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Messaggi di Febbraio 2015

Il Trecentonovelle 48-50

Post n°1302 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA  XLVIII

Lapaccio di Geri da Montelupo a la Ca' Salvadega dorme con un morto: caccialo in terra dal letto, non sappiendolo: credelo avere morto, e in fine trovato il vero, mezzo smemorato si va con Dio.

Tanto avea voglia questa contata donna d'andar drieto al morto marito quanto ebbe voglia di coricarsi allato a un morto in questa novella Lapaccio di Geri da Montelupo nel contado di Firenze. Fu a' miei dí, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui, però che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: "Il tale è morto", e avesselo ritocco con la mano, subito volea ritoccare lui; e se colui si fuggía, e non lo potea ritoccare, andava a ritoccare un altro che passasse per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona, averebbe ritocco o un cane, o una gatta; e se ciò non avesse trovato, nell'ultimo ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso vivea, che se subito, essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per certo di far quella morte che colui per cui era stato tocco, e tostamente. E per questa cagione, se un malfattore era menato alla justizia, o se una bara o una croce fosse passata, tanto avea preso forma la cosa che ciascuno correa a ritoccarlo; ed elli correndo or drieto all'uno or drieto all'altro, come uno che uscisse di sé; e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono grandissimo diletto.
Avvenne per caso che, essendo costui per lo comune di Firenze mandato ad eleggere uno podestà ed essendo di quaresima, uscío di Firenze, e tenne verso Bologna e poi a Ferrara, e passando piú oltre, pervenne una sera al tardi in un luogo assai ostico e pantanoso che si chiama la Ca' Salvadega. E disceso all'albergo, trovato modo d'acconciare i cavalli e male, però che vi erano Ungheri e romei assai, che erano già andati a letto; e trovato modo di cenare, cenato che ebbe, disse all'oste dove dovea dormire. Rispose l'oste:
- Tu starai come tu potrai; entra qui che ci sono quelle letta che io ho, e hacci molti romei; guarda se c'è qualche proda; fa' e acconciati il meglio che puoi, ché altre letta o altra camera non ho.
Lapaccio n'andò nel detto luogo, e guardando di letto in letto cosí al barlume, tutti li trovò pieni salvo che uno, là dove da l'una proda era un Unghero, il quale il dí dinanzi s'era morto. Lapaccio, non sapiendo questo (ché prima si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), vedendo che dall'altra proda non era persona, entrò a dormire in quella. E come spesso interviene che volgendosi l'uomo per acconciarsi, gli pare che il compagno occupi troppo del suo terreno, disse:
- Fatti un poco in là, buon uomo.
L'amico stava cheto e fermo, ché era nell'altro mondo. Stando un poco, e Lapaccio il tocca, e dice:
- O tu dormi fiso, fammi un poco di luogo, te ne priego.
E 'l buon uomo cheto.
Lapaccio, veggendo che non si movea, il tocca forte:
- Deh, fatti in là con la mala pasqua.
Al muro: ché non era per muoversi. Di che Lapaccio si comincia a versare, dicendo:
- Deh, morto sia tu a ghiado, che tu déi essere uno rubaldo.
 E recandosi alla traversa con le gambe verso costui, e poggiate le mani alla lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sí di netto che 'l corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave, e con sí gran busso, che Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: "Oimè! che ho io fatto?" e palpando il copertoio si fece alla sponda, appiè della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente:
- Sta' su; ha' ti fatto male? Torna nel letto.
E colui cheto com'olio, e lascia dire Lapaccio quantunche vuole, ché non era né per rispondere, né per tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui, e veggendo che non si dolea, e di terra non si levava, comincia a dire in sé: "Oimè sventurato! che io l'avrò morto". E guata e riguata, quanto piú mirava, piú gli parea averlo morto: e dice: "O Lapaccio doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io andare! ma io non so donde, ché qui non fu' io mai piú. Cosí foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io sto, serò mandato a Ferrara, o in altro luogo, e serammi tagliato il capo. Se io il dico all'oste, elli vorrà che io moia in prima ch'elli n'abbia danno". E stando tutta notte in questo affanno e in pena, come colui che ha ricevuto il comandamento dell'anima, la mattina vegnente aspetta la morte.
Apparendo l'alba del dí, li romei si cominciano a levare e uscir fuori. Lapaccio, che parea piú morto che 'l morto, si comincia a levare anco elli, e studiossi d'uscir fuori piú tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse; la seconda per dilungarsi dal morto, e fuggire l'ubbía che sempre si recava de' morti.
Uscito fuori Lapaccio, studia il fante che selli le bestie; e truova l'oste, e fatta ragione con lui, il pagava, e annoverando li danari, le mane gli tremavono come verga. Dice l'oste:
- O fatti freddo?
Lapaccio appena poté dire che credea che fosse per la nebbia che era levata in quel padule.
Mentre che l'oste e Lapaccio erano a questo punto, e un romeo giunge, e dice all'oste che non truova una sua bisaccia nel luogo dove avea dormito; di che l'oste con uno lume acceso che avea in mano, subito va nella camera, e cercando e ricercando, e Lapaccio con gli occhi sospettosi stando dalla lunga, abbattendosi l'albergatore al letto dove Lapaccio avea dormito, guardando per terra col detto lume, vidde l'Unghero morto appiè del letto. Come ciò vede, comincia a dire:
- Che diavolo è questo? chi dormí in questo letto?
Lapaccio, che tremando stava in ascolto, non sapea s'era morto o vivo, e uno romeo, e forsi quello che avea perduto la bisaccia, dice:
- Dormívi colui, - accennando verso Lapaccio.
Lapaccio ciò veggendo, come colui a cui parea già aver la mannaia sul collo, chiamò l'oste da parte dicendo:
- Io mi ti raccomando per l'amor di Dio, che io dormii in quel letto, e non potei mai fare che colui mi facessi luogo, e stesse nella sua proda; onde io, pignendolo con li calci, cadde in terra; io non credetti ucciderlo: questa è stata una sventura, e non malizia.
Disse l'oste:
- Come hai tu nome?
E colui glilo disse. Di che, seguendo oltre, l'oste disse:
- Che vuoi tu che ti costi, e camperotti?
Disse Lapaccio:
- Fratel mio, acconciami come ti piace e cavami di qui. Io ho a Firenze tanto di valuta, io te ne fo carta.
Veggendo l'oste quanto costui era semplice, dice:
- Doh, sventurato! che Dio ti dia gramezza; non vedestú lume iersera? o tu ti mettesti a giacere con un Unghero che morí ieri dopo vespro.
Quando Lapaccio udí questo, gli parve stare un poco meglio, ma non troppo; però che poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto; e preso un poco di spirito e di sicurtà, cominciò a dire all'oste:
- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o che non mi dicevi tu iersera: egli è un morto in uno di quelli letti? Se tu me l'avessi detto, non che io ci fosse albergato, ma io sarei camminato piú oltre parecchie miglia, se io dovessi essere rimaso nelle valli tra le cannucci; ché m'hai dato sí fatta battisoffia che io non sarò mai lieto, e forse me ne morrò.
L'albergatore, che avea chiesto premio se lo campasse, udendo le parole di Lapaccio, ebbe paura di non averlo a fare a lui; e con le migliori parole che poteo si riconciliò insieme col detto Lapaccio. E 'l detto Lapaccio si partí, andando tosto quanto potea, guardandosi spesso in drieto per paura che la Ca' Salvadega nol seguisse, portandone uno viso assai piú spunto che l'Unghero morto, il quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell'animo, che non gli fu piccola, per un messer Andreasgio Rosso da Parma che aveva meno un occhio, il quale venne podestà di Firenze; e Lapaccio si tornò, rapportando aver fatta elezione al detto podestà, ed esso l'avea accettata. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenze, ebbe una malattia che ne venne presso a morte.
Io credo che la fortuna, udendo costui essere cosí obbioso e recarsi cosí il ritoccare de' morti in augurio, volesse avere diletto di lui per lo modo narrato di sopra, che per certo e' fu nuovo caso, avvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma quanto sono differenti le nature degli uomeni! ché seranno molti che non che temino gli augurii, ma elli non vi daranno alcuna cosa di giacere e di stare tra' corpi morti; e altri seranno che non si cureranno di stare nel letto dove siano serpenti, dove siano botte, scorpioni, e ogni veleno e bruttura e altri sono che fuggono di non vestirsi di verde, che è il piú vago colore che sia; altri non principierebbono alcun fatto in venerdí, che è quello dí nel quale fu la nostra salute; e cosí di molte altre cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro.


NOVELLA  XLIX

Ribi buffone, tornando da uno paio di nozze con certi gioveni fiorentini, è preso di notte dalla famiglia: giunto dinanzi al podestà, con un piacevole motto dilibera lui e tutta la brigata.

