorta;
Né quegli alati tuoi corrieri ardenti
Né l'infinito mar, ne gli alti abissi
Del tuo profondo incognito consiglio;
Ma sol ti prego, mio signore e padre,
Ch'affretti il tempo, e dal tuo grembo tosto
Si vegga uscir quel desïato giorno
Che la clemenza abbia l'impero in mano.
Si vedran poi delle divine grazie
Tutti i fonti versar, tutte le vene,
Tutti i tesori tuoi partir coll'uomo,
Perché siccome nel formarlo hai vinto
Tutte l'altre stupende meraviglie
Nel riformarlo vincerai te stesso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXIX-3)

Post n°936 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[27 Di Latino Latini]

Alla signora Marchesa di Mortara quando la rividdi perche' già quindici anni non l'avevo veduta.

La suprema beltà che in voi fioriva
Nella più fresca e più tenera etade,
Congiunta con mirabile onestade
Veggio ora in voi più che mai verde e viva.
 
Mercè del gran splendor che dentro arriva
Grazia, onestà, bellezza e majestade
E alluma l'alma, onde per ampie strade
Nell'amata sua spoglia esce e deriva.
 
Ben si può dir che a sì gradita e bella
Virtù che a pochi il ciel largo destina
Non si dovea men onorato albergo.
 
Ond'io per voi, come mia fida stella,
Mirando la sembianza alta e divina
Ogni mia speme a fin più felice ergo.

[28 Di Latino Latini]

Né fra' Greci Platon seppe mai tanto,
Né di Roma l'oracol Cicerone,
Né fra gl'Ebrei quel saggio Salomone
Che lodò più che 'l riso, il mesto pianto,
 
Quanto sapete voi, prudente e santo
Riformatore della religione,
Che d'esser tale con giusta ragione
Potete sovra ognun sol darvi il vanto.
 
Poscia che contro il precetto divino
Che n'astringe ad amar come fratelli
L'un l'altro, e figli dell'eterno padre
 
Ardite d'insegnarci che 'l Latino
Cosa commune aver non de' con quelli
A cui la Duera, o la Garonna è madre.

[29 Di Latino Latini]

Chi sarà mai, signor, che ponga mano
All'osservanza di tua santa legge,
Che per salute dell'amata gregge
Desti, e per fren dell'appetito umano,
 
Se 'l Tosco, Umbro e Latino, e se 'l Romano,
Che 'l vero successor di Pietro regge,
E con pietosa verga ognor corregge
Per barbaro terrà 'l Gallo e l'Ispano?
 
Scancellasti col sangue tuo, signore,
L'orrendo scritto, ch'all'empio tiranno
Ne fe' soggetti dal peccar d'Adamo.
 
A fin che l'un con l'altro, per amore
Così stessem' uniti col dolce amo
Come in un corpo molte membra stanno.

[30 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, scendesti in terra
Per farne tutti eredi del tuo regno,
Vincendo col morir su l'aspro legno
L'empio tiranno nostro in giusta guerra,
 
E col dare a san Pietro, ond'apre e serra
Del ciel la porta non per vano segno;
Ma per sicuro indubitato pegno
Le sante chiavi con che mai non erra.
 
Se sarà mai vero che al Latino
Lecito sia per barbaro e nemico
Tener Gallo, Tedesco, Inglese, o Ispano,
 
E che contro il precetto tuo divino
Non faccia chi non abbia per amico
Come sé stesso ciaschedun cristiano.

[31 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, squarciasti il velo
Del già famoso tempio con tua morte,
E indarno dissipasti l'alta e forte
Maceria per aprirne il passo al cielo.
 
E 'ndarno acceso d'amoroso zelo
Patisti in questa vita ogn'altra sorte,
Seminando per vie lunghe e distorte
La nuova legge del santo evangelo;
 
Poiché nato è Dottor, che con altiero
Ciglio c'insegni esser vano il seguire
L'esempio scritto del Sammaritano.
 
Anzi di proibirci ha preso ardire
L'amico conversar con uomo 'Spano,
Ch'ei per barbaro tiene e per straniero.

[32 Di Latino Latini]

Da che 'l grande Appennin le genti strane
Scurò da questa chiara e bella parte,
Quelle doti ch'agli altri il ciel comparte
Tutte in lei giunse, compite e sovrane.
 
Vinser il mondo già l'armi Romane
Ond'illustri lasciar' mille e più carte;
Successe poi alla città di Marte
Quella, che fa stupir le menti umane.
 
Chiudesi il mare, ove 'l pie' pone e spande
Che la riga, circonda e la difende,
E reverente a lei senz'onda giace.
 
Quivi è quel secol sempre, che le ghiande
Vider già prima, et hor Venezia rende,
Cui senza fin die' Giove imperio e pace.

[33 Di Latino Latini]

La più salda colonna, e la maggiore,
Che sostenesse l'edificio intero,
Che fondò Cristo e consegnollo a Piero,
È rotta, e seco è spento il bel valore.
 
Piangene Roma, e mostrarà dolore
Fin ch'in mar corra il Tebro, e che l'altèro
Tarpèo si nomi, o mentre il santo impero
Conservarà da Cristo il preso onore.
 
Mille e mille anni volgeransi pieni
Pria che di morte si ristauri tanto
Danno, che col crudel colpo n'ha fatto.
 
Degno fu delle chiavi e del gran manto,
Già il ciel non volle, invido ai nostri beni,
Hor le nemiche parche se l'han ratto.

[34 Di Latino Latini]

Quando mi volto tutto in quella parte
Dove l'immensa tua bontà riluce
Mercè del raggio dell'eterna luce
Ch'agli occhi ciechi tua bontà comparte,
 
S'infiamma sì di lei la fragil parte
Ch'al lungo errar mi fu ministra e duce,
Che d'ardenti sospir, ch'ognor produce,
E di lagrime al duol faccio ampia parte.
 
Poscia mirando indietro il gran periglio,
A cui lontan da te fui sì vicino
Raddoppio il pianto e con temenza grido:
 
Pietoso padre, che all'unico figlio
Per me non perdonasti, e 'n cui mi fido,
Volgi i miei passi al tuo dritto camino.

[35 Di Latino Latini]

Che fai, alma, che pensi? Avrà mai tregua
L'avida sete delle furtive acque,
Che già gran tempo in sul fiorir si nacque,
O fia ch'all'ultim'ora ancor si segua?
 
Non vedi che per essa si dilegua
Ogni onesto pensier, che pria ti piacque,
Quando agli orecchi del tuo cuor non tacque
Quella ch'a cori angelici n'adegua?
 
Che fia d'onde di te gravoso pondo
Poscia che per saziar l'ingorda sete
Assai fiume non t'è stagno, o palude?
 
Porrai forte la bocca al mar profondo,
Ove amo mai non penetrò, né rete,
E che la terra in te raccoglie e chiude?

[36 Di Latino Latini]

Quando ai bei raggi dell'eterno lume
Alzerai gli occhi, alma smarrita, e quando
Del lungo error accorta, lacrimando
Sarai breve ruscel, non ch'ampio fiume?
 
