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Messaggi di Giugno 2015

Che lingue curiose!

Che lingue curiose!

Sta tu' (1a) Francia sarà una gran Città,
ma li francesi che nascheno llì
hanno una certa gorgia de parlà
che ssia 'mazzato chi li pô ccapì.

Là ttre e ttre nun fa sei, tre e ttre ffa ssì, (1)
e, quanno è robba tua, sette a ttuà. (2)
pe ddì de sì, sse (2) burla er porco: uì:
e cchi vvô ddì de nò disce: nepà

E m'aricordo de quer zor Monzù
che pprotenneva (2b) che discenno a ssé, (3)
discessi (3a) abbasta, nun ne vojjo ppiú.

E de quell’antro che mme se maggnò
’na colazzione d’affogacce un Re,
e me sce disse poi che ddiggiunò?!

Giuseppe Gioachino Belli
7 dicembre 1831
Sonetto 297

Note:
1a Questa tua.
1 Per esempio: six pauls, ecc.
2 C’est à toi.
2a Si.
2b Pretendeva.
3 Assez.
3a Dicesse.

Mia libera traduzione annotata
(tutti i versi del sonetto terminano con parole tronche, caratteristica tipica della lingua francese); le annotazioni sono poste in parentesi quadra:

Questa tua Francia sarà pure una gran città, ma i francesi che colà nascono hanno un modo di parlare così particolare, che possa essere ucciso chi li capisce.

Là tre più tre non fa sei, tre più tre fa sì [pronuncia francese della parola "six"] e quando si parla di cose di tua proprietà, sette a te ["sett'a tuà" è la pronuncia francese di "c'est a toi", "è tuo". Il gioco di parole è basato sui numeri sei e sette di questi due versi]. Per dir di sì, si burla il maiale: uì [in francese: "oui"]: e chi vuol dire di no dice: nepà [in francese: "ne pas"].

E rammento quel signor monsù [pronuncia storpiata del francese "monsieur", quasi che si trattasse di un nome proprio o di una qualità personale] che pretendeva, dicendo a sé [in francese: "assez"], di dire mi è sufficiente, non ne voglio più.

E di quell'altro che si mangiò, una colazione di tale portata da poterci affogare un Re e mi disse poi che digiunò?! [in francese "déjeuner" significa mangiare, pranzare e l'effetto comico è dato proprio dal contrasto con l'opposto significato dell' italiano "digiunare".].

 
 
 

Il Malmantile racquistato 07-2

Post n°1799 pubblicato il 30 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

SETTIMO CANTARE

36.
E vuol mandarle il cuore in un pasticcio,
Perch'ella se ne serva a colazione;
E gli s'interna sì cotal capriccio
E tanto se ne va in contemplazione,
Che il matto s'innamora come un miccio (805)
D'un amor che non ha conclusïone,
Ma ch'è fondato, come udite, in aria
D'una bellezza finta e immaginaria.


37.
Così a credenza (806) insacca (807) nel frugnuòlo (808),
Ma da un canto egli ha ragion da vendere;
Che s' egli è ver ch'Amor vuol esser solo
Rivale non è qui con chi contendere.
Ma Brunetto il fratel che n'ha gran duolo,
Poichè 'l suo male alcun non può comprendere,
Tien per la prima un'ottima ricetta (809),
Per rimandarlo a casa, una seggetta.


38.
Ove condotto e messolo in sul letto,
Il medico ne venne e lo speziale,
Chiamati a visitarlo; ma in effetto
Anch'essi non conobbero il suo male.
Disperato alla fin di ciò Brunetto
Col gomito appoggiato in sul guanciale,
A cald'occhi piangendo più che mai:
Io vo saper, dicea, quel che tu hai.


39.
Ei che vagheggia sotto alle lenzuola
Il gentil volto e le dorate chiome,
Ne anche gli risponde una parola
Non che gli voglia dir nè che nè come.
Replica quello e seccassi la gola;
Lo fruga, tira e chiamalo per nome:
Ed ei pianta una vigna (810) e nulla sente;
Pur tanto l'altro fa, ch'ei si risente.