Molto fu piú ardito e piú coraggioso Ribi buffone incontro a uno cavaliere d'uno podestà che 'l prese, e ancora col podestà, che non fu Lapaccio vile e timido, per essere stato in un letto con un uomo morto. Questo Ribi fu piacevolissimo, e fu fiorentino, e molto si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de' signori lombardi e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi, ché dava parole, e ricevea robe e vestimenti; e quando venía in Firenze, non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna cosa leccava.
Essendo costui in Firenze una volta, e facendosi là verso Santa Croce un bello paio di nozze, egli vi stette quasi tutto il dí, e vegnente la notte, avendo ciascun uomo e donna e cenato e ballato, e coricatosi lo sposo e la sposa, il detto Ribi con una brigata di gioveni di buone famiglie si partí per andare albergo con loro.
Avvenne che, passando questa brigata da San Romeo, s'abbatterono nel cavaliero del podestà che andava alla cerca; il quale comincia a dire:
- Che gente siete voi?
Risposono:
- Amici, messere.
- Passate innanzi; quanti siete voi?
Dissono:
- Vedetelo.
E fra 'l noverare, e dire: "Tanti uomeni, tanti torchi", al cavaliere venne veduto un torchio, la cui cera non era sei once.
Disse il cavaliere:
- Quello torchio non è di peso.
Ribi fassi innanzi:
- Messer sí, è.
Disse il cavaliero:
- E' dee pesare tre libbre, e non è quattro once.
Ribi rispose e subito:
- L'avanzo aveste voi in culo.
Come il cavaliero ode questo:
- Za, famiglia, pigliate costui; piglia za, e piglia là, menategli tutti al palazzo.
Ribi dicea:
- Perché, messere, omè! perché?
- Come perché? - dice il cavaliere - dunque credi che io sia un bambarottolo: io ci ho impeso gli uomeni per minor parola che quella che in vituperio della Corte ci hai detta tu.
Dicea Ribi:
- Doh, messer lo cavaliere, noi venghiamo dalle nozze e siamo caldi; quello che noi diciamo, diciamo per sollazzare.
- Per sollazzare nella malora; - dice il cavaliere - e dite che sete caldi; altrimenti vi ci farò riscaldare, per le chiabellate di Dio; se giunghiamo a palazzo, ci parlerete d'altro verso su la colla; menateli oltre.
E con questo busso furioso la famiglia condusse la brigata in palagio: e giugnendo dentro nella corte, il podestà, che credo era da Santo Gemino, andando per lo verone in capo della scala, però che era di state, e 'l caldo grande, veggendo costoro, disse che gente era quella. Il cavaliere, che ratto andava verso lui, disse se volea gli menassi dinanzi da lui. Rispose di sí; e cosí tutti vennono dinanzi al podestà. Il quale addomandò il cavaliere perché coloro fossono presi. A cui il cavaliere rispose, volgendosi verso Ribi, e dice:
- Signor mio, questo rubaldo ha fatto gran vergogna a voi e a tutta la vostra Corte.
- E che ci ha fatto? - dice il podestà.
Dice il cavaliere:
- Hacci fatto cosa che mai non ce la direi.
E 'l podestà dice:
- Che ha detto nella malora?
Disse il cavaliero:
- La piú laida cosa, e la piú vituperosa che tu udissi mai; piacciati, signor mio, non la volere udire, ché c'è troppo abbominevole.
Il podestà al tutto dice:
- Io ce la voglio sapere; e se mi ci metti a ira, quello doverrò fare a loro, farò a te ipso.
E 'l cavaliere, alla maggior pena del mondo, gli disse:
- Podestà mio questo cattivo uomo, essendo con questa brigata, che è qui, a luogana, avea questo torchio che qui vedete che non è sei once; io ci dicea che non era al peso secundum formam statuti : esso dicea pur di sí; e io dissi: "Come di' tu di sí, ché non è quattr'once?" e quello disse: "L'avanzo avestú in culo".
Disse Ribi:
- Messer lo podestà, io non dissi con l'aste.
Disse il cavaliero:
- E che ci hanno a fare l'aste, che t'affranga Dio e la Matre?
Allora il podestà, che, come savio, avea già compreso il fatto e pigliavane diletto, si volse al cavaliero, e disse:
- Se costui non disse con l'aste, e la cera è poca, come tu di' e vedi, essendo intervenuto ciò che ti disse, non te ne serebbe venuto né debilimento di membro, né altro male; avesse detto con l'aste, serebbe stato cassale e mortale.
Disse il cavaliero, quasi sdegnato:
- Facci che ti piace, per le budella di Dio, se ce l'avesse a punire, la lingua con che lo disse gli farei trarre dalla canna.
Disse il podestà:
- Io ti dico, cavaliero, che si vuole aver discrizione: se costui non disse con l'aste, non mi pare che meriti alcuna pena.
Disse uno judice del maleficio che era col podestà, ed era fratello di quello messer Niccola da San Lupidio, a cui Ribi altra volta trasse le brache, come si narra nel libro di messer Giovanni Boccacci:
- Questi Toschi ci sono tutti gavazzieri, deasi lo sacramento a isso, se disse con l'aste.
E 'l podestà disse:
- E cosí si faccia.
E datoli il juramento, Ribi, alzando la mano, dice:
- Io giuro per quello Dio, cui adoro, che io non dissi con l'aste. Doh, messer lo podestà, sere' io sí fuori della memoria? ché so che se io l'avessi detto, n'andrebbe il fuoco, o la mitera.
Disse il podestà:
- Vacci con Dio; per questa fiata t'aio perdonato, e guàrdate bene per un'altra volta, quando la cera del torchio fosse di piú peso, ad un altro cavaliero non dicessi simili parole; però che, benché tu non dicessi con l'aste, e la cera fosse tanta quanto vuole lo statuto che sia, ed ella entrassi al cavaliere dove tu dicesti, e' serebbe sí pericoloso che tu potresti aver la mala ventura.
Ribi ringraziò il podestà della licenzia e dell'ammaestramento, e partissi con tutta la brigata; e 'l podestà ne rimase in gran sollazzo con li judici suoi; e 'l cavaliero dicea che di ciò la Corte si era vituperata, e rimase tutto scornato, e non volea fare officio, e molti dí combatté il podestà, volendosi pur partire, dicendo che mai in quello officio non credea aver altro che vergogna, poiché non s'era fatta justizia di sí vituperato delitto.
Alla per fine pur si reconciliò, e la novella si comprese sí per la terra che quando quel cavaliero era veduto, andando alla cerca, era detto da' garzoni:
- Quello è il cavaliero del torchio con l'aste.
Gran gentilezza usò questo rettore, che considerò alla qualità e al modo, e all'uomo chi era, e grande disperazione fu quella del cavaliere; ma pur procedea da justizia e da buon animo. Ma pur considerando quello che dovea considerare, e chi Ribi era, di quello che avea detto si dovea dar pace, però che a' loro pari pare che debba essere lecito ciò che dicono e ciò che fanno. Bella e nuova allegazione fece Ribi, e ragionevolmente da non potervi apporre, però che quanto piú dicea il cavaliero, quella cera essere di piccolo peso, tanto era la colpa di Ribi minore, e piú allegava per lui.



NOVELLA L

Ribi buffone, vestito di romagnuolo, essendo rotta la gonnella, se la fa ripezzare con iscarlatto alla donna di messer Amerigo Donati, e quello che rispondea a chi se ne facea beffe.

Troppo fece rappezzare meglio una sua gonnella un'altra volta questo Ribi, e a suo utile, che non ripezzò la scusa del torchio con l'aste. Però che, avendo in dosso una gonnella romagnuola, ed essendo vecchia, avea una rottura nel petto e una nel gomito. Ed essendo una mattina a desinare con messer Amerigo Donati di Firenze, andò alla donna sua in camera, però che avea contezza con le donne de' cavalieri, come sempre hanno, e disse:
- Madonna tale, averesti voi un poco di scarlatto?
Disse la donna:
- Ribi, se' tu per motteggiare?
Disse Ribi:
- Madonna no, anzi dico dal migliore senno ch'io ho, però che io vorrei volentieri che voi mi rappezzaste questa gonnella.
Disse la donna:
- O che buona ventura! vuo' tu ripezzare il romagnuolo con lo scarlatto?
Disse Ribi:
- Deh, non ve ne caglia: madonna, se voi l'avete, fatemi questo servigio.
La donna, vaga di veder questa novità, disse:
- Io n'ho bene, e acconcerottela, poiché tu vuogli; ma una nuova cosa fia a vederla.
Disse Ribi:
- Madonna, voi dite il vero: e perché io vo cercando cose nuove, come nuovo che io sono, però fo questo; e quando fia fatto, non starete tre dí che, sapiendo la cagione, serete contenta.
E brievemente, preso alquanto di rispitto, che come ebbe desinato con messer Amerigo, egli diede una mezza volta, e con un'altra gonnella in dosso recò quella sotto il braccio alla detta donna, la quale in quel dí la ripezzò con due pezzetti di scarlatto di colpo nuovi. Avendo Ribi la gonnella ripezzata, se la misse addosso l'altra mattina, e uscí fuori, andando in mercato nuovo, dove piú gente credea trovare. Chi lo vedea, dicea:
- O Ribi, che è questo? o tu hai ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto!
E Ribi rispondea:
- Tal fosse l'avanzo!
E cosí con questa gonnella e con questo motto diede piacere parecchi dí a' Fiorentini, avendo con loro buone cene e desinari. Dappoi (che fu piú nuova cosa) n'andò in Lombardia, portando questa gonnella cosí fatta nella valigia, e dinanzi a piú signori comparío con essa. E quando li diceano:
- Che vuol dir questo, Ribi? perché hai tu ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto?
E quelli dicea:
- Tal fosse l'avanzo -; aggiugnendo un'altra particella: - Gli uomeni di Firenze che non sono signori di terre, veggendomi vestito cosí male di romagnuoli, e che la gonnella era rotta qui e qui, mi cominciorono a farla di scarlatto in due luogora, come vedete. Pensai e penso che, vegnendo con essa dove fossono de' signori, che l'avanzo, che è molto piú, per loro si compiesse.
E cosí dicea a tutti, dov'elli andava: tanto che quel romagnuolo gli fu tutto coperto di scarlatto e ancora n'ebbe parecchie belle robbe. Quando la donna di messer Amerigo sentí quello che due pezzuole di scarlatto, poste sul romagnuolo, erano valute a Ribi, ebbe per certo lui essere savio e avveduto quanto altro buffone.
Questa parola o motto di Ribi viene spesse volte a proposito d'allegare, benché oggi non so se quello ripezzare fosse tenuto o povertà, o leggiadria; però che, non che i panni di dosso con molti cincischi e colori si frastaglino e ripezzino, ma le calze non basta si portino una d'un colore e l'altra d'un altro; ma una calza sola dimezzata e attraversata di tre o quattro colori; e cosí per tutto si tagliano e stampano i panni che con gran fatica sono tessuti.

 
 
 

Il Meo Patacca 09-3

Post n°1301 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Quell'ardito raponzolo, quel frasca
Già de 'sta bella botta s'era avvisto,
E tra la gente subbito s'infrasca,
Pe' la paccheta, c'ha de calche pisto;
Ma poi, come nel vischio il tordo casca,
Così costui c'incappa, perchè visto
Fu da uno sgherro, (senza sapè come),
Terribbile di faccia, e più di nome.

Non po' scappa non po', dalle su' mani,
Perchè lui, de potenza te l'afferra,
Et era un di quei dieci capitani,
Che dovevan con MEO marcià alla guerra.
Pe' farne poi strapazzi, et assai strani
Pe' i capelli lo tiè, l'alza da terra,
E perchè ha forza et è a 'ste prove avvezzo
Tonno tonno lo piccola un bel pezzo.

Fa 'sta faccenna con la man mancina,
E con la dritta gli da sganassoni
E pugni così forti in te la schina,
Che fan, ch'intorno l'aria ne risoni.
Piagne e strilla il regazzo, e si storcina,
Si raccomanna, acciò che gli perdoni,
Ma perchè vendicà lui vuò l'affronto
Di Nuccia, te lo pista come l'onto.

Sputamorti si chiama, et è un maiale
Assai granne, spalluto e corpulento,
Fa d'un paro di baffi capitale,
Che par, ch'a tutti mettino spavento;
Ha un neo peloso e riccio in tel guanciale,
Che gli serve d'un orrido ornamento,
E danno segno d'un cervel baiardo,
Severo il ciglio e ammazzator lo sguardo.

Se tratta, che quel povero regazzo
Si volze spirita' pe' la paura;
Pur di fargli assai peggio, 'sto bravazzo
Arciterribilissimo procura;
Fatto di tutti i su' capelli un mazzo,
A due mani l'acchiappa, e poi misura
Con lo sguardo un bel colpo, e quasi scaglia,
Tutto il putto quant'è nella muraglia.

Se da certi, costui non viè impedito,
Che le braccia gli tengono, sicuro
Per quell'impeto granne, c'ha ammannito,
E lo schioppa e l'appiccica nel muro.
Gliel vorrian far lassa; ma inviperito
Prova de novo, a fa' quel battimuro;
Alfin pe' non vede l'atto inumano,
La gente glie lo leva dalle mano.

Tonto il regazzo, ahimè! più non par esso
Scapigliato, somiglia un stregoncino;
Vuò fuggir, non sa dove, inciampa spesso,
Ch'in piedi appena reggesi il meschino.
D'havè gli pare Sputamorti appresso,
E con quello, il pericolo vicino.
Si sforza a curre, ogn'urto lo spaventa,
Lui stesso, di sè stesso orror diventa.