E quando dal tiranno empio costume
Il pie' veloce indietro ritirando
Darai pur finalmente un giorno bando
Al pigro sonno, all'ozïose piume?
 
Destati, neghittosa, anzi che l'ombra
Della perpetua notte agli occhi vete
Il mai più riveder l'amata luce;
 
Ch'aver non può la cieca infelice ombra
Dopo l'eterno oblìo del freddo Lete
Per addietro tornar ministra, o duce.

[37 Di Latino Latini]

L'ardita lupa, che da' crudi artigli
Dell'aquila rapace ha scosso il dorso,
E rotto 'l duro e insopportabil morso
Che la tenea fra tanti perigli.
 
Tutta sanguigna, e lieta ai cari figli
Dicea rivolta: hor'è pur tronco il corso
Delle miserie nostre, or' che soccorso
Ne vien' sì fido dagli aurati gigli.
 
Guardate come dagli acuti et empi
Morsi ne tolgon dell'augel' nemico
Tante ferite nel mio corpo impresse.
 
Ergete dunque a questi altari e tempi,
Ove scritto si legga: al grande Enrico
Liberator delle cittadi oppresse.

[38 Di Latino Latini]

Ne la venuta di Monsignor di Potentia a monsignor Tommaso Sperandio da Fano.

Prendiam dell'odorate e pure fronde
Per far con riverenza al sacro altare
Solenne festa; poiché grazie rare
L'alto signor ai nostri voti infonde.
 
Falde di vaghi fior d'ambe le sponde
Pendano, e sovra prezïose e care
Spoglie, che dotte mani, e non avare,
Abbian tessuto e d'arte, e d'or feconde.
 
Quivi stendendo insieme al ciel le palme
Cantiam lode al fattor, ch'oggi ne renda
In patria salvo il nostro car' signore.
 
E tu dalla cui man benigna pende
Ogni ben, longo tempo in tuo favore
Lo serba a glorïose, eterne palme.

[39 Di Latino Latini]


A monsignor Maffei per monsignor mio. Risposta.

Un Semiviterbese (un) Arcipreta
Nella guardia degli orti molto dotto,
Monsignor mio, ha tutta Roma indotto
A tenerlo per vero e gran profeta. 
Ei scrisse già, che la carota acqueta
Dolor di corpo senza mosto cotto
Prendendone unce sedici, o diciotto
Per dietro pasto, a guisa di cupetta. 
E che da questa gli animi egri e stanchi
Dallo spettar riceve(v)a più sostanza
Che d'infinito numer(o) di baiocchi.
Né fu mai vero che Germania, o Franza
Ne mandasse a Tiberio, anzi balocchi
Son stati questi chiosator sì franchi.
Se non avete granchi
Pigliatene ad ogn'or, ché in questa vita
Fa i sani ella gioir, gl' infermi aìta.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (3-10)

Post n°935 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO X

Cosí passammo in fine a l’altro giorno,
cercando la contrada e dimandando
s’alcuna novitá v’era d’intorno. 

Noi eravamo sotto un poggio, quando 
Solin mi prese e disse: "Qui t’arresta". 
E io fermai i piedi al suo comando. 
Poi sopragiunse: "Leva su la testa 
e nota ciò ch’io ti disegno e dico, 
perché da molti autor si manifesta. 
Tu dèi saper che in fine al tempo antico 
quella cittá, che vedi in su la costa, 
fu fatta un poco poi che fosse Pico. 
Apresso Turno, a cui caro costa 
Lavina e di Pallante la cintura, 
la tenne e governò tutta a sua posta. 
Costui l’accrebbe di cerchio e di mura 
e del suo nome Turnia la chiama, 
che poi il nome piú tempo li dura". 
Cosí parlando, la mia cara brama 
mi disse: "Vienne"; e trassemi in vèr Chiusi, 
come andava la via di lama in lama. 
Quivi son volti pallidi e confusi, 
perché l’aire e le Chiane li nemica, 
sí che li fa idropichi e rinfusi. 
Questa cittade, per quel che si dica, 
fu molto bella e di ricchezza piena; 
in fin che venne Gian si crede antica. 
Qui governava il suo regno Porsena, 
quando cacciato fu Tarquin Superbo, 
che con lui seco a oste a Roma mena. 
Di qui mosse colui, che, col suo verbo 
e poi con l’argomento del buon vino, 
Brenno a Roma guidò fiero e acerbo. 
Molto è ben conosciuto quel cammino,
bontá del vertudioso e santo anello 35 
ch’ a conservar la vista è tanto fino. 
Carcar passammo e Rodo, un fiumicello, 
attraversammo per veder Perugia 
che, com’è in monte, ha il sito buono e bello. 
Persus, che quivi sbandito s’indugia 40 
per li Romani dopo molta guerra, 
la nominò, s’alcun autor non bugia. 
Lo suo contado un ricco lago serra, 
lo quale è sí fornito di buon pesce, 
ch’assai ne manda fuor de la sua terra. 45 
Per fiume alcuno che v’entri non cresce; 
l’acqua v’è chiara come di fontana, 
e non si vede ancora donde ella esce. 
La cittá d’Orbivieto è alta e strana; 
questa da’ Roman vecchi il nome prese, 50 
ch’ andavan lá perché l’aire v’è sana. 
E poi che di lassú per noi si scese, 
vedemmo Toscanella, ch’ è antica 
quanto alcun’altra di questo paese. 
Seguita or che di Viterbo dica, 55 
che nel principio Vegezia fu detta 
e fu in fin ch’ a Roma fu nemica. 
Ma, vinta, poi a li Roman diletta 
tanto per le buone acque e dolce sito, 
che ’n Vita Erbo lo nome tragetta. 60 
Io nol credea, perch’io l’avessi udito, 
senza provar, che ’l Bulicame fosse 
acceso d’un bollor tanto infinito. 
Ma gittato un monton dentro, si cosse 
in men che l’uomo andasse un quarto miglio, 65 
ch’altro non ne vedea che propio l'osse. 
Un bagno v’ha, che passa ogni consiglio, 
contra ’l mal de la pietra, però ch’esso 
la rompe e trita come gran di miglio. 
Dal tus a Tuscia fu il nome messo, 70 
perché con quel gli antichi, al tempo casso, 
sacrificio facean divoto e spesso. 
Qui lascio la Toscana e ’l Tever passo 
per trovare il Ducato di Spoleti 
con la mia guida, che da me non lasso. 
Vidi Todi, Foligno, Ascesi e Rieti, 
Narni e Terni, e il lago cader bello, 
che tien la Leonessa co’ suoi geti. 
E vidi a Norcia ancora un fiumicello: 
questo sette anni sotto terra giace 80 
e sette va di sopra grosso e bello. 
Il ponte di Spoleti ancor mi piace. 
Qui mi disse Solino: "Omai ben puoi 
a le confin d’Italia poner pace". 
E io a lui: "De’ termini suoi 85 
e del giro e del mezzo e la lunghezza 
udir vorrei, com’era ne’ dí tuoi, 
e chi la tenne in prima giovinezza 
e s’altra novitá a dir vi sai, 
ch’io ne tocchi, e di ogni sua bellezza". 90 
Ed ello a me: "Tu m’hai parlato assai; 
ma, perché men ti noi la lunga via,
dirò sí come giá la terminai".
E ’n questo modo incominciò via via.
 