40.
Dicendo: fratel mio, se tu mi vuoi
Quel ben che tu dicei volermi a sacca,
Non mi dar noia, va' pe' fatti tuoi,
Perchè il mio mal non è male da biacca (811);
Al quale ad ogni mo' trovar non puoi
Un rimedio che vaglia una patacca;
Perch'egli è stravagante ed alla moda (812),
Chè non se ne rinvien capo nè coda.


41.
Vedi, soggiunse l'altro, o ch'io m'adiro,
O pur fa' conto ch'io lo vo' sapere;
Hai tu quistione? hai tu qualche rigiro?
Tu me l'hai a dire in tutte le maniere.
Nardin rispose, dopo un gran sospiro:
Tu sei importuno poi più del dovere;
Ma da che devo dirlo, eccomi pronto.
Così quivi di tutto fa un racconto.


42.
Brunetto, udito il caso e quanto e' sia
Il suo cordoglio, anch'ei dolente resta,
Sebben, per fargli cuor, mostra allegria
Ma, come io dico, dentro è chi (813) la pesta;
Perch'in veder sì gran malinconia
Ed un umor sì fisso nella testa,
In quanto a lui gli par che la succhielli (814)
Per terminare il giuoco a' Pazzerelli.


43.
E conoscendo, ch'a ridurlo in sesto
Ci vuol altro che 'l medico o 'l barbiere,
Vi si spenda la vita e vada il resto,
Vuol rimediarvi in tutte le maniere.
E quivi si risolve presto presto
D'andar girando il mondo, per vedere
Di trovargli una moglie di suo gusto,
Com'ei gliel'ha dipinta giusto giusto.


44.
Perciò d'abiti e soldi si provvede,
E dà buone speranze al suo Nardino;
E preso un buon cavallo e un uomo a piede,
Esce di casa, e mettesi in cammino,
Sbirciando sempre in qua e in là se vede
Donna di viso bianco e chermisino;
E se ne incontra mai di quella tinta,
Vuol poi chiarirsi s'ella è vera o finta.


45.
Perch'oggidì non ne va una in fallo
Che non si minii o si lustri le cuoia.
E dov'ell'ha un mostaccio infrigno e giallo
Ch'ella pare il ritratto dell'Ancroia (815),
Ogni mattina innanzi a un suo cristallo
Quattro dita vi lascia su di loia;
E tanto s' invernicia, impiastra e stucca,
Ch'ella par proprio un angiolin di Lucca.


46.
Di modo ch'ei non vuol restarvi còlto,
Ma starvi lesto e rivederla bene;
E per questo una spugna seco ha tolto
E sempre in molle accanto se la tiene,
Con che passando ad esse sopra il volto,
Vedrà s' il color regge o se rinviene (816);
Ma gira gira, in fatti ei non ritrova
Suggetto che gli occorra farne prova.


47.
Dopo che tanto a ricercare è ito
Che i calli al culo ha fatto in sulla sella.
Giunse una sera al luogo d'un romito
Che a restar l'invitò nella sua cella;
A lui parve toccar il ciel col dito,
Per non aver a star fuori alla stella,
Il passar dentro ed egli e il servitore
Ringraziando il buon uom di tal favore.


48.
Vestia di bigio il vecchio macilente,
Facendo penitenza per Macone (817);
E perch'ei fu nell'accattar frequente,
Per nome si chiamò fra Pigolone.
Costui, com'io diceva, allegramente
In cella raccettò le lor persone;
Spogliò il cavallo, gli tritò la paglia,
Sul desco poi distese la tovaglia.