Si salva alfin. Ma non però più ardisce,
D'annà a fà, pe' la festa l'insolente,
E il baffuto campion s'insuperbisce,
D'havè azzollato quell'impertinente.
Và poi Nuccia a trovà, con lei complisce,
E glie domanda, se gl'occorre gnente,
Glie fa sapè l'orribbile strapazzo,
Da lui già fatto al malfattor ragazzo.

"Io son, - gli dice doppo, - gnora mia!
Del gran PATACCA amico, e di bon core;
Però esser devo di Vossignoria,
Che so quant'è a lui cara, servitore;
In tel vede quell'insolenteria,
Che glie fu fatta, me venì 'l furore,
Che non conviè, che tal'attion sopporti
Questo Suo servo e schiavo Sputamorti".

Nuccia, e le su' compagne hebber de guai
A tenesse, in vede' 'sta gran bestiaccia,
E sentì un nome non inteso mai,
Di non sbruffagli una risata in faccia:
Si ricordorno allor delli babài,
Che co' 'na spaventole barbaccia,
Alli su' figli piccoli, figura
Una matre, pe' mettegli paura.

Tutto rimedia Titta scarpellino,
Che s'inframette subbito, e risponne
Per Nuccia, ma fratanto un ghignettino
Mezzo strozzato, fecero le donne.
L'homini la discorzero un tantino;
Poi Nuccia il ringraziò, lui con profonne
Riverenze, finito il complimento,
Parte, d'havello fatto assai contento.

Titta pur con le femmine va altrove,
Arrivano in un largo, e quì ben anco
Trattenimento c'è di cose nove,
Vedennose un spettacolo da fianco;
Le cornici s'infiorano d'un bove,
Ch'è bello, grasso, mansueto, e bianco;
Su la schina a 'sta bestia ce sedeva
Un maschio, ch'una femmina pareva.

È costui ben vestito alla donnesca,
Con un bel manto di color di celo,
E con architettura pittoresca
Pende dal capo, e sventolicchia un velo;
La faccia propiamente è femminesca,
Se nel barbante non ci ha manco un pelo,
Che per homo a quel popolo lo scropa,
E fa figura della bella Europa.

Con la man dritta tiè un puntuto stocco
In atto di ferir, e per adesso
Sta fermo il bove, come fusse un ciocco
Fin che di fiori il cinto se gl'è messo:
Poi da un puncicarel di dreto è tocco,
Uno innanzi lo tira, e lui viè appresso;
Dove annerà, si vederà di breve,
Va intanto, adascio adascio, e greve greve.

Cammina innanzi al bove un'asinaccio
Guercio, impiagato, schifo, e senza coda,
Di questa iscammio, pennolone un straccio
Sul poco stroncicone se gl'annoda.
Gli serve di capezza un certo laccio
Fatto di paglia intorcinata, e soda,
Basto non ha la scorticata schina,
E un certo malscalzone lo strascina.

Vestito da Gran Turco lo cavalca,
Un che la parte sua la fa assai bene;
Attorniato è costui da una gran calca
Di regazzi, e 'l cotogno basso tiene.
Di scegne vista fa; ma non scavalca,
Perchè a forza la gente lo ritiene;
Mostra d'havè paura, e che vorrìa,
Quanno farlo potesse, scappà via.

Alla coda stracciona del Sumaro,
C'è chi ogni poco zaganelle attacca,
Poi gli dà foco, e in tel sentì lo sparo,
Zompa e trotta la bestia, e 'l Turco insacca.
Acciò non caschi, ogn'un gli fa riparo,
Perchè quella carogna, benchè fiacca
L'alza, lo sbalza, e lui da delle storte,
Finge di tracollà, ma si tiè forte.

El bove non ha più la zampa lenta,
Che lo spuncico cresce; va trottanno
L'asino del Gran Turco, e si spaventa
Costui, come che sfuggia un gran malanno.
Sul bove Europa, a seguitallo intenta,
Significa, che mentre al fier tiranno
Da lei coll'arme in man, si dà la caccia,
Il Turco dall'Europa si discaccia.

Chi sa 'ste cose interpretà, le spiega
Alle perzone sempliciane e sciote,
Più d'una donna el su' parente prega,
Che ben glie le dichiari, e faccia note.
C'è chalched'uno, che ne fa bottega
De 'st'interpretature, e ne riscote
Ringraziamenti e lodi, e ci pretenne
Quanno, a chi non le sa, le dà ad intenne.

Fanno intanto, gridanno come pazzi,
Per esser sempre a sbordellane avvezzi
Parecchi insolentissimi regazzi
A colui, che fa 'l Turco, dei disprezzi;
Solo però consistono i strapazzi
In coccie di merangoli, et in pezzi
Di melon guasto e fracida cucuzza;
Co' i schizzi, acqua sul grugno se gli spruzza.

Quel poverhomo, è ver, che fà fintiva
D'esser il Turco, e che strazià si lassa,
Ma quanno un tibi dabo poi gl'arriva
Gagliardo assai, la flemma se gli passa.
Si volta a quella gente, che veniva
Attorno a lui, pe' fagli da smargiassa,
E dice: "In grazia, stieno in ciarvello
'Sti regazzacci, e tirino bel bello".

Di tutti il capo sgherro, che commanna
Ad ogn'altro, è PATACCA, che lì venne,
Per ordinà la prima mossa, e manna
Ogn'un di quelli via, che il Turco offenne.
Si porta in mano, d'India la su' canna,
Minaccia colpi, e dove pò li stenne,
E mentre, hor questo et hora quello azzolla,
La baronaglia allor tutta si sfolla.

Fatto questo, capò mezza dozzina
Di ragazzoni meno impertinenti.
"Troppo, - gli disse, - 'st'homo si sciupina,
Non voglio nò, che tanto si tormenti:
Tiratigli voi soli in su la schina,
E non in altra parte, e state attenti,
Ch'altri non ci si mettino, che poi,
Io non me l'habbia da voltà con Voi.

Non s'addropino robbe da fa' male,
Ma scorze di cocommeri leggiere,
E coccie simiglianti, in modo tale,
Che paran poi saioccolate vere:
De grazia, non entramo in criminale,
Nè s'esca dalle cose del dovere;
Se fa chalch'un di più, te l'assicuro,
Che te glie sbatto la capoccia al muro".

Tutti, al bravà di MEO, quelli birbanti,
Che tozzolorno senza discrizione
Quel pover'hom, con tanti colpi e tanti,
Di già battuto havevano el taccone.
L'altri sei, che capò, furno osservanti
Dell'ordine già dato, e la funzione
Seguitò meglio, e ancora non si stracca,
D'annar altrove a fatigà PATACCA.

Va tuttavia giranno Mastro Titta
Con le due pavoncelle, e la grimalda,
Et ecco, a capo d'una strada ritta
Si vede gente unita, e assai ghinalda.
D'un altro Turco favano sconfitta,
Che da 'na corda, ben tirata e salda,
Ch'era a traverzo stesa, in giù pendeva,
Et un laccio impiccato lo teneva.

È il pupazzo, che straziano costoro
Di carbon frabicato, e ben inteso,
Sul petto ce sta scritto a lettre d'oro:
"Oh questo nò, non l'haveria mai creso!".
C'era drento un ordegno, et un lavoro
Pe' fa, che pozza starce un chalche peso,
E l'ingegniero, assai speculativo,
Ci haveva rinserrato un gatto vivo.

Parte in sù, parte in giù confusi stavano
In strada certi sgherri, che tenevano
I cacafochi in mano, e li sparavano
Inverzo il Turco, e sempre lo coglievano.
Le palline il cartone trapassavano,
E i sgnavoli del gatto allor crescevano;
Le genti, che lo strepito sentivano,
Dove stasse la bestia, non capivano.

Col rumor delle botte d'archibusci
Fava concerto l'armonìa gattesca,
Et ecco, MEO commanna, che s'abbrusci
Tutta allor la figura cartonesca.
Incominza quel gatto a fa' dei busci,
Mentr'arde la materia, acciò che n'esca
El grugno prima, e poi del corpo il resto,
Raspanno con le zampe, presto presto.

In più lochi il cartone alfin si strappa,
E a raprillo l'aiutano le fiamme;
Il gatto allor precipitoso scappa,
Ch'arzo ha 'l pelo, arzo il mucco, arze le gamme.
Zompa giù in strada, e dove pò s'aggrappa,
Lesta è in fuggir la gente, ch'è rasciamme,
Perche la gonza, ch'arrivà si lassa,
Brutta burasca da 'sta bestia passa.

Mò qua, mò là, già mezza abbrustolita,
Curre con furia, mozzica, e sgraffigna,
Quanto arrabbiata più, tanto più ardita,
Co' le granfie s'allancia ', e i denti sgrigna.
Pe' scampà da 'sta bestia inferocita,
Bigna ch'ogn'uno si ritiri, bigna.
Pe' paura d'havè delle sgraffiate,
Strillan le donne, come spiritate.

L'homini ancor dell'animal feroce
Hanno paccheta granne, perchè questo,
Quanto la scottatura più gli coce,
Tanto più imbestialito esce di sesto.
Chi dice: "Frusta via", con alta voce,
Chi salticchia, chi fugge, e chi assai presto,
Perchè al fianco ha la lama", la sguaina,
Pe' menà, se la bestia s'avvicina.

Qui 'l popolo si slarga, e là si stregne,
Che il fiero gatto, dove po' s'avventa;
In loco salvo ogn'uno si ristregne,
Se nò, la bestia le staiole addenta.
Quanto più fugge, più a fuggì costregne,
Quant'è più spaventata, più spaventa,
Più gente vede, più insalvatichisce,
Più caccia se glie da, più s'infierisce.

Currenno, alla ferrata ecco s'affaccia
D'una cantina, e perchè troppo è cupa,
El grugno, che già prima drento caccia,
Ritira fora, e più non si dirupa.
Non così và di pecorelle a caccia
Nelle campagne un'affamata lupa,
Come inverzo la gente, 'st'animale,
S'affiala, e se pò farlo, fà del male.

Mentre ogn'un dal pericolo si scanza,
Lui s'arrampica in cima d'un rastello,
Che sta pe' mostra, come è antica usanza,
In su la porta d'uno scarpinello;
Stima sicura assai quest'abbitanza,
Però fermo ci sta; ma un farinello,
Ch'ha lo schizzetto in man, piglia la mira,
Giusto in mezzo al crapino , e poi gli tira.

Te l'azzecca, lo sfonna, e del mostaccio
Ne fa 'na pizza, e 'l gatto scapocolla,
Casca giù in terra, come fusse un straccio,
E pe' vedello, il popolo s'affolla.
Entra allora in tel mezzo, un spiritaccio,
Dico un sgherro, che Sugo di Cipolla
Se ciama, e la raggione se ne renne,
Perchè fa piagne, chi con lui contenne.

Prima 'l gatto co' i calci in alto sbalza,
Pe' ben ciarirzi, se più vive e sfilza
Dal fodero la lama, e te l'incalza,
Sino che con la punta te l'infilza.
Doppo, come un trofeo per aria l'alza,
Pendono il core, il fegato, e la milza,
Perch'è sventrato, e lui la mano impolza,
Forte lo regge, e il sangue cola e stolza.

Mentre di quello il portator s'impiastra,
Gnente affatto curarsene dimostra,
Bench'habbia un gipponcin fatto di lastra,
Pel gusto ch'ha della gattesca mostra.
Se ne va con baldanza giovenastra,
Come trionfato havesse in guerra o in giostra.
Dreto prauso gli fa calca pedestra,
E chi sente s'affaccia alla finestra.