 
 

I primi bolognesi...(conclusione)

Post n°934 pubblicato il 29 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

CONCLUSIONE

Avendo recato le notizie dei nove bolognesi che dettarono volgari poesie nel primo secolo dell'italiana favella e nel principio dell'altro, non abbiamo inteso di far parola de'principali poeti della Penisola, ma d'antichi rimatori che recarono, e non indarno! la loro pietra per innalzar d'edificio dell'italiana letteratura: di quella letteratura che andava già per le bocche dei dotti ma non era ancora in iscritto raccolta, e che aveva mestieri d'iniziatori per ispandersi fra le genti e potersi rendere universale. Tali iniziatori furono i Siciliani, i Romagnoli e i Bolognesi, cui tennero dietro i Toscani, ai quali toccò e restò il vanto della più polita e più gentile favella. I quali tutti iniziatori della bella lingua armoniosissima, che si fece poi universale per l'invenzione della stampa, non debbono andare dimenticati dai posteri, ma debbono invece esser tenuti in onore. E se d'onore sono degni i padri e gli ampliatori delle buone ed utili discipline, assai più lo debbon essere coloro che al merito scientifico e letterario aggiunsero amor di patria e quell'esemplare emulazione che tanto giova a chi discende con altri ed altri nella medesima palestra. Il perchè ne gode l'animo pensando alla concordia d'affetto che regnava tra i padri della nostra lingua da val di Po all'estremo lembo della Sicilia, con vantaggio e lode comune; mentre si stringe il cuore alla vista di più recenti letterati, che postergata ogni amicizia ed ogni scambievolezza di consiglio, si mostrati fra loro rabbuffati ed iracondi; talchè non paiono usciti dalle scuole dell'Accademia, ma dal sangue e dalle coltella dell'Anfiteatro. Non potrà dunque (conchiuderemo col Perticari) dirsi perfetto in ogni sua parie chi pasce la mente di qualche dottrina, -se ad un tempo non nutre l'animo di virtù, e non caccia fuori di sè l'ira, l'invidia, la vile ambizione, il dispetto è l'odio dell'altrui fama: affezioni tutte che non si accordano giammai con chi aspira all'onesto vinto di essere sapiente.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXIX-2)

Post n°933 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[14 Di Latino Latini]

All'illustrissimo Cardinal Carafa.

A voi, che fate in villa il carnevale
Lontan dal volgo, e sempre ruminate
Qualche sacro concetto, utile e pio,
Non devrà talor forse esser ingrato

Il legger per trastullo onesto e breve
Quel ch'or con questa vi manda Latino,
Servidor vecchio, che tanto a voi deve,
Quanto a niun altro del medesmo grado.

Son ben rozze le cose, e mal condìte
Ma, se non erro, recaran piacere
Per la varia mistura, e forma nuova,

Per la facil maniera, e chiara luce
Col modesto ricordo, e finalmente
Per venir da chi v'ama e riverisce.

[15 Di Latino Latini]

All'illustrissimo Cardinal Sirleto.

Lo star nel letto con dolor di testa
Ben grave spesse volte, e 'l non potere
Usar degli occhi l'opra per vedere
Fan'altro che 'l pensar sol non mi resta.

E perché al vecchio è cosa assai molesta
La vigilia notturna, e 'l non avere
Con che egli ingannar possa il dispiacere
Che sente allor la mente oziosa e desta.

Però per mitigar tal noia io soglio,
Condurmi in verdi prati col pensiero
Carpendo or questo, or quel più vago fiore.

E se ben d'essi frutto non ricoglio,
Che duri vivo appena un giorno intero,
pascomi almen per quel tempo d'odore.

[16 Di Latino Latini]

Quella somma bontà, che senza fine
Di Dio nel ricco grembo si riposa,
Poiché sempre non fassi al mondo ascosa
E per far l'opre eccelse e pellegrine

Sparse il raggio che pria ne le divine
Menti riluce, quinci alma e gioiosa
L'anima rende, e fa ch'ogni altra cosa
Per tal mezzo al ben esser(e) s'avvicine.

Questa il numer produce e l'armonia
Ne' suoni e nei color beltade e grazia,
Nelle forme vaghezza e leggiadria.

Amor fa poi che l'alma unqua non sazia
Questa varia bellezza ama, e desia
E di tal dono il donator ringrazia.

[17 Di Latino Latini]

L'uom che creato al suo fattor simile
Fu prima intiero, e di due lumi nato,
Potea viver felice in tale stato
E vivendo godere eterno Aprile.

Ma perché seguitar volse lo stile
Consiglio, ei stesso fu cagion ch'irato
Giove il divise, e nudo e disarmato
Da sé cacciollo in parte oscura e vile.

Con sì misera vita e oscura sorte
In eterno perian l'umane squadre,
Senza speme giamai di lieta vista.

Amor l'ira placò del sommo padre,
Onde aperte del ciel furon le porte
E l'uomo il mezzo suo cerca e racquista.

[18 Di Latino Latini]

Chi non sa come l'alma oscura e informe
Al suo fattor rivolta
Dell'eterno splendor tosto si accenda,
E come accesa torni un'altra volta
Al sole, onde maggior luce riprenda.
Non sa come amor nasca,
E men come si pasca
E viva, e cresca, e venga al fin perfetto
Spirto immortal sopra l'uman affetto.
S'eterna è la bellezza, eterna l'alma,
Che quell'ama e desìa
Dunque eterno è l'amor di Vener nato,
E se doppio è lo stato
Di questa, doppio amor convien che sia;
L'uno celeste, e invia
La mente alla beltà vera, e sovrana;
L'altro volgare, e segue un'ombra vana.

[19 Di Latino Latini]

Degli appetiti suoi la briglia in mano
Tener de' sempre l'uom saggio e prudente
Col fissar l'occhio al segno, e colla mente
Preveder gli accidenti di lontano.

Chiudendo il passo ad ogni pensier vano,
Col vedersi d'intorno ognor presente
Quell'eterno motor, che vede e sente
Quanto asconde in secreto il cor umano.

Di qui nasce il timor, ch'apre la via
A quella sapienza che non erra,
E quanto val ciascuna cosa estima.

Ben confess'io che sempre raso in terra
Stat'è chi asceso a tanto grado sia,
Senza ottener da Dio tal grazia prima.

[20 Di Latino Latini]

Chiare, fresche e dolci acque, che 'n trent'anni
Di mia più verde età mai non avete
Spenta in me dramma dell'ardente sete
Anzi nodrita ognor con frode e inganni.