49.
E gli trovò buon pane e buon formaggio
Tutto accattato, ed erbe crude e cotte,
E del vino fiorito (818) quanto un maggio
Ch'egli è di quel delle centuna botte;
Di che spesso ciascun pigliando a saggio,
Stettero a crocchio insieme tutta notte.
E perchè per proverbio dir si suole:
La lingua batte dove il dente duole,


50.
Brunetto, che teneva il campanello (819),
Dice chi sia, e che di casa egli esce
Non per suo conto, ma d'un suo fratello
Del quale infino all'anima gl'incresce,
Perchè gli pare uscito di cervello;
Non si sa s'ei si sia più carne o pesce.
Così piangendo in far di ciò memoria,
Per la minuta contagli la storia.


51.
Sta Pigolone attento a collo torto
Ad ascoltarlo, e poich'egli ha finito:
Figliuol, risponde a lui, dátti conforto
E sappi che tu sei nato vestito (820);
Chè qui è l'uom salvatico Magorto,
Ch'è un bestione, un diavol travestito;
Che, se tu lo vedessi, uh egli è pur brutto!
Basta, a suo tempo conterotti il tutto.


52.
Egli ha un giardino posto in un bel piano,
Ch'è ognor fiorito e verde tutto quanto;
Giardiniero non v'è nè ortolano,
Chè d'entrarvi nessun può darsi vanto.
Da per sè lo lavora di sua mano
E da sè lo fondò per via d'incanto,
Con una casa bella di stupore,
Che vi potrebbe star l'Imperadore.


53.
Ma io ti vo' dar adesso un'abbozzata
Qui presto presto della sua figura:
Ei nacque d'un Folletto e d'una Fata
A Fiesol 'n una buca (821) delle mura,
Ed è sì brutto poi, che la brigata
Solo al suo nome crepa di paura.
Oh questo è il caso a por fra i Nocentini
E far mangiar la pappa a quei bambini.


54.
Oltrech'ei pute come una carogna,
Ed è più nero della mezzanotte,
Ha il ceffo d'orso e il collo di cicogna,
Ed una pancia come una gran botte.
Va in su i balestri (822) ed ha bocca di fogna
Da dar ripiego a un tin di méle cotte;
Zanne ha di porco, e naso di civetta,
Che piscia in bocca e del continuo getta.


55.
Gli copron gli occhi i peli delle ciglia,
Ed ha cert'ugna lunghe mezzo braccio;
Gli uomini mangia, e quando alcun ne piglía
Per lui si fa quel giorno un Berlingaccio (823)
Con ogni pappalecco e gozzoviglia;
Ch'ei fa prima coi sangue il suo migliaccio,
La carne assetta in vari e buon bocconi,
E della pelle ne fa maccheroni.


56.
Dell'ossa poi ne fa stuzzicadenti,
Niente in somma v'è che vada male;
Sicchè, Brunetto figliuol mio, tu senti
Ch'egli è un cattivo ed orrido animale.
Ora torniamo a' suoi scompartimenti (824),
Ove son frutte buone quanto il sale,
Vaghe piante, bei fiori ed altre cose,
Com'io ti potrei dir, maravigliose,

57.
Ma lasciando per or l'altre da parte,
Cocomeri vi son dì certa razza,
Che chi ne può aver uno e poi lo parte,
Vi trova una bellissima ragazza;
Che, per esser astuta la sua parte,
Diratti che tu gli empia una sua tazza
A un di quei fonti lì sì chiari e freddi
Ma se la servi, a Lucca ti riveddi (825).


58.
Tu puoi far conto allor d'averla vista,
Perchè mentr'ella beve un'acqua tale,
Ti fuggirà in un subito di vista
E tu resterai quivi uno stivale.
Se tu non l'ubbidisci, ella, ch'è trista,
Vedendo che il pregare e il dir non vale,
Intorno ti farà per questo fine
Un milion di forche (826) e di moine,


59.
E se di compiacerla poi ricusi,
Dirà che tu buon cavalier non sia,
Mentre conforme all'obbligo non usi
Servitù colle dame e cortesia;
Ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi,
Non ti piccar di ciò, sta' pure al quia (827);
Gracchi a sua posta; tu non le dar bere
Acciò non fugga, e poi ti stia il dovere (828).