Da truppe di regazzi insolentelli,
L'animale infilzato si corteggia;
Non mancano chiassate, nè bordelli,
E sempre su 'sto gatto si motteggia.
Ma lassamoli sta' 'sti mattarelli,
Mentre il Turco da loro si sbeffeggia;
Per me vadino pur, ch'io quì li pianto,
Ch'altre cose ho da dir nel novo canto.

Fine del Nono Canto.

 
 
 

Il Meo Patacca 09-2

Post n°1300 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Io non t'abbacchio, che te compatisco,
Perchè non sai quel che per te facèi,
Sol perchè la tu' moglie custodisco,
Tu contro me, così rugante sei.
Senti! sgherretto mio, non m'infierisco,
Quanto pe' scrapicciatte io doverei,
Perchè prima il servizio che t'ho fatto
Voglio che sappi, e che in bravà, sei matto".

Come un gallo ch'inarbora la cresta,
Quann'alza e slunga il collo, e poi s'imposta
Contro d'un altro gallo, e gli fa testa,
E il becco a quello del nemico accosta,
Se dall'acqua bagnato a caso resta,
Che vien da una finestra sopraposta,
E l'ale e 'l collo abbassa, e de fà guerra
Più non si cura, e si rannicchia in terra,

Così Titta atterrito si ritira
Tutto in sè stesso, e più non fa del bravo
In osservà di MEO la rabbia e l'ira.
Dice: "Io vi sono, e servitor, e schiavo;
Un chalche malalingua hebbe la mira
Di metter mal tra noi, mentre cercavo
Mi' moglie, e m'appettò la falza spia,
Che lei mi fù da voi menata via".

"So' giovane onorato, e no di quelli,
- Gli rispose allor MEO, - caposventati,
Che far ci vonno l'innamoratelli,
E delle belle figlie i spasimati.
Bigna distingue da 'sti bricconcelli
'Sto fusto, che quei modi ha sempre usati,
Che son civili, rispettosi, e onesti,
Nè fece mai quel ch'ogni dì fan questi".

Ciò ditto appena, a racconta si mette
Tutto il caso, che prima era successo
Minuto per minuto, inzino a un ette.
Gli dice poi, quel ch'operò lui stesso.
Titta, in sentir la cosa come annette
Disse a PATACCA: "Io ben conosco adesso,
Quanto ve sò obrigato, e quanno cresi
Tradito esser da voi, quanto v'offesi.

Di chiedeve il perdon quasi m'astengo,
Se nol merito propio, (e pur è vero),
Che sò un gran animale, allor ch'io vengo
Ad affrontarvi, imbestialito e fiero;
Ma perchè Voi, tra l'altri, il Maiorengo
Sete nel favorir, da Voi lo spero;
Per questo, supplichevole vel chiedo,
Che siate per negammelo non credo".

MEO, che spicciasse da costui vorrìa,
Che ha prescia di sbrigà le su' faccenne,
Ce fa pace ce fa; con lui s'avvia
Dove sta Tolla, che glie la vuò renne.
Sfilano presto presto in compagnia,
E poco tempo in tel camin si spenne,
Son già vicini, e MEO la porta adocchia,
S'accosta, et assai forte la sbatocchia.

Pe' non perder più tempo, lì de fora
Dice: "Madonna Tutia giù currete,
Venga con voi la gnora Tolla ancora,
Che su' marito è qui, dirglie potrete".
La scarpellina tutta si rincora,
E grida di là su: "Titta! ci sete?
Uh! manco male, se 'sta cosa è vera,
Vi dò, signore mie, la bona sera".

Zompa costei giù pe' le scale a un tratto,
E la seguita Nuccia, e Tutia puro;
Titta resta in vedetta, sodisfatto,
Mentre che l'onor suo stava in sicuro.
Nuccia, che vede messo in chiaro il fatto,
Che come prima non stà più allo scuro,
Brilla de gusto, e con allegra faccia,
Tutta dal cor la gelosia discaccia.

Tolla, mentre al marito fa accoglienza
Di riverì PATACCA non si sazia;
Racconta a Titta la su' diligenza,
E lodanno lo va con bella grazia.
Perchè la liberò dall'insolenza
Di tanti ciovettoni, lo ringrazia,
E Titta ancora fa le parti sue,
Sparanno cirimonie tutti due.

MEO, pe' dar l'incominzo alle su' feste,
Da 'sto cerimonia presto si spiccia,
Dice in tanto alle donne: "Annar potreste
Dove il foco alle machine s'appiccia".
S'offre lo scarpellino a servir queste, E
PATACCA l'approva, e se l'alliccia;
Ma prima a tutti prima fa un saluto,
Perch'è sgherro garbato e creanzuto.

Ci hanno gusto d'annà girandolone
'Ste femmine, a vedè li tanti sciali,
Ch'in ogni strada e piazza e ogni cantone
Ammannirno le genti dozzinali.
Tutia e Nuccia, che stanno un pò sciattone,
E di cocina ancor hanno i zinali,
Vonno tornare a salir su a mutarli,
Et a metterzi ancora i virli varii.

Fanno, pe' non usar incivilezza,
Salir Tolla, e giù resta mastro Titta;
S'abbelliscono intanto con prestezza,
La scarpellina osserva zitta zitta.
Nuccia, pe' fa spiccà la su' bellezza
Quanto più pò, s'acconcia, e ritta ritta
Sta innanzi al vetro sta, dove si specchia,
E si rinfazzonisce ancor la vecchia.

Questa, un largo zinal di filindente
Si mette, ch'è all'antica, ma galante,
Pigliato in presto da una su' parente,
Si lega uno scuffin sotto al barbante:
Nuccia, che lì teneva ogn'ingrediente
Per aggiustà la testa assai sfavante,
Si mette in capo, come adesso è stile,
Di scuffie e sfettucciate un campanile.

Lei puro ha 'l su' zinale, ch'in effetto,
Tal non è, ma più tosto un zinalino
Di cambraia sottil, ma però stretto,
Fatto all'uso moderno, e galantino.
Sotto, e da' fianchi è cinto da un merletto
Alto quasi ch'un palmo, et assai fino.
È di punto, e lo fece da sè stessa,
Perchè a fà 'sti lavori è dottoressa.

Rescon di casa 'ste tre donne unite,
E mastro Titta pur, che l'accompagna,
E pe' tenerle poi ben custodite,
Glie va accanto, e da lor non si scompagna:
A girà pe' le strade, che rempite
Son di lustrori, è propio 'na Cuccagna,
Et ecco, ch'a vedè s'incontran giusto
Un certo non so che, che gli dà gusto.

In una strada larga, e ritta in modo,
Che per un pezzo non ha svoltature,
A due legni, piantati in terren sodo,
Stan legate, di stracci due figure.
Una è il Gran Turco, che pe' rabbia un ciodo
Rode co' i denti, e pe' le su' sventure
Par, che tarrocchi, e l'altra è del Vissir,
Che seppe assedià VIENNA, e poi fuggir.

Quello sta iscontro a questo, ma discosto
Da cento passi in circa; assai stirato
Per aria uno sforzino c'è infraposto,
Al collo de i due Turchi avviticchiato.
Steso è a lungo pe' dritto, et assai tosto;
Un razzo, ad un de' capi sta legato,
E quanno da chalch'un se gli dà foco,
Scurre giù pe' la corda, e fa un bel gioco.

Ecco s'appiccia, e dal Gran Turco pare,
Che pe' bruscià 'l Vissirre mammalucco,
A lui s'addrizzi, e quello va ad urtare
Con gran velocità, di questo al mucco.
Si vede allora il razzo sfavillare,
E abbrustolir la faccia al vecchio cucco,
Che tutti lo figurano barbuto,
E pe' maggior disprezzo, ancor canuto.

Assai stupisce qui la gente sciorna,
Che della corda non s'è gnente accorta,
Ma più in vedè, ch'il razzo arreto torna,
E appuntino al gran Turco si riporta;
Ma mentre giù con impeto ritorna,
Un novo sbruffo di faville porta
Di quello in sul mostaccio, e par che sia
Vendetta del Vissir, ch'a lui l'invia.

Oh, qui, si strepiteggia, e si sghignazza.
Qui si cresce la calca a più potere,
Per così dire, il popol ce s'ammazza,
Del razzo in aspettà nove carriere.
Non bastarebbe manco una gran piazza,
A capì tanta folla; hanno a piacere
Truppe d'homini, e femmine assai folte,
Razzesche scorrerìe veder più volte.

Ma intanto altrove un stravagante sono,
Le chiama di tamburri assai scordati,
Però in realtà molto diverzo è il tono,
Per essere bigonzi rivoltati.
Molti n'han presi i sgherri, e se li sono
Un per uno, alla cintola attaccati;
Sul fonno con tortori van battenno,
E un tuppe tuppe, allor si va sentenno.

Poi vengono a cavallo a du' asinelli,
Fingenno d'esser Turchi, dui birbanti,
Dreto gli vanno certi sgherroncelli,
Stracciati, furibondi, e minaccianti.
Gli frustano le spalle, e fanno quelli,
E smorfie, e torcimenti, e strilli, e pianti;
Ma fingon, dalle fruste, haver tormento
Perchè vessiche son piene di vento.

Vien doppo un sumarotto un pò mulesco;
In testa ha un gran turbante a posta fatto,
In su la groppa un manto vissiresco,
Et alla coda c'è attaccato un gatto,
Che lo sgraffigna, e più d'un romanesco
Rifilanno lo và con un suatto;
Così il Turco si sbeffa; ma qui lasso
'Ste baie, e a dir cose più belle io passo.

Alzato, giusto in mezzo a una piazzetta
C'è un palco, ch'a vedello dà spavento,
A prima vista sì, ma poi diletta,
Che piace, benchè tetro, l'ornamento;
Un panno nero su ce s'imbolletta,
Ogni cantone ha la su' torcia a vento;
Parapetti non ha, ma solo il piano,
Acciò, chi è sopra, spicchi da lontano.

Un pezzo d'homaccion brusco alla cera
Sta su sbracciato, e non è già un fantoccio,
Ma in carne e in ossa una perzona vera,
Benchè immobbile stia, come un bamboccio.
Grufi i capelli son, la barba è nera,
Ha un roscio berettin fatto a cartoccio,
Con una sciabla in man da malandrino,
In atto sta di scapoccià 'l vicino.

Accanto a lui c'è un Turco a man dereto
Legato a un trave, e questo non arriva
Al collo, ma ce manca un mezzo deto,
Quanto non c'urti nel taglià, la sciva.
Col capo basso sta tremante e queto,
E questa puro è 'na perzona viva:
Al turbante, s'accorge chi l'adoccia,
Esser Bassà, da faglie la capoccia.

A poco a poco, il popolo s'ammassa,
Perchè la gente viè di tanto in tanto;
Dalla su' positura assai smargiassa
L'ammazzatore, alfin, si move alquanto;
Alza allora un riverzo, et in giù lassa
Scorrer la man con impeto tamanto,
Ch'in un attimo, a fè gran cosa è questa.
Con un colpo, al Bassà taglia la testa.