Or che 'l benigno mio signore i vanni
Mi dona da volar sopra la rete
Delle false lusinghe con che avete
Procuratomi ognor vergogna e danno,

Fuggo da voi lontan, correndo all'acque
Del vivo, eterno fonte, a cui m'invita
Il buon pastor, ch'a mia salute attende.

Per ber di quelle, dell'agnel che nacque
Al mondo sol per darne eterna vita
Che dalla morte sua deriva e pende.

[21 Di Latino Latini]

Signor, cui negra e lagrimosa vesta
Cuopre gli omeri e 'l petto, e doglia al cuore,
Perché di questa vita uscita è fuore
La bella e cara vostra sposa onesta?

Degno è l'abito vostro, e degna questa
Voglia d'affetto piena e di dolore,
E degno l'alto suo funebre onore,
E la memoria in noi, che di lei resta;

Ma degnissimo è ancor che gli occhi vostri
Si volghino a mirar qual vi prepara
Di ciò che Dio ne sembra ampio ristoro.

E di beltà vedrete, e di tesoro,
E di gran senno adorna alma sì rara,
Che faran noi felici e i tempi nostri.

[22 Di Latino Latini]

Al signor Giovanni Battista Spiriti.

Se io potessi con lettere del carco,
Che vossignoria sopporta in parte
Allegerirla, farei che di carte
E di miei scritti ognun venisse carco.

Ma perché siate del scriver sì parco;
Poiché con questo mezzo e con quest'arte
Il duol che sempre v'ange vi comparte,
Con me che volontier piglio l'incarco;

Deh! se del vostro ben punto vi cale,
Date principio ad onorata impresa
Obbliando il mal e la passata noia.

Ché in questa vita misera e mortale
Ogni grave tormento, et ogni offesa
L'alma virtute cangia in dolce gioja.

[23 Di Latino Latini]

S'Ippocrate e Galeno avesser letto,
O inteso quanto Prospero del Mastro,
Harian senza sciroppo, onzion, o empiastro
Fatto gl'infermi sani uscir del letto.

Né assunto in tal pregio unqua l'Eletto
Reobarbaro sarìa, né Zoroastro
Attribuito harebbe a maligno astro
Morte d'alcun; ma a medico imperfetto.

L'umor che pecca, le postème e i mali
Tutti che spesso dar soglion la morte
Purga pel naso Prosper con grand'arte.

Col nodrir sempre scabbia in quella parte
Gli uomin condotti a loro estrema sorte
Fa sani in fatto e poi quasi immortali.

[24 Di Latino Latini]

Per l'ambizione.

O di vane speranze e d'error carca,
Ornata d'umiltate altiera e finta
Di color mille in aspetto dipinta,
D'ogni inganno fontana e di frode arca.

Quando fia che di te libera e scarca
Da bella gloria, e vero onor sospinta
L'alma mia s'erga e di vergogna tinta
A destra l'onda solchi in fida barca?

Tu che per me, signor, l'eterno padre
Col tuo sangue placasti, e 'l scritto orrendo
Scancellasti di man dell'oste tolto,

Soccorri al servo tuo, che a te piangendo
Chiede mercé per la tua cara madre,
Sì che al ciel torni d'esti lacci sciolto.

[25 Di Latino Latini]

Adi' 20 novembre giorno anniversario della creazion del mio Cardinale.

Già non più verdi fronde, o vaghi fiori
Spargete allegro intorno al santo altare,
Spirti gentil, a cui convien lodare
Oggi largo dator di sacri onori.

Ma in lor vece e d'incenso, e grati odori
E di pregiate spoglie, ornate e rare
Offerite al Signor vittime care
De' vostri umil, devoti, ardenti cuori.

Poi con certa speranza e ferma fede
A viva forza di caldi sospiri
Fate salir al ciel queste parole:

Signor, che l'universo reggi e giri
Per illustrarne d'un più chiaro sole,
Ergi il tuo servo all'alta e sacra sede.

[26 Di Latino Latini]

Per il cardinal Cornaro fatto Legato.

Dall'antica, onorata e nobil pianta
Che già molt'anni dal caldo, e dal gelo
In terra ne difese, et ora in cielo
Si sta fra l'altre e più gradita e santa,

Nascer l'arbor novella, ch'oggi ammanta
L'amata greggia sua, cui tanto zelo
Mostrasti già mentr'il corporeo velo
Ti cinse ch'ella ancor sen' gloria e vanta.

Onde puoi ben la sua populea fronda
Non senza invidia dell'altero Giove
Lasciar per questa, e girtene superbo.

Ché di pregiati frutti essa feconda
di Minerva e di Febo a imprese nuove,
E glorïose inalzerà Viterbo.

 
 
 

Graziolo Bambaglioli

Post n°932 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Graziolo Bambaglioli o Bambagiuoli

Dei nove bolognesi che dettarono versi italiani e prima dell'Alighieri e nel tempo in cui questi sorgeva ad ecclissare i passati ed i presenti poeti, il Bambaglioli fu il più ornato e il meno antico; sicchè l'insigne fiorentino, ove l'avesse conosciuto com'ebbe il Guinicelli, il Gbisilieri, Fabruzzo ed Onesto, avrebbe fatto per avventura le maggiori lodi di lui, anzi le massime: e, se a Guido Guinicelli diede il vanto per aver usato rime d'amor dolci e leggiadre, a Graziolo l'avrebbe consentito per avere scritto di filosofia e di morale in nobili forme e con più nobili concetti.

Questo Bonagrazia o Graziolo di Bambagliolo Bambaglioli, uomo valente nelle cose giudiziarie e ne' poetici numeri, veniva dichiarato notaio dell'anno 1311, ed in sull'entrare del 1324 era del novero degli Anziani in Bologna sua patria; dal che potrebbe inferirsi che avesse già tocchi i quarantanni, se anziani e priori ne' reggimenti a Comune rispondevano ai senatori d'oggidì nei governi costituzionali.

Volgeva l'anno 1325, e il nostro Bambaglioli condusse in moglie Giovanna di Lorenzo Bonacati, che il fece padre di un fdiiciulletto, cui pose nome Giovanni. Dopo questo tempo oltre il titolo di Notaio ebbe pur quello di cancelliere del Comune di Bologna, officio che non assentivasi fuorchè a persone di condizione civile e fornite di buone lettere. E fu per certo esso Graziolo dotto ed erudito nelle lettere latine e volgari, e profondo espositore della morale filosofia, come fanno fede i dettati che d'esso ancora ne rimangono.

Egli fu Guelfo: e siccome la parte sua ebbe la peggio in Bologna nel 1334; così venne sbandito dalla patria con tutti gli altri di sua famiglia dai 10 anni ai 60, e trovasi scritto fra coloro che diedero sigurtà e promessa di starsi a confine. Se morisse in Bologna o fuori, e di qual anno, non è ben noto, sendochè dopo la cacciata dalla patria non si trova più memoria di lui. Da ciò si deduce comunemente ch'egli morisse esule; e siamo certi che del 13'l3 non era più, perchè in questo tempo il figliuol suo dimandava un curatore che lo reggesse.