Sbalza questa sul palco, e il sangue schizza
Dal collo a tutta furia, et in giù penne
Dal trave il busto, ogn'uno il capo arrizza,
Slarga l'occi, e su i piedi ancor si stenne;
Resta poi for di sè la gente zizza,
Nè sa cose capir così stupenne,
E 'sta scapocciatura, ch'è in effetto
D'un'homo vero, è orror, più che diletto.

Fu questo, a dirla giusta, un gabbamento,
Che fece un ingegniero assai saputo,
E il crapiccio d'un tal ritrovamento,
A prima vista non fu cognosciuto;
Di raso giallo addosso un vestimento
Portava quel Bassà, d'oro intessuto,
Robba propio da gente signoresca,
Assai largo, assai longo, alla Turchesca.

Era aggiustato in modo che cropiva,
Quasi il su' capo tutto, e questo haveva
Attorno robba assai, ch' i vani empiva
Vicini al collo, e spalle esser pareva.
La capoccia per tanto, che appariva,
Era finta, e la vera s'ascondeva;
Un artifizio qui occultato stava,
Che calched'un non se l'immaginava.

Fu pigliata, pe' fa' 'sta bella botta,
D'una cucuzza longa una gran fetta,
Poi giusto alla misura fu ridotta
D'un collo umano, così tonna e stretta;
Sul capo vero, quanno il dì s'annotta,
La finta gola l'ingegniero assetta;
Su ci appoggia una testa, ch'è pur finta,
E che ha la faccia al natural dipinta.

Ma tra ch'il gran turbante giù calcossi
Sino alle tempie, e tra la cropitura,
Che fanno al viso, i baffi longhi e grossi
E tra l'artifiziosa dipintura,
Vero pareva il grugno, e rimediossi
Del corpo di quell'homo alla statura,
Diventata del solito più longa,
Se il collo cucuzzesco assai la slonga.

Le zampe tutte, e in parte le staiole,
Havenno il palco un buscio fonnarello,
Stavano sotto, e mezze gamme sole
Arrivavano sopra al par di quello;
La vesta stesa, come haver si suole
Da i Turchi, a chi non ha più che ciarvello,
Non fa cognosce gnente la mancanza,
Perchè tocca le tavole, e n'avanza.

Vivo dunque apparisce l'homo intiero,
Perchè ha dal capo in giù moto vitale,
Et il mostaccio poi, par che sia vero,
Per esser proprio fatto al naturale.
Non arrivò già subbito il penziero
Di molti a giudicà, che non sia tale;
Anzi più d'uno ci haveria scommesso,
Ch'era quel capo di quell'homo istesso.

Perchè sia verisimile l'effetto,
Perchè ben fatta l'opera si dica,
C'era piena di sangue di crapetto
In drento al collo finto, una viscica.
Mentre scarica il colpo, c'ho già detto,
Inverzo di colui sciabla nemica,
Par che si tagli, allor ch'il sangue spruzza,
Una gola, e si taglia una cocuzza.

Mentre si fa di maraviglia un atto
Dalla gente concorza, ch'era molta,
E resta calched'un, quasi ch'astratto,
Una tenna ch'è sopra, ecco vie sciolta.
Il palco in tel calà crope de fatto,
Pe' far il collicidio un'altra volta.
Si riaggiusta il negozio, e curiose
Van via le genti, pe' vede altre cose.

Si sentono però de i discorzetti
Da certi saputelli chiacchiarini;
Finto capo sul ver come s'assetti,
Strologà vonno, e fanno l'indovini;
Ma troppo a fè ridicolosi detti
Escon di bocca de 'sti dottorini,
Che quanto più sacciuti, ci pretendono
Di sapè quello ch'è, meno l'intendono.

A poco a poco il popolo si sfolla,
E MEO spasseggia d'un cavallo in sella,
Mentre lo scarpellin con Nuccia e Tolla
Va giranno, e con lor Tutia spianella.
Come due legni appiccica la colla,
Così la sposa è accosto alla zitella,
C'ha paura la povera figliola,
Di perderzi di nuovo, e restar sola.

Benchè Titta stia sempre su l'avviso,
Che nol torni a mena chalch'un pel naso,
Pur a Nuccia fu fatto all'improviso
Un affronto non so, s'a posta o a caso.
Di turco haveva el vestimento e il viso
Un bamboccio di stracci, e il capo raso:
Era impalato, e il popolo confuso
Stava attorno a vedè 'sto brutto muso.

Un fraschetta sgherroso insolentello,
Che s'era insopportabbile già reso
Pe' le su' impertinenze, un gran bordello
Fava intorno al pupazzo. Il posto preso,
Haveva in mano un mezzo rimoncello,
Et ecco, che lo tira a braccio steso,
E iscammio di colpì quel babbuino
Giusto azzecca di Nuccia in sul crapino.

Pur fa un colpo da mastro, allor che sbaglia,
Se te glie fà casca tutto il gran monte
Del fettucciame, e ancor della ciuffaglia;
Tutia, e Tolla con lei restano tonte,
Nuccia poi si confonne, e la travaglia
L'esser pelata un pò, verzo la fronte;
Mò con la man procura di pararzi,
Mò vuò fuggir, non sa quello che farzi.

A cogliere il castello giù si piega;
Pe' vergogna, abbassata, non s'arrizza,
D'esser brutta gli par com'una strega,
E in sentir rider tutti, ha una gran stizza.
Titta la sbalza drento a 'na bottega,
Qui Tolla il campanile glie riadrizza.
Più d'un s'accosta, pe' vedè chi sia
Costei, ma il bottegar li caccia via.

 
 
 

Il Trecentonovelle 38-47

Post n°1299 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXXVIII

Messer Ridolfo da Camerino con una bella parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimici, facendosi beffe di lui, perché fuor di Bologna non uscía.

Le notabil parole e i brevi detti di messer Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittore, trovandomi in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de' Fiorentini, e di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesa, quando il cardinale di Genèva, che poi ebbe nome papa Clemente in Vignone, era venuto con li Brettoni alle porte della detta terra, e uno nipote del detto messer Ridolfo nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spuleto, andando per guadagnare, come fanno gli uomeni d'arme, facendo scaramucce coi detti Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di messer Ridolfo, con disprezzamento gli diceano:
- Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga fuori, venga.
Gentile rispose ch'egli aspettava gente, e che ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di taglia, e lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in Bologna, e andando a messer Ridolfo, disse messer Ridolfo:
- Che dicono li Brettoni?
- Dicono: "Che fa questo vostro capitano, che si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo".
Disse messer Ridolfo:
- Come rispondesti?
Disse Gentile:
- Risposi che tosto usciresti fuori, però che voi aspettavate gente.
Disse messer Ridolfo:
- Mal dicesti, che Dio mal ti faccia.
E Gentile disse:
- Perché, messere?
Disse messer Ridolfo:
- Se' per tornarci?
Disse Gentile:
- Signor sí, però che ho portare loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.
Dice messer Ridolfo:
- Se ti dicono piú: "Perché non esce fuori messer Ridolfo?" e tu rispondi: "Perché voi non c'entriate dentro"; e d'altro non t'impacciare.
Or non fu bella parola questa a uno capitano di guerra? per certo bella e notabile, come se l'avesse detta Scipione o Annibale: e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro) di mostrare loro chi messer Ridolfo era, e da quanto, che se due volte gli avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parole, e quante piú ne avessono dette, da meno serebbono stati reputati.



NOVELLA XXXIX

Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da porci a messer Ridolfo da Camerino, ed egli lo rimanda in dietro con parole al detto Agnolino con dilettevole sustanza.

Molto fu da ridere quest'altro motto che segue del detto messer Ridolfo. Francesco, signore di Matelica, ebbe un tempo guerra col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francesco, rimasono suoi figliuoli, li quali, per istare sicuri e per difendersi da lui, uno Foscherello da Matelica, che era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome Boldrino, facea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerre, questo Foscherello, come cordiale nimico di messer Ridolfo, fece una cavalcata con gente d'arme sul terreno di messer Ridolfo, per la quale menoe e predoe ottocento porci, e condusseli a Matelica.
Stando per alcuni dí, non potendo messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimici, sopravvenne uno famiglio d'Agnolino Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a mano, e andato dinanzi a messer Ridolfo, e fatta la reverenza, disse che Agnolino Bottoni gli presentava quel cane. Messer Ridolfo, guardando il cane e 'l famiglio, domandò da quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:
- Da porci, signor mio.
E messer Ridolfo disse:
- E come ne piglia?
Il famiglio disse:
- Quando uno, e quando due per dí, secondo come l'uomo gli truova.
Disse allora messer Ridolfo:
- Amico mio, questo non è cane da me, rimenalo ad Agnolino, e di' che io l'ho per ricevuto, ma che questo cane non è per li fatti mia, se non piglia piú che un porco per volta. Se gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelica, che ne piglia ottocento per volta, priegalo che me lo mandi.
Il famiglio, udendo costui, e veggendo che dono non ricevea, si partí quasi scornato, rapportando il cane e la 'mbasciata ad Agnolino, il quale, intendendo il fatto disse che messer Ridolfo dicea molto bene, dappoi che elli avea aúta sí poca considerazione che, essendoli stati tolti in quelli dí ottocento porci, gli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse uno.
Quanto fu piacevole il detto di messer Ridolfo! ché rade volte interverrebbe che, essendo presentato uno dono a uno, e quelli non lo volessi e rimandassilo in drieto, che non ne portasse cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole che non che Agnolino ne portasse, ma e' confessò aver fallato, solo per la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.


NOVELLA XL


Il detto messer Ridolfo a un suo nipote, tornato da Bologna da apparare ragione, gli prova che ha perduto il tempo.

E questa che segue non fu meno bella novella, né meno bel detto, il quale disse a un suo nipote, il quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerino, essendo diventato valentrissimo legista, andò a vicitare messer Ridolfo. Fatta la vicitazione, disse messer Ridolfo:
- E che ci hai fatto a Bologna?
Quelli rispose:
- Signor mio, ho apparato ragione.
E messer Ridolfo disse:
- Mal ci hai speso il tempo tuo.
Rispose il giovene, che gli parve il detto molto strano:
- Perché, signor mio?
E messer Ridolfo disse:
- Perché ci dovei apparare la forza, che valea l'un due.
Il giovene cominciò a sorridere, e pensando e ripensando egli e gli altri che l'udirono, viddono esser vero ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittore, essendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono:
- Perché?
E io segui':
- Che apparate voi?
Dissono:
- Appariamo ragione.
E io dissi:
- O che ne farete, s'ella non s'usa?
Sí che per certo ella ci ha poco corso; e abbia ragione chi vuole, che se un poco di forza piú è nell'altra parte, la ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggi, che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote.


NOVELLA XLI

Molte novellette, e detti del detto messer Ridolfo piacevoli, e con gran sustanza.

E' mi conviene in questa novella, poi che io sono entrato a dire di questo valentre uomo, dire certi suoi detti; però che, al mio parere, e' fu filosofo naturale di pochissime parole. Dico adunque che un suo amico, che era stato gran tempo che non l'avea veduto, disse:
- Messer Ridolfo, voi siete ringiovenito dieci anni, poi che io non vi vidi.
E messer Ridolfo guarda costui con la coda dell'occhio, dicendo:
- Di quello che dici, ne prendo conforto, ma saccio che non ci dici lo vero.
Dicea il detto messer Ridolfo che non volea ch'e' servi suoi del suo avessono meglio di lui. Quando era il freddo grande, dicea:
- Andate accendere il fuoco, e là vi scaldate, e quando egli ha fatta la bracia, mi chiamate.
Volea ch'e' fanti avessono il fummo e non lo volea elli.
Essendo il detto messer Ridolfo al servigio del re Luigi di Cicilia, andando con certa gente d'arme, fu assalito; di che convenne che tutti si fuggissono a sproni battuti, e camporono. Tornato poi messer Ridolfo nel cospetto del re, e lo re gli disse:
- Ridolfo, per quanto aresti dato quelli sproni?
E quelli rispose:
- Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto ci sarei rattenuto a fare lo patto.
Le candele della cera facea volgere alla mensa sua capo piede, mettendo di sopra il lato piú grosso della cera verde, dicendo che alli servi suoi volea che toccasse poi il sottile e non a lui; e da questo si cominciorono a fare delle candele mozze.
Essendo a Bologna il detto messer Ridolfo capitano di guerra per li Fiorentini, quando ebbono guerra con la Chiesa, gli fu detto che 'l papa avea venduto o impegnato Vignone per voler far gran guerra; ed egli disse:
- Molto c'è savio lo papa nostro; vuol vendere quello ch'egli ha, per acquistar quello che non sa.
Quando messer Ridolfo fu con la reina e con gli altri a dare ordine che fosse fatto il papa da Fondi, tornando a casa sua, trovò messer Galeotto suo genero, il quale dicendoli quanto era contra a Dio e all'anima sua quello ch'egli avea fatto, rispose:
- Aiolo fatto perché abbiano tanto a fare de' fatti loro ch'e' nostri lascino stare.
Essendo il detto messer Ridolfo andato a vicitare messer Gian Auguth, che era con lo esercito suo fuori di Perogia, e andando poi a vicitare l'abate di Mon maiore che per lo papa signoreggiava Perogia, e in quelli dí era fatto cardinale, gli disse:
- Avendoci fatto male, se' fatto cardinale; se ci avessi fatto peggio, saresti fatto papa.
Avendo maritata una sua figliuola giovane a messer Galeotto, che era già vecchio, molti suoi prossimani e uomeni e donne gli diceano:
- Doh, messer Ridolfo, che avete voi fatto a dare una giovane a un vecchio?
Rispondea:
- Hoccelo fatto per noi, e non per lei.
Fu dipinto a Firenze, quando venne in disgrazia del comune, per farli vergogna; essendoli detto, disse:
- E' si dipingono li santi: sonci fatto santo.
Ancora per questa cosí fatta cosa essendo a una sua terra, e trovando un suo suddito che tornava d'acconciare sue vigne e suoi terreni, lo domandò onde venía; disse che venía d'acconciare vigne e altri suoi fatti.
Disse a certi che erano con lui:
- Pigliate costui, e andatelo ad impiccare pe' piedi
Costoro ed elli domandano:
- Signore, perché?
Ed elli rispose:
- Perché li Fiorentini m'hanno fatto impiccare pe' piedi perché io ci ho fatto i fatti miei; secondo quella ragione e quella legge (ché si dee credere ch'e' Fiorentini ne veggano assai) costui dee essere impiccato; andate e impiccatelo.
E stante un poco lo licenziò; e per questo scusava sé, e accusava altrui.
Dicea che de' santi si facea come del porco: quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e cosí per la morte de' santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.
Ancora spesso dicea: "Tristo a quel figlio, che l'anima del suo padre ne va in paradiso".
Quando li Fiorentini nel MCCCLXII ebbono guerra co' Pisani, essendo elli capitano di guerra, e avendo posto il campo in Valdera, avendo due consiglieri fiorentini, forse mercatanti o lanaiuoli, li quali una notte pensarono che 'l campo non stava bene in quel luogo e che egli starebbe meglio su uno monte ivi vicino; e levatisi la mattina con questo pensiero, tirorono messer Ridolfo da parte e dissono che parea loro che 'l campo stesse molto meglio nel tal luogo; messer Ridolfo, come gli ebbe uditi, ghignando e guardandogli disse:
- Iate, iate, iate sí alle botteghe a vennere i panni.
Se dicea il vero ogni uomo il pensi, quello che ha a fare la mercatanzia o l'arte meccanica con la industria militare.
Non tenendosi quelli del reggimento di Fiorenza contenti di lui nella fine della guerra della Chiesa, lo feciono dipignere, come a drieto è detto. Di che, dappoi a certo tempo, essendo stato spinto, furono mandati a lui certi ambasciadori fiorentini a' quali fece due cose. La prima, che essendo a tavola del mese di luglio da lui convitati, era di drieto a loro a uno camino cosí acceso un gran fuoco, come se fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciadori, sentendo alle spalle il fuoco penace per lo sollione, domandorono messer Ridolfo che cagione era il perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo rispose che ciò facea perché quando i Fiorentini l'aveano dipinto, l'aveano dipinto sanza calze in gamba; di che per quello avea sí infrigidite le gambe, che mai da là in qua non l'avea possute riscaldare, e però gli convenía tenere il fuoco presso per riscaldarle. Gli ambasciadori sorrisono un poco, ma quasi ammutolorone. Poi seguendo alle vivande vennono capponi lessi, e le lasagne, le quali messer Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi ch'ella fosse tiepida, e quelle degli ambasciadori venissono bollenti e caldissime in tavola. E cosí alla tavola gionte, messer Ridolfo comincia sicuramente pigliarne pieno il cusoliere. Gli ambasciadori, cosí veggendo, ebbono per fermo poterle pigliare altresí sicuramente; onde al primo boccone tutto il palato si cossono, sí che l'uno cominciò a lagrimare, e l'altro cominciò a guatare il tetto, e a singhiozzare.
Messer Ridolfo dice:
- Che miri?
E quelli dice:
- Guardo questo tetto, che fu cosí ben fatto: chi lo fece?
Dice messer Ridolfo:
- Fecelo maestro Súffiaci; nol conosci tu?
Gli ambasciadori intesono il tedesco, e lasciorono affreddare le lasagne; e fra loro poi dissono:
- E' ci sta molto bene, che corriamo subito a dipignere gli signori come fossono portatori ed elli ci ha ben dimostrato quel che ben ci sta.
E cosí quasi scornati si tornorono a Firenze, dove saputa la novella, fu tenuto messer Ridolfo avere renduto pan per focaccia.
Avea mandato un fante con lettere, e preso da un suo nimico, gli fa tagliare le mani. E tornando al detto messer Ridolfo con le mani mozze, disse:
- Signor mio, questo ho aúto per voi.
Ed elli rispose:
- All'abbottonar te n'avvedrai, se l'avrai aúto o per te o per me.
Essendo ripreso da Messer Galeotto ch'egli era vecchio sanza figliuoli maschi... maritare e tenea certe terre altrui, rispose:
- Saccio che ognora...
E lo re Carlo mandò a dolersi di lui, che avea dato aiuto al duca... per venirli addosso. Rispose:
- Hogli messo il calderugio nella gabbia; ora sta, se lo sa pigliare.


NOVELLA  XLII


Messer Macheruffo da Padova fa ricredenti i Fiorentini di certe beffe fatte contro a lui da certi gioveni sciagurati, e con opere ancora il dimostra.

Messer Macheruffo de' Macheruffi da Padova, antico cavaliere d'anni, e anticamente venuto podestà di Firenze, in questa novella tiene molto bene la lancia alle rene a messer Ridolfo. Però che, venendo podestà di Firenze, come è detto, con uno tabarro e co' batoli dinanzi in forma da parere piú tosto medico che cavaliere, fu ragguardato e considerato da tutti, e massimamente da certi nuovi uomeni e sollazzevoli, li quali piú che gli altri facendosene beffe, proposono di fare sopra lui qualche cosa; e come che 'l fatto s'andasse, il primo dí che entrò in officio, venente la notte, gli fu appiccato con certi chiovi un buon numero d'orinali alla porta, ciascuno con orina dentro. La mattina seguente per tempo, aprendosi lo sportello, ché volea andare il cavaliere alla cerca, tirando lo sportello il portinaro, vidde ben dieci orinali essere appiccati ad esso. Di che maravigliandosi e facendosi fuora a guardare la porta, vidde tutto il rimanente, e subito corre a dirlo al podestà; il quale, inteso che l'ebbe, disse:
- Va', e fagli tutti venire su e fagli venir ben salvi, che non se ne rompa alcuno.
E per questo fare, convenne che 'l cavaliere adoperasse tutta la famiglia, che era apparecchiata d'andar con lui alla cerca, a portare li detti orinali dinanzi al podestà. Veggendoli il podestà se gli cominciò a uno a uno a recare in mano, e guardando l'acque, gli diede poi a' fanti che gli appiccassino intorno alla sala grande, e se non v'era dove, fece conficcare degli aguti. Cosí comandato, fu fatto; avendo considerato questo valentre uomo quelle tante e diverse acque, né piú né meno che facesse un medico.
L'altro dí seguente, o che 'l consiglio si facesse come anticamente in quella sala si facea, o che 'l podestà mandasse per molti nobili cittadini; gli quali giugnendo sanza sapere il fatto, tutti, veggendo quelli orinali, si maravigliavano; e cosí essendo ragunati, il podestà giunse fra loro, e cominciò a dire:
- Signori fiorentini, io ho sempre udito dire che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni qui, in sí piccolo tempo conosco voi sete molto piú savi che non ci si crede; e la prova il manifesti: che essendo io venuto qui vostro podestà, e voi, come savi, considerando che 'l rettor della terra conviene che purghi li vizii e' malori di quelli che ha a reggere, né piú né meno come il medico conviene che curi le infirmità de' suoi infermi, mi avete in questa notte appresentato le vostre acque, li vostri segni in questi orinali che vedete d'intorno appiccati, li quali orinali mi sono stati confitti alla porta; e io avendoli proccurati, come che molto sofficiente in medicina non sia, veggio e ho compreso in questi vostri cittadini grandissime infirmità, le quali con la grazia di Dio penserò di curar sí che io vi creda lasciare piú sani, e in migliore stato che io non vi truovo.
Quando costui ebbe cosí parlato, li cittadini si tirorono da parte, e feciono uno risponditore per tutti; il quale disse al podestà che non potea essere che nelle gran terre non fossono diverse condizioni di genti, e semplici e sciocchi e matti; e che lo confortavono che cercasse chi avesse quelli orinali appiccati, e che ne facesse sí fatta punizione che a tutti gli altri fosse esemplo, e molte altre cose.
E 'l podestà disse loro:
- Voi mi dite che ci sono diverse genti e ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti: ché, se tutti li populi fossono savi, non bisognerebbe ci andasse rettori e oficiali.
E cosí presono commiato e partironsi.
Il qual podestà rimaso, come che fosse valentre uomo, mosso ancora dallo sdegno, non dormío; ma con informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che erano di mala condizione e di cattiva vita; e cominciò ora uno per ladro, ora due per micidiali, e quando tre e quando quattro, e mettitori di mali dadi e d'altre pessime condizioni, a spacciare e mandarli nell'altro mondo, e ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali. E in brieve tanti ne impiccò, e tanti ne decapitò e justiziò per ogni forma, che nella fine del suo officio lasciò sí sanicata e sí guerita la nostra città che si riposò molto bene per assai tempo.
E però non si dee mai giudicare secondo le apparenze, e fare scherne d'altrui, e massimamente de' rettori; però che l'apparenza mostra molte volte quello che è d'assai, dappoco, e quello che è dappoco, mostra d'assai. Come che io credo che questa fosse permissione di Dio, volendo che ciò avvenisse perché li cattivi fossono puniti, e che quella mala erba fosse diradicata per forma che quella città ne rimanesse in migliore stato.