Scrisse Graziolo un Trattato delle Virtù Morali, diviso in cento Rubriche, il quale contiene sentenze gravi, attinte alle fonti della Filosofia e della Teologia, ed è esposto in istrofe di vario metro: in che venne forse imitato da Francesco Barberilli o da Barberino ne' suoi Documenti d'Amore. Ornò Graziolo il Trattato delle Virtù con acconci Commentari in lingua latina, riboccanti d'erudizione sacra e profana, e lo dedicò a Bertrando del Balzo cognato di Roberto re di Napoli e capitano di guerra dei Fiorentini. Pare che l'opera del Barnbagliuoli, o Bambagiuoli, passasse dalle mani di Bertrando a quelle di Roberto, il quale essendo amatore delle buone lettere, ne fece trar copia, o la trasse egli stesso dall'originale: onde poi l'abbaglio di Federico Ubaldini, che pubblicava quel Trattato come scrittura di re Roberto. Ma il Crescimbeni rivendicò l'onore di quel dettato a Graziolo da Bologna, mettendo innanzi irrefragabili prove, onde risulta che il Bambagliuoli è il vero autore di quello scritto, e che re Roberto amò le lettere e i letterati ma non ebbe fregio di poetica facoltà. I Commentari latini del Cancelliere Graziolo furono tradotti in volgare favella, probabilmente da un toscano, e trovansi e leggonsi a Firenze nella Riccardiana. In un manuscrilto della Barberina di Roma è fatto cenno d'un Codice del Barnbagtioli, ch'esser doveva in Bologna nella Libreria degli Agostiniani di s. Giacomo; il quale però non vi si trova. Bensì nella Laurenziana di Firenze leggonsi manuscritti i metri italiani dell'erudito bolognese, cioè il Trattato delle Virtù Morali; che incomincia con questo verso:

Amor che movi il del con tua virtute,

e finisce con questi altri:

Opra novella, poich'hai dimostrato
I vizi e le virtù d'umana vita,
Consiglia che ciascun anzi l'uscita
Prodeggia bene a suo eterno stato:
Poi venga lode, grazia e riverenza
All'infinita- e superna eccellenza,
La quale in sua pietade
Ti ha spirato per la veritade.

La miglior edizione del Trattato Morale del Bambaglioli, è la moderna pubblicata in Modena nel 1821 con somma accuratezza dal benemerito e laborioso monsignor Celestino Cavedoni, fdologo di multiforme erudizione, archeologo di profondissima dottrina. Da tale edizione pertanto copieremo qui alcune Rubriche, le quali varranno a render prova del maschio e sobrio poetar di Graziolo, e del suo modo sentenzioso.


DELLA MODERNA VILTÀ DEL MONDO.

O Cato, o Scipione, o buon Traiano,
O gran Giustiniano,
Or si conosce il vostro alto valore
Ch'è vostro eterno onore;
Ma i miseri mortai del cieco mondo
Non veggono che al fondo:
Leggier diletto e vii voglia li mena,
Di che conviene usar gravosa pena.

DELLA NOBILTÀ.

Non dà ricchezza antica nobiltade
Né sangue; ma virtù fa Tuoni gentile,
E trae di loco vile
L'uomo, ch'alto si fa per sua bontade.

DELLA CARITÀ DELLA PATRIA.

Le cose basse e di poca potenza
Amor le fa possenti, Amor le esalta.
Quanto il barone ha dignità più alta,
Senza verace amor più basso scende,
Perchè senza unità
Regno diviso mai non si difende:
O nobil Carità,
Sol di ragione amica,
Virtute ed onestà sol ti nutrica.

DELLE PARTI DE' GHIBELLINI E DE' GUELFI

Non s'attien fede nè a Comun nè a Parte,
Chè Guelfo e Ghibellino
Veggio andar pellegrino . .'
E dal Principe suo esser diserto.
Misera Italia! tu l'hai bene esperto;
Chè in te non è latino
Che non strugga il vicino,
Quando per forza e quando per mal'arte.

OPERAZIONI DELLA VERA AMISTÀ

Uomini singolar, città, comuni
E principi e baroni
Amor al ben comun dispone e liga;
Onde cessa la briga
E stanno aperti i cammini e le strade.
Per te, buona Araistade,
Il mondo ha pace e 'l ciel ha venustate.

REGGIMENTO VIRTUOSO DELLA FAMIGLIA.

Tenga il signor famiglia di bontade.
Accorta d'onestade,
E sia ciascuno al suo fine ordinato.
E s'alcun fosse folle o vero ingrato
Nol tardi far lontano,
Perchè ne guasta mille un non ben sano.

EFFETTI DELL'ELOQUENZA.

Del bel parlar s'acquista eccelso onore.
Ed alto frutto nasce
Che con diletto l'uom consola e pasce;
E tant'è dilettoso il suo valere,
Che ciascun tragge al suo dolce piacere.

LA VANITÀ NON ADORNA L'UOMO.

In vanità non è gentil valore,
Nè adorna sella fa caval migliore,
Né fren dorato toglie il suo difetto:
Così non fa valer pomposo aspetto
Uomo che si diletta in forma bella,
Però che ciò che luce non è stella;
E sotto fregi in vestimento vano
Giace il cuor vago da virtù lontano.

VUOLSI ESSERE TEMPERATO.
Non si convien furore
Nè a pover nè a signore.
Lo saggio marinar ad un sol segno
Sa governar suo legno
In tempo oscuro ed in serena luce,
Perchè virtù e ordine il conduce.

TEMPERANZA.

O temperanza, donna dell'onore!
Tu reggi sempre di ragione il freno,
Tu tieni il mezzo ch'è tra 'I più e 'l meno,
Però si trova l'uom con più valore,
Il qual più t'ama; e chi segue il furore
E a disordinato esser s'accosta,
O quanto caro costa!
Ch'ogni nemico di cotal virtude
Con doglia e con sospir sua vita chiude.

SUPERBIA.

O mente folle del superbo altero Ch'al cielo ed alla terra è odioso!
Ciascun superbo si tien valoroso,
Tanto soperchio ama la sua essenza,
Che tien ferma credenza
Di mettersi sicuro ad ogni impresa;
Ond'egli ha spesso morte e grave offesa.

INVIDIA.

O falsa Invidia, inimica di pace,
Trista del ben altrui, che non ti nuoce!
Tu porti dentro quell'ardente face
Clie t'arde il petto, ed altrui metti in croce.

AVARIZIA.

O Avarizia, inimica di Dio,
Tu hai sì strutto il mondo e fatto rio,
Ch'a mal tórre e tener sol hai rispetto.
Ciò mostra 'l tuo effetto;
Chè per cupidità d'esser signore
O d'acquistare onore
Città, castello o terra,
L'un strugge l'altro, d'onde nasce guerra,
La qual danna e diserta ogni valore.