NOVELLA  XLIII

Un cavaliero di piccola persona da Ferrara andò podestà d'Arezzo: quando entra nella terra s'avvede essere sghignato, e con una parola si difende.

Meglio s'avvide degli atti, che gli Aretini faceano contro a lui, uno cavaliere piccolo e sparutissimo da Ferrara, quando entrò capitano d'Arezzo, che non fece messer Macheruffo, però che nel principio del suo officio al giuramento tagliò la via a chi avesse animo d'appiccare orinali o fare simili frasche. Però che, avveggendosi nel suo entrare in Arezzo che molti ghignavano e sghignazzavono della sua sparuta personcina, tutto sdegnoso n'andò alla maggiore chiesa, dove gli anziani e' rettori erano presenti, a farli leggere li capitoli e dare il giuramento. Quando il cancelliere ebbe letto ciò che dovea, gli porse il libro e disse:
- E cosí giurate a le sante die Vangele?
E 'l capitano guardando dattorno verso il populo disse
- Io giuro ciò che è...

NOVELLA XLVII (frammento)

... Tasso se la guerisse. Però che io sono stato con lei quarantatré maladett'anni, e ora dice che mi vuol venir drieto. Non sia, per l'amor di Dio. Arrogete ancora al maestro Giovan dal Tasso il maestro Tommaso del Garbo, e a loro due per egual parte lascio li fiorini duecento in quanto la guariscano.
Li parenti furono tutti suso, e spezialmente li fratelli della donna.
- O Jacopo, che volete voi fare? volete voi lasciare a' medici il vostro? ove rimarrebbe la vostra fama? ché ciascuno dirà: "Jacopo ha voluto lasciare piú tosto a due medici, che l'hanno forse sí mal curato che se n'è morto, che lasciare a una sua moglie che l'ha servito quarantatré anni, che non gli tocca per anno, lasciandole fiorini ducento, fiorini cinque". Or pensate bene.
E quelli rispose, che appena si potea intendere:
- O che so io chi m'ha piú tosto morto, o' medici, o ella?
E brievemente tanto fu combattuto che quasi come vinto, o col dire "sí" con parole o con cenni, il testamento ritornò che lasciasse alla donna fiorini duecento, e questo fece a grandissima pena: e poco stante si morí. E la donna fece il pianto grandissimo, come tutte fanno, perché costa loro poco; e sotterrato il marito, e rasciutto le lacrime, se avea difetto, si fece curare gagliardamente, e poi intese ad acconciarsi per sí fatta maniera che, con la dota sua e col lascio, in meno di due mesi uscío de' panni vedovili e rimaritossi.
Se la donna fece dello infingardo, molto gli stava bene, che gli andasse drieto: ma io credo ch'ella concepea nella sua mente di mostrarsi nelle parole e negli atti che 'l marito li lasciasse acciò che, morto lui, si potesse meglio rimaritare com'ella fece.
Niuna cosa si passa e dimentica, quanto la morte; e la femmina che piú si percuote e nel pianto e nel lamento è quella creatura che piú tosto la dimentica; e questa ne fa la prova, ché appena era sotterrato il marito che pensò d'averne un altro; e 'l marito andò forse a torre una moglie in inferno, per aver fatti lasci che espettavano piú al corpo che all'anima; e quella ch'egli avea lasciata, non accese mai una candela per l'anima sua.
Per questa donna si può notare leggiermente questi tre versetti:
Donna non è, che non adori Venere
Tal in sua deità, e qual è vedova
Non si cura di quel ch'è fatto cenere.

 
 
 

Er patteggiamento

Post n°1298 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Er patteggiamento

"A Sor Procurato', oggi che famo?"
"Seconno me è mejio 'n ber patteggio,
chè si fai causa te va puro peggio:
si solo fai l'aringa, l'addobbàmo".

"E si ar criente mio nu' je sta bene?,
mettemo che poi doppo se ne pente ..."
"Male pe' lui. A me me frega gnente,
mica so' io che porto le catene".

"Ma su la pelle sua famo l'affari?"
"Rifretti: è mejio confessa che c'era
armeno co' 'n par d'anni semo pari!".

Dice che questa è la Giustizzia vera.
Sarà, ma puro co' li patti chiari
è sempre tanto lunga la galera.

Goffredo Giorgi
da "De iure scontento" dieci "sonetti satanici" in vernacolo romanesco presentati da Luciano Revel, Roma, 1989.

 
 
 

Er paradiso perduto

Post n°1297 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Er paradiso perduto

Quanno magnavo pane co' pandette
studiavo sì, bevennom'er zudore,
però a 'gni causa me battev'er core.
E mo' quer libbro l'hanno fatt'a fette.

Quanno che noi studiassim'er latino
c'énno valori 'n po' de tutt'i tipi,
ce staveno 'n casino de principi
e mo' stam'ar principio der casino.

Ce fusse uno che fa 'na risata,
ch'oggi se sente 'n principe der "Forum"
e 'n vede la Giustizzia condannata!

Mo' ch'hanno fatto 'sta "cessio bonorum"
metti l'occhiali e datte 'na guardata:
s'aritrovamo 'n ber "cesso malorum"

Goffredo Giorgi
da "De iure scontento" dieci "sonetti satanici" in vernacolo romanesco presentati da Luciano Revel, Roma, 1989.

 
 
 

Il Meo Patacca 09-1

Post n°1296 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO NONO

ARGOMENTO

Spasima Nuccia assai pe' gelosia,
Ma non è vero poi, quel che lei penza:
S'imputa MEO d'uninsolentarìa,
E lui sa discropì' la su' innocenza;
Scarpina intanto ogn'un, e ha fantasia
D'annar a vede la compariscenza
D'altre feste ammannite; et in più banne,
Ci son machine, e c'è concorzo granne.

Tolla con Tutia era di già salita
Nella stanza di sopra, e in adocchialla
Nuccia a un tratto restò come intontita,
E appena fiato havè de salutalla.
Quella renne il saluto, assai compita;
Da capo a piede intanto, d'osservalla
Nuccia non lassa, e in un'occhiata sola
Tutta la squatra, e non fa ancor parola.

La ciospa vede Nuccia, che s'ammusa
Al venì de 'sta giovane vistosa
E che resta sospesa, anzi confusa,
Per esser di natura assai gelosa.
Accosta tre sediole, e fa la scusa
Con dir, che non ritrova miglior cosa
Nella su' guardarobba, e co' 'sto scherzo,
Senz'altro repricà sedono in terzo.

Et ecco si fa un'atto di commedia,
Perchè di Nuccia il cor crepa d'invidia,
La Scarpellina coll'occhiate assedia,
Par che con quelle far gli voglia insidia.
A lei più allor s'accosta con la sedia
E in sempre più guardalla, ce profidia.
Già l'affetti di MEO, quasi ripudia,
Di saper chi è costei, tra sè già studia.

Inteso haveva prima dalla buscia
Che risponneva in sopra della porta,
Di MEO la voce, e questo assai gli bruscia
Perchè una fiera gelosia gl'apporta:
Non sa se sia Donna onorata, o sdruscia,
Per indurla a scropì da sè la torta
Glie fa bel bello, acciò al su' fine arrivi,
Quest'interrogatorij suggestivi.

"Per quanto so veder, Vossignoria
È sposa nè? Non credo d'ingannarmi;
Questo abbito mi pare, che ne dia
Tal contrasegno, che potrìa bastarmi;
Pur m'è caro saper, se il vero sia,
E dell'ardir La supplico a scusarmi,
Che per nostra natura, in certe cose
Noi altre donne semo un pò curiose".

Tolla, che ci pretenne, e assai glie piace,
De fa' pur lei la bella parlatrice,
Pe' mostrasse una giovane vivace,
Con un po' di sogghigno, così dice:
"Vedo Signora mia, che si compiace
Scherzar con me, che son Sua servitrice,
So' sposa in quanto, ma nel dire ha torto,
Che ne dia segno l'abbito che porto.

Vesti son queste mie, da bon mercato,
robba ordinaria assai da poverella,
E un abbituccio, che l'ho merlettato,
E liscio lo portavo da zitella.
Non ha volzuto mai ch'habbia sforgiato
Mi' marito, che in testa ha certa quella,
Con dir, che non sta bene, che sian visti
Tanti lussi alle mogli degl'artisti".

"E qual'è, - dice Nuccia -, il Suo mestiere,
S'è lecito saperlo?". Ha gran premura
D'intender, se 'ste cose son poi vere,
Perchè di calche trappola ha paura.
Tolla gusto non ha di far sapere
La scarpellineria, ma con drittura
Risponne, e tell'imbroglia, e fa' pulito:
"Lavorator di Pietre è mi' marito".

"Farà dunque l'orefice" de fatto.
Nuccia glie replicò. Ma Tolla allora
Fece un tantin di smorfia, et in quell'atto
Disse, scrullanno il capo: "Nò signora.
Io non parlo di gioje, error ho fatto,
A non spiegarmi meglio. Lui lavora
Pietre, che non son manco marmi fini,
Ma bensì sassi grossi, e travertini".

"Si, si, fà lo scultore, adesso ho inteso,
Me ne rallegro assai" Nuccia ripiglia,
"Già me l'immaginavo, e già l'ho creso,
Ch'era civile assai si' bella figlia".
"A Lei piace il bel dir", così ripreso
Fu da Tolla il discorzo." S'assomiglia,
Ma non è questa l'arte, non è in quanto,
Mio marito scultor. Ma sta lì accanto".

Nuccia s'accorge allor, perch'è una quaglia,
Che l'impiccia costei, nè parla schietto,
Quel che vuò dire intenne, e non si sbaglia;
Si volta a Tutia, e te glie fa l'occhietto.
Ma pe' 'ste cose più non la travaglia,
Perchè cognosce, che glie fa dispetto,
In volerla sforzà con più parole,
A faglie dir, quel che lei dir non vuole.

Parla d'altro così: "Mi favorisca,
Se non è impertinenza, questa mia,
Di dirmi il nome Suo; mi compatisca,
Perchè a mente io tener me lo vorria.
Già che vuò 'l caso, che La riverisca,
Troppo scortese et incivil sarìa,
Se saper non volessi a chi ne devo
Questo favor sì granne, ch'io ricevo".

Allor Tolla: "Signora! mi mortifica,
Se di una serva Sua vuò haver memoria.
Per ubbidir, da me se Le notifica,
Ch'il mio nome legitimo è Vittoria.
Ma dalle genti in parte si falsifica,
Che di me fanno al solito l'istoria
Di chiamarmi col nome frollosetto,
E mi dicono Tolla a mi' dispetto".

"Questo spesso succede, e chi Lauruccia,
E chi chiamano Lulla, e chi Palmina".
L'altra rispose: "A me dicono Nuccia,
A chi Tilla, a chi Pimpa, et a chi Nina,
A chi, dall'arte poi, la Barbieruccia,
A chi l'Ostessa, a chi la Scarpellina".
Così una staffilata glie l'avvia:
Quella finge ch'a lei data non sia.

Seguita Nuccia a interroga l'amica
Intorno a quello, ch'assai più glie preme,
E con arte procura, che glie dica,
Perchè lì venne con PATACCA insieme.
Saper il nome non gl'importa mica,
Nè il mestier del marito, e solo teme,
Che di costei PATACCA amante sia,
E glie rosica il cor la gelosia.

Così dunque glie parla: "Come ha viste
Signora Tolla delle belle cose?
Sento che molte case sian proviste
Di belle illuminate ', e assai gustose.
So, che molte mie amiche, benchè artiste,
Perchè di farsi onor volonterose,
N'han preparate certe in varie bande,
Che credo voglin dar un gusto grande.

Le genti ricche poi, ch'hanno da spennere,
Havran saputo meglio applaudire,
E quantità di lumi fatti accendere,
E messe in mostra cose da stupire.
Ma, che raggiono? e che vogl'io pretendere
Quel, che c'è da veder, volerglie dire?
Da lei stessa, ch'il tutto, se non sbaglio,
Visto haverà, ne posso haver raguaglio.

Il signor MEO, che seco La condusse,
Ch'ha maniera d'entrà per tutti i lochi,
Come appunto il patron d'ogn'uno fusse,
C'havrà fatti veder e lumi e fochi,
Dall'A per fino a conne, ronne, e busse.
Lui sa, de i pari sui, ce ne son pochi,
E col suo ingegno acquista onor e fama,
E signor della festa ogn'un l'acclama.

Ma perchè lo conosce molto bene
La signora Vittoria, altro non dico,
Sol dirò, che lodarlo a ogn'un conviene,
Se della verità non è nemico.
È fortunata poi, se con lei viene
Servendola, sì buon, sì degno amico;
A creder io mi dò, ch'un pezzo sia,
Che conversi con lui Vossignoria".

"Signora Nuccia! mi fo meraviglia,
Che Lei tacciar mi voglia su l'onore".
Tolla glie risponnè. "Sappia, che piglia,
Per dirgliela alla schietta, un grosso errore.
Troppo male il sospetto la consiglia,
Se doppo havermi fatto ogni favore,
Mi scusi in grazia s'io così raggiono,
Me gli fa creder quella ch'io non sono.

Giuro, ch'in tutto il tempo di mia vita
Una sol volta ho 'l signor MEO veduto,
E questo fu, per essermi smarrita,
Per un caso a me in strada succeduto.
È bensì verità, che già sentita
Havevo la sua fama, e ancor saputo,
Ch'era un giovane sodo, e savio assai:
D'andar con lui, per questo io mi fidai".

Nuccia le guancie allor vergognosette,
Del color d'una rosa, ch'è incarnata
Le tinze, e ben intanto cognoscette,
Ch'in parlà troppo libera era stata.
Con un ripiego al mal rimedio dette,
E fu d'havè la torta rivoltata:
"Non parmi, - disse, - haverla offesa in niente,
Pigliando il signor MEO per Suo parente.

La prego a perdonarmi, ch'io per sogno,
Non pretesi macchiar l'onor di Lei,
E con me stessa assai me ne vergogno,
Che meglio farmi intender non sapei",
"Di più scusarsi no, non c'è bisogno",
Tutia allora interzò. "Non crederei,
Che per una parola a caso detta,
Questa signora in collera si metta".

Di risentirzi subbito s'astenne
Tolla, che mostrà volze haver già crese
Le fatte scuse, e che più non s'offenne,
Dello sconcio parlà, che già n'intese.
Il caso, ch'al marito e a lei n'avvenne,
Messosi a raccontà, fece palese
La causa, perchè MEO prima glie parla,
Perchè fin lì poi volze accompagnarla.

Quanno Nuccia sentì la storia tutta,
Scacciò dalla su' mente ogni suspetto,
E fece giusto, come fa una cutta,
Ch'entrò a caso in tel fango inzino al petto.
S'impacciuca, sta grufa, e poi s'asciutta,
Messasi al sole in su una loggia, o tetto;
Slarga l'ale, si sgrulla, si rimena,
Zompicchia, glie ritorna e fiato e lena.

Così Nuccia, che prima era scontenta,
Et agrufata pe' li gran penzieri,
Che divorarzi el cor par che si senta
Dal dente dell'invidia, e che disperi,
Si ringalluzza adesso, et è contenta,
Mentre i suspetti sui gnente son veri,
All'occhi il brio, torna alla bocca il riso,
La pace al core, et il colore al viso.

Zompa su dalla sedia allor la vecchia,
Che così allegra la patrona adocchia,
E quello, che sentì con tese orecchia,
S'accorge bene, che non è pastocchia.
Pel gusto ch'ha, la tavola apparecchia,
Stritola sotto a i piedi una conocchia,
Vicino al focolare s'accovacchia,
Foco gli dàa con appiccià una tacchia.

Le legna accende poi con il soffietto,
Fa in prescia una frittata alla padella,
Riscalla ancora un quarto di crapetto,
E frigge parte d'una coratella,
Dell'altra in un tegame fa un guazzetto.
Et affettata certa mortatella,
Mette all'ordine il tutto, e non è moncia,
Ma presto presto l'insalata acconcia.

Fornite 'ste faccenne, fa l'invito
A Tolla, che ricusa schizzignosa,
Con dir, che ha da cenar con su' marito,
Che già in casa ammannita era ogni cosa.
Aggiunge poi, che havendolo smarrito,
È tutta inquieta, tutta penzierosa,
E perchè ancor di lui nova non hebbe,
Non potrìa manda giù manco il gilebbe.

Nuccia la prega ancor, ma lei più dura,
È d'una selcia e d'una travertina,
Più d'un aspida sorda, non si cura
Di mostrarzi cocciuta, e più s'ostina.
Vedenno perza già la lisciatura:
"State almen qui alla tavola vicina",
Dissero Tutia e Nuccia, e lei disposta
Si mostra ad ubbidire, e allor s'accosta.

Taffiano quelle, e questa a denti asciutti
Sta lì a sedè, facenno la svogliata,
Benchè avanzi la robba, e che si butti,
Per dir così, sta sempre più incocciata.
La vecchia alfin, prima che venga a i frutti
Glie dà sul pane un pezzo di frittata,
E vuò pe' forza vuò, che la riceva,
E che alla meno una sol volta beva.

Tolla 'sta cortesia non la rifiuta,
Ma sol perchè sforzata è dalla grima,
Pe' non sentilla più, s'è risoluta
Far quello mò, che far non volze prima.
Con un sol brinze tutte due saluta,
E da loro quest'atto assai si stima,
E con prescia ignottito giù 'l boccone,
Sciuccanno el vetro, fanno a lei raggione.

Mentre 'ste donne a tavola solazzano,
E con belle parole s'accarezzano,
Più facezie raccontano, e sghignazzano,
E a trattarzi da amiche, allor s'avvezzano;
Taccolanno sta MEO, che l'imbarazzano
Certi, che falze accuse ricapezzano,
E volenno attizzà per quanto pozzano
Titta contro di lui, pastocchie accozzano.

Più d'uno, ch'ucellà voluto havrìa
Tolla, al gonzo marito da ad intennere,
Che MEO se l'era già menata via,
Forzi per non volerla a lui più rennere.
Titta di rabbia allora e gelosia
Si sentì tutto in drento al core accennere,
Cerca PATACCA e Tolla ancor con lui,
Con penzier di far male i fatti sui.

Ma gnente fu difficile, il poterlo
Presto ricapezzà, s'in tel cercarlo,
Cercato era pur lui, senza saperlo,
Perchè girava MEO per incontrarlo.
Come ben spesso in te la macchia il merlo
Spiega il volo qua e là, senza fermarlo;
Così questi, mò in su, mò in giù scarpinano,
Pur alla fine a caso, s'avvicinano.

Titta, appena dà in MEO 'na sguerciatura,
Ch'inverzo lui si spicca, e grida forte:
"Dov'è mi' moglie? a noi! La tu' bravura
Mica scampà, non ti farà la morte".
La lama intanto sfoderà procura,
E MEO pe' rabbia fa le labra smorte,
Ma roscio el viso, e t'alza immantinente
La man dritta, pe' daghe un sciacquadente.

Nel tempo stesso della sferra il pomo
Con la mancina gl'aggrappò. S'astenne,
Perchè la volze fa' da galantuomo.
Di dagli allora un sganasson solenne:
"Senti! - gli dice poi - di farci l'homo,
Con me, non ti riesce, e se ti venne
Suspetto in capo, senza smargiassate,
Se parla, e non se fanno 'ste levate.

 
 
 

'A Ripubbrica Itajana

Post n°1295 pubblicato il 27 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

'A Ripubbrica Itajana

Só' Ccammera e Ssenato 'r Parlamento,
quelo che cià 'r poter leggislativo.
Ce stà ppuro 'r potere esecutivo,
che più sse move e mmeno sei contento.

Ma poi nu' abbasta, ce só' le Reggioni,
co' 'n grann' ambaradà de conzijjeri
tutti azzimati e coi faccini fieri
e ppuro loro rompeno i cojoni.

Ce stanno li comuni e le province
che pe' vvedé 'ndo vanno li quatrini
tocca che ddevi avé l'occhi de lince.

Li peggio só' i bburocrati, tra ttutti,
che ccosteno 'n ber po' de mijioncini,
pe' nnun ffà ggnente, bbrutti farabbutti!

Valerio Sampieri
27 febbraio 2015

 
 
 

Er Presidente ...

Post n°1294 pubblicato il 27 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Er presidente der conzzijio

Ho vvisto quarche ccosa de 'n po' strano.
Voressivo sapé tu sì cche d'era?
Ho vvisto 'n tizzio co' 'na bbrutta cera,
ma era la faccia, mica 'r deretano.

Eppuro, devo dì, je somijava,
pe' cquant' ereno tónni li guanciotti,
a 'n paro de bruttissimi chiappotti,
solo che lui, dar culo, nun parlava.

Chi è Mmìste Bbìnne tu cce l'hai presente?
De viso lui nun pare troppo svejo,
ma cià lo sguardo mórto meno assente

de 'sto toscano che cce stà a 'ncasìna.
Possibbile che nnun ce stà dde mejo?
Povera Itaja! Semo a la rovina!

Valerio Sampieri
27 febbraio 2015

 
 
 

L'esiggenze cautelari

Post n°1293 pubblicato il 27 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

L'esiggenze cautelari

Mettemo ch'hai menat'a 'na vecchietta
e l'hai stecchita co' 'na cortellata:
si dichi ai Gippe "è vero je l'ho data"
a la Lungara ce poi sta' 'n'oretta.

Si invece freghi 'n par de lampadari
e dichi ar Gippe che nun c'entri gnente,
allora la galera è permanente
pe' via de l'esiggenze cautelari.

Inzomma, ner dumila, l'innocente
si 'nziste ha da porta' li schiavettoni
armeno finchè 'r Giudic'è 'siggente,

pe' cui, co' ste moderne concezzioni
er gabbio nun è fatto pe' 'r fetente
ma solo pe' chi rompe li cojoni.

Goffredo Giorgi
da "De iure scontento" dieci "sonetti satanici" in vernacolo romanesco presentati da Luciano Revel, Roma, 1989.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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