Di simile tempra è l'intero libro del Bambaglioli, il quale seppe giungere con rara abilità l'ornamento del metro alla virtù della filosofia, e render comuni assai precetti, che tornano utili all'umana dignità ed alla vita civile. La lingua di lui è ancor più nobile ed aulica (come la disse l'Alighieri) di quella che venne usata dallo stesso Guinicelli; e ciò ne mostra il gran progresso che fece in Bologna l'italico idioma nel volgere di sessantanni, quanti appunto ne passarono dalla cacciata di Guido a quella di Graziolo, dalle male vicende dei Ghibellini a quelle dei Guelfi. E Guelfo abbiadi detto essere stato il Bambaglioli; anzi soggiungiamo come fra'Guelfi andasse egli segnalato, perocchè sappiamo che i principali della sua Parte con lui conferivano e a lui dedicavano i loro scritti politici. Infatti nell'insigne Libreria Ravignana di Glasse, tra i Testi a penna havvi un Trattato scritto in pergamena da Frate Guido Vernano da Rimini dell'Ordine de' Predicatori, con tra il Libro de Monarchia composto già dall'Alighieri: e un tal Trattato è diretto dall'autore claustrale all'illustre Graziolo da Rologna. Di quest'egregio fece parola ultimamente l'esimio professore Giosuè Carducci, pubblicando nell'edizione diamante del Rarbèra le Rime di Cino da Pistoia e d'altri contemporanei, fra le quali alcune sentenze del Bambagiuoli, mettendolo in bella compagnia con Giotto, Benuccio Salimbeni, Bindo Ronichi e Domenico Cavalca, appartenenti pel carattere e la forma dei loro versi agli gnomici, che sono i poeti del secondo periodo d'una civiltà, e che proseguirono le tradizioni e lo stile di quella poesia, che precedè la scuola toscana del 1282, cioè la classica, la stupenda dell'Alighieri.

E tanto basti dei primi bolognesi che scrissero versi italiani.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Il Dittamondo (3-09)

Post n°931 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO IX

Di lá da l’Ambra, Aurelia ci aspetta: 
Aurelia dico a la cittá d’Arezzo, 
perch’era anticamente cosí detta. 
Ver è che questa mutò nome e vezzo, 
quando la prese Totila, che poi 5 
arar la fece tutta a pezzo a pezzo. 
Le genti, che lá sono, al dí d’ancoi, 
pur ch’abbian di lor vita alcun sostegno, 
non curan di venir dal tu al voi. 
E sí son, per natura, d’uno ingegno 10 
tanto sottil, che in ciò ch’ a far si dánno 
passan de gli altri le piú volte il segno. 
Per biada e per vin buon terreno hanno; 
l’Arno, la Chiassa, le Chiane e ’l Cerfone 
piú presso d’altri fiumi a essa vanno. 15 
Donato dal gran drago è lor campione; 
godon di vagheggiarsi mura e fossi, 
come de la sua coda fa il pavone. 
Solino in prima e io apresso mossi, 
cercando com la gente si governa, 20 
tra quelle strette valli e alti dossi. 
Noi fummo sopra il sasso de la Verna, 
al faggio ove Francesco fu fedito 
dal Serafin, quel dí che piú s’interna. 
Molto è quel monte divoto e romito 25 
ed è sí alto, che ’l piú di Toscana 
mi disegnò un frate col suo dito. 
"Guarda, mi disse, al mare, e vedi piana 
con alti colli la Maremma tutta: 
dilettevole è molto e poco sana. 30 
Lá è Massa, Grosseto e la distrutta 
Civita veglia ed èvi Populonia 
ch’ appena pare, tanto è mal condutta. 
Lá è ancor dove fu Lansedonia; 
lá è la Cava, dove andare a torma 35 
si crede il tristo overo le demonia. 
E questo il manifesta, perché l’orma 
d’ogni animale lá entro si trova 
in su la rena e d’uomini la forma. 
Io dico piú: che qual fa questa prova, 40 
che quelle spenga e pulisca la rena, 
se l’altro dí vi torna, ancor le trova. 
Lo suo signore, nel tempo che Elena 
fu per Paris rubata, si ragiona 
che con i Greci a Troia gente mena. 45 
La è Soana e vedesi Mascona 
ed èvi Castro povero e men dico 
ch’a Bolsena si va da terza a nona. 
Queste cittadi e altre ch’ io non dico 
funno per la Maremma, in verso Roma, 
famose e grandi per lo tempo antico. 
De’ fiumi, che di lá piú vi si noma, 
sono l’Ombrone, la Paglia, la Nera 
e Cecina, che a la marina toma. 
Ma leva gli occhi da questa rivera 55 
e guarda per le ripe d’Apennino, 
se vuoi veder piú la Toscana intera. 
Vedi il Mugello e vedi il Casentino 
a man sinistra, e vedi onde l’Arno esce 
e come va da Arezzo al Fiorentino. 60 
Poi mira in vèr la destra come cresce 
Tever passando da Massa Trabara, 
per l’acque molte che dentro vi mesce. 
E guarda come porta la sua ghiara 
dal Borgo San Sepolcro in vèr Castello, 65 
dove il Pibico entra e la Soara. 
E guarda come è grosso e fatto bello 
presso a Perugia e come a Todi china, 
dove Acqua fredda e il Chiascio va con ello. 
E guarda come per terra Sabina 70 
* poi passa 
per Roma e vanne, a Ostia, a la marina. 
E nota: quanto da levante lassa 
si è fuori di Toscana, onde il Ducato 
in tutto, come vedi, se ne cassa. 75 
Io so bene che quanto t’ho mostrato 
che la vista nol cerne apertamente 
per lo spazio ch’è lungo, dov’io guato. 
Ma quando l’uom, che bene ascolta e sente, 
ode parlar di cosa che non vede, 80 
imagina con gli occhi de la mente". 
E io a lui: "Tanto ben procede 
lo vostro dir, che a me è cosí chiaro 
com’io v’avessi giá su posto il piede. 
Ma ditemi ancora, o frate mio caro, 85 
se di Francesco ci è alcuna cosa 
da notar degna, per questo riparo". 
Menonne allora in una parte ascosa 
del sasso e disse: "Qui orava il Santo 
e vedi l’orme ove i ginocchi posa. 90 
Altro non c’è; ma se brami cotanto 
veder de le sue cose, a Monte Aguto 
vedrai la cappa sua". E tacque a tanto. 
E io: "La cappa e ’l cappuccio ho veduto, 
che spense giá, girandola in sul foco 95 
ch’ardea il castel, senza alcun altro aiuto. 
E vidi lá, che non mi parve gioco, 
di notte accesi infiniti doppieri, 
senza uomo alcun cercar tutto quel loco. 
Questo mise i signori in gran pensieri 100 
di quel castel, ché, per uso, la morte 
sempre un ne vuol, quando appaion que’ ceri". 
E ’l frate a me: "Di cosí grave sorte 
in alcun luogo giá parlare udio; 
ma il creder m’era dubitoso e forte". 105 
Cercato il monte ognor Solino e io 
e veduto la chiesa e gli abituri, 
raccomandammo que’ buon frati a Dio. 
Cosí scendendo que’ valloni oscuri, 
mille anni ci parea d’essere al piano, 110 
sí poco lá ci tenevam sicuri. 
Chiusi, Farneta vidi e Chitignano 
e passammo in piú parti la Rassina, 
un fiumicello assai noioso e strano
e dubitoso a qual suol si trassina. 115
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXIX-1)

Post n°930 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXIX

[1 Di Latino Latini]

Signor, che colmo d'alte voglie, ardenti
L'animo avete e di virtù sì rare,
Seggio d'onor, di lode altiere e chiare,
Albergo u' son gli umani affetti spenti.

Talché sopra natura e gli elementi
Vi siete alzato, ond'oggi in voi traspare
Raggio divin, che vi farà adorare
Da spirti più leggiadri ed eccellenti.

Quanti veggio, signor, lodati inchiostri
Per voi destarsi, e 'l bel romano clero
Quanto da voi riceverà splendore.

Ché se fortuna i chiari merti vostri
Vorrà gradir, e s'io predico il vero,
Della chiesa di Dio sarai pastore.

[2 Di Latino Latini]

A messer Vincenzo Divi col disegno per messer Giovanni Battista Spirito.

Se coll'alto valor, col chiaro ingegno
Vostro, signor, con cui l'età novella
Di magnanime imprese è ricca e bella
Rendete e voi d'immortal gloria degno,

Discorrendo di quei lochi il disegno
Ch'agli antichi roman furno castella,
Quando contro di gente empia e rubella
Sfogar' col ferro in man l'ira e lo sdegno,

V'invaghiste sì dentro al bel lavoro
Che con picciola schiera incontra a molti
Difender la fortezza aveste ardire.

Col don date ai feriti alcun ristoro,
Che per non si curar restan sepolti
Spesso anzi al giusto termin del morire.

[3 Di Latino Latini]

Signor, già con leggiadre e forti penne
Solea sì in alto il mio pensier levarsi,
E tanto al bene eterno avvicinarsi
Ch'ogni cosa mortale a schivo tenne.

Poscia che occultamente al cuor mi venne
L'ingorda sete di ch'io già tutto arsi,
Ogn'onesta mia voglia in ria cangiarsi
Sentì, sì che di sen nulla ritenni.

Onde non che più al cielo alzare i vanni,
Ma non pur li potei levar dal fango
U' senza vergognarmi un tempo giacqui.

Or che per te, signor, scorgo i miei danni
Che ti chieggo perdon, che 'l fallir piango
Tornami tal qual tua mercè rinacqui.

[4 Di Latino Latini]

A pie' de' monti, ove or tranquilla pasce
L'eletta da Dio greggia erbette e fiori,
Quella di latte pieno, esse d'odori
Fonte di chiare e salubri acque nasce.
 
A cui fa in alto giro ornate fasce,
Porfido vivo sì ch'uscir di fuori
Di là non puote; intorno olivi, allori,
E palme il sant'umor nudrisce e pasce.
 
Quinci e quindi del fosso in su le sponde
Sta vigil serpe, acciò che dagli oltraggi
D'invide voglie il buon signor difenda.
 
Tempo sia che dai verdi alteri faggi
La greggia sitibonda al pian riscenda
U' el buon pastor l'invita alle sacre onde.
 
[5 Di Latino Latini]

Se per vago, leggiadro e grato aspetto
D'amorosetta donna, o cortesia
Rara ver' me s'aprì unqua la via
A fare accesa per scaldarmi il petto;

Trovò però sì chiuso il calle e stretto
Ch'al cor profondo mio gelato invia
Ch'estinta al tutto et agghiacciata pria
Restò, che giunta al destinato affetto.

Non altrimenti che veggiam noi farsi
Il lumicin in vaso ampio e profondo
Per stretta intrata alcun di porlo affretta;

Che pria spento riman, che entro inviarsi
Possa, così mai non arriva al fondo
del petto mio d'amor calda saetta.
 
[6 Di Latino Latini]

Come nella stagion ch'a giuochi e feste
Col nuovo suo liquor Bacco n'invita,
E che la pianta abbastanza nodrita
Perde col digiunar la bella veste.

Pomo non può nato d'albero alpestre,
Se ben maturo par, senz'altra aìta
D'alquanto tempo e d'arte insieme unita
Cangiar in dolce il sapor duro e agreste.

Così, se dall'inculto aspr'Appennino
Il frutto, ch'or vi mando, è mal maturo
Sicché col succo acerbo il dente annoda,

Maturatel con arte in loco oscuro,
Finché sia tal che 'l gusto se lo goda,
O l'alber trasferite in Aventino.

[7 Di Latino Latini]

Al signor eletto di Cesena quando andò a Siena.

S'a quel desir, ch'in voi sovente accende
Viva ragion, divino alto intelletto
Non fia per nuova voglia unqua ristretto
Il freno, anzi al bel fine ov'egli attende,
 
Vedransi opre sì degne, e sì stupende
Uscir dall'onorato e sacro petto
Che di vostra virtù fia sempre detto
Ove il sol poco, ove molto risplende.
 
Però, signor mio caro, all'alta impresa
Che può farvi fra gli uomini immortale
Et al superno ben larga ampia porta
 
Raccendete di nuovo ognor l'accesa
Voglia, s'a voi di voi medesmo cale,
Ch'altro ben d'esta vita uom non porta.

[8 Di Latino Latini]

Di se stesso a m. Camilla.

Tenesti, Amor, gran tempo in man le chiavi
Del mal'accorto mio tenero cuore,
Quando in sul primo giovenil errore
Parvermi i lacci tuoi dolci e soavi.

Ma poich'in me sospir penosi e gravi
Fra le varie speranze e 'l van timore
Creasti, disleale, empio signore,
Odiai il tuo falso ben, che mi mostravi.
 
Ond'io ringrazio quel motor superno,
Che creò questo e quell'altro emisfero,
Che da' tuoi duri lacci il cuor mi scinse.
 
Errarno ben col tuo cieco governo
I sensi, e l'occhio mai non scorse il vero;
Ma voglia in me ragion giamai non vinse.
 
[9 Di Latino Latini]

Almo pastor, la cui pietà infinita
Ha del comune ben zelo e del mio,
E di tirarne al ciel tanto desìo,
Che perciò prendi e poi lasci la vita,
 
La cara pecorella tua smarrita
Oggi ritrovi e fai, signor, sì ch'io
Riceva il don, che solo vien da Dio,
A cui s'inchina l'alma e chiede aita.
 
Così risorgo, e dentro al cuore sento
Nuovo pensier: quei mi conforta e sprona
A seguir oltre, ond'io m'affretto e scaldo.

Quinci chi può ridir qual sia il contento
Ch'ognor s'accresce all'alma, che poi saldo
Opra tessendo in ciel giusta corona?
 
[10 Di Latino Latini]

Poiché d'alpestre e rapido torrente
In mar tranquillo e ben spalmata barca,
Di ricca merce, e saggio nocchier carca
E col favor d'un placido ponente,

Scorgo che il signor mio felicemente,
Solcando l'onde inanzi agli altri varca,
Mercè del sommo e provido monarca
Ch'abbandonar sua gregge non consente.

Dico fra me: felice e ben nat'alma,
Che del primo pastor l'afflitta nave
Guiderai fuor di perigliosi scogli;

Prendi or' in pace desïata et alma
D'argento l'una e d'or fin l'altra chiave
E con vera pietà ne lega e sciogli.
 
[11 Di Latino Latini]

O città, che del mar reina sei,
Che l'alma Esperia il destro fianco bagna,
E schermo pio, non pur figlia o compagna
Sempre fosti di Pietro ai santi piedi.

Perch'or lo strazio e 'l duol non odi e vedi
Della sposa di Cristo, che si lagna
Non men di te, che di Germania e Spagna
Cui lei preda badando esser concedi?
 
Torna almeno a te stessa, e nell'altrui
Danno, il tuo posto ancor chiaro vedrai
Sol con quest'arti il suo valor s'atterra.
 
Coi gigli d'oro e cogli azzurri omai
Spiega il Leone alato incontra a lui
Che combattendo altrove a te fa guerra.
 
[12 Di Latino Latini]

Signor, ch'omai tre lustri interi avete
Nel santo e ben locato offizio vostro
A tutto il mondo apertamente mostro
Quale in voi senno e carità chiudete;
 
Dico le stelle grazïose e liete
Preste a tanto serbarvi in questo chiostro
Uman quanto a voi basti al terren vostro
Render la desïata sua quïete,
 
E 'l far che l'alma vostra sposa cara
L'empio settentrion chieda perdono
E tributo le dian Turchi, Indi e Persi,
 
Dunque non sian vostri desir diversi
Da quei del ciel, che preparati sono
Quinci a donarvi gloria eterna e rara.

[13 Di Latino Latini]

Siena, è stato capriccio della sorte
Et una come te porro influenza
Il sinistro che par ch'abbia Fiorenza
Le mura tratte giù non delle porte.

E il caso a Chiusci dalle fusa torte
Trionfante chimera in apparenza,
Ch'in verità la neutral prudenza
Miglioramento il tien della sua morte.

O in fatti e in detti legitima schiava,
E in fatti e in detti libertà bastarda,
Non esser così pazza e così brava.
 
Poveraccia da bene, il fine guarda
Che la promessa colla qual si chiama
Il Turco epidanissimo è bugiarda.
 
 
 

Il Dittamondo (3-08)

Post n°929 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO VIII
Quel tenero pensier, che nel cuor nacque 
partendo dal piacer, ch’ognor disio, 
s’ascose, come a la mia guida piacque. 
Poi, per non perder tempo ed ello e io, 
andando il dimandai se Italia mai 
per altro nome nominar s’udio. 
Ed ello a me: "Se cerchi, troverai, 
occupata da’ Greci, la gran Grecia 
esser nomata ne’ tempi primai. 
Saturno ancora, dopo molte screcia 
fatte con Giove, fuggendo s’ascose 
di qua, dove ’l suo senno assai si precia. 
Costui, essendo re, fra l’altre cose, 
Saturnia la nomò". In questa guisa 
Solino a la dimanda mi rispose. 
Poi sopragiunse: "Figliuol, qui t’avisa 
ch’a pena so provincia, a cui non sia 
cambiato nome, cresciuta o divisa. 
E questo è quel che l’animo disvia, 
quando nuove scritture di ciò leggi 
da quelle de gli antichi e da la mia. 
Or perché chiaro in questa parte veggi, 
sí come le province qui d’Italia 
le piú hanno mutato nome e leggi, 
dico che Scozia si scrisse, giá balia 
di Giano, e, da’ suoi monti, è Rezia prima 
e la seconda s’intendea con Galia. 
E come l’Eridan giú al mar dilima, 
Emilia e Liguria bagna sempre: 
l’una di lá, l’altra di qua si stima. 
Lungo ’l mare Adrian par che s’assempre 
Flaminea, dico, e Picena ancora 
e che ’l giogo Apennin quell’aire tempre. 
E fu Toscana, dove noi siam ora, 
Umbria giá detta, non tutta, ma parte, 35 
per gran diluvio che quivi dimora. 
Quella contrada, dove con sue arte, 
morto il figliuolo, Medea stette e visse, 
Valeria o Marsia è scritta in molte carte. 
Messapia o Peucezia si disse 40 
l’altra, ch’è lungo il mare, ove si crede 
che Silla in mostro giá si convertisse. 
E non solo in Italia si vede 
i nomi rimutati a le province, 
ma sí in piú parti del mondo procede. 45 
Or tu, che dèi notare quindi e quince 
li nomi de’ paesi, tienti a quelli 
c’hanno piú fama per diverse schince: 
dico co’ vecchi e quando co’ novelli". 
E cosí la mia scorta ragionando, 50 
passammo molti borghi e piú castelli. 
Noi eravamo sopra l’Era, quando 
mi fu mostrata un’acqua e per alcuno 
contato, a cui di novitá domando: 
"Usanza è qui tra noi che ciascheduno 55 
che fa cerchi da vegge, ivi gl’immolla 
e che sempre, di diece, ne perde uno. 
E niuno può veder chi questo tolla: 
l’un pensa ch’ è ’l dimonio che l’afferra, 
l’altro ch’ è il lago, che da sé l’ingolla". 60 
Apresso questo, trovammo Volterra 
sopra un gran monte, ch’ è forte e antica 
quanto in Toscana alcun’altra terra. 
Si disse Antonia e, per quel che si dica, 
indi fu Buovo, che per Drusiana 65 
di lá dal mar durò molta fatica. 
Per quella strada, che v’era piú piana, 
noi ci traemmo a la cittá di Siena, 
la quale è posta in parte forte e sana. 
Di leggiadria, di bei costumi è piena, 70 
di vaghe donne e d’uomini cortesi, 
e l’aire è dolce, lucida e serena. 
Questa cittade per alcuno intesi 
che, lasciando ivi molti vecchi Brenno, 
quando i Roman per lui fun morti e presi, 
si abitò prima; e altri è d’altro senno, 
che dice, quando il buon Carlo Martello 
passò di qua, che i vecchi suoi la fenno. 
Io vidi il Campo suo, ch’è molto bello, 
e vidi fonte Branda e Camollia 80 
e l’ospedal, del quale ancor novello. 
Vidi la chiesa di Santa Maria 
con gl’intagli del marmo e, ciò veduto, 
in verso Arezzo fu la nostra via. 
Non è da trapassare e farsi muto 85 
de l’Elsa, che da Colle a Spugna corre, 
ché, senza prova, non l’avrei creduto: 
io dico che vi feci un legno porre 
lungo e sottile; e, in men che fosse un mese, 
grosso era e pietra, quando il venni a tôrre: 90
colonne assai ne fanno nel paese.
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
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