60.
Con questa, che sarà fatta a pennello
Come tu cerchi, leverai dal cuore
Ogni doglia ogni affanno al tuo fratello,
Ed io te n'entro già mallevadore;
Vientene dunque meco e sta' in cervello,
Cammina piano, e fa' poco romore;
Che se e' ci sente a sorte o scuopre il cane
Non occor'altro, noi abbiam fatto il pane (829).


61.
Zitti dunque, nessun parli o risponda;
Andiamo, ch'e' s'ha a ir poco lontano.
Così va innanzi e l'altro lo seconda,
E il servitor gli segue anch'ei pian pìano;
Ma quel demonio che va sempre in ronda,
Gli sente e gli vuol vincer della mano (830);
Perchè (831) gli aspetta, e il vecchio ch'alla siepe
Vien primo, chiappa su come di' pepe (832).


62.
A casa lo strascina e te lo ficca
'N un sacco e colla corda ve lo serra;
E fatto questo, a un canapo l'appicca
Che vien dal palco giù vicino a terra;
E per pigliar il resto della cricca,
Esce poi fuora; ma nel fatto egli erra,
Chè, quand'ei prese quello, gli altri due
Ad aspettarlo avuto avrian del bue.


63.
Ed oggimai si trovano in franchigia;
Sicchè Magorto quivi ne rimane
Un bel minchione, e n'è tanto in valigia,
Che nè manco daria la pace (833) a un cane.
Sfogarsi intende e a quella veste bigia
Vuole un po' meglio scardassar le lane;
Perciò su verso il bosco col pennato (834)
A tagliar un querciuol va difilato.


64.
Brunetto, che l'osserva di nascosto,
Vedutolo partire, entra nell'orto
E corre a casa, di veder disposto
Quel ch'é del vecchio, s'egli è vivo o morto.
Così chiuso in quel sacco il trova posto,
Chè 'l poverin, trovandosi a mal porto,
E trema, e stride, e par che giù pel gozzo
Egli abbia una carrucola da pozzo.


65.
Ed ei le corde al sacco a un tratto sciolte,
E fatto quel meschino uscirne fuore,
Che lo ringrazia e bacia mille volte
E fa un salto poi per quell'amore,
Vi mette il can che guarda le ricolte,
Dandogli aiuto ed egli e il servitore.
E poi con piatti e più vasi di terra,
Due fiaschi di vin rosso, e lo riserra.


66.
E l'attacca alla fune in quella guisa,
Ch'egli era prima, e poi di quivi sfratta;
E del fatto crepando delle risa,
Di nuovo con quegli altri si rimpiatta;
Quando Magorto, in giù viene a ricisa (835)
Con una stanga in man cotanto fatta (836);
Perchè gli par mill'anni con quel tronco
Di far vedere altrui ch'ei non è monco.


67.
Arriva in casa, e sbracciasi, e si mette,
Serrato l'uscio, con quel suo randello
Sopr'a quel sacco a far le sue vendette,
Suonando, quant'ei può sodo a martello.
Il Romito che stava alle velette,
Perchè l'uscio ha di fuora il chiavistello,
Andò, benchè tremando, e con spavento
Che avea di lui; e ve lo serrò drento.


68.
Ed ei ch'è in sulle furie, non vi bada,
Chè insin ch'ei non si sfoga non ha posa.
Sta intanto il vecchio all'uscio fermo in strada
Ad origliare per udir qualcosa;
E sente dire: o leccapeverada (837),
Carne stantia, barba piattolosa,
Ribaldo, santinfizza (838) e gabbadei,
Ch'a quel d'altri pon cinque e levi sei!(839)


69.
Guardate qui la gatta di Masino (840)
Che riprendeva il vizio ed il peccato,
Se il monello (841) ha le man fatte a oncino,
Per gire a sgraffignar poi vicinato!
Ma quel c'hai tolto a me, ladro assassino,
Non dubitar, ti costerà salato;
Chè tante volte al pozzo va la secchia,
Ch'ella vi lascia il manico o l'orecchia.


70.
Poi sente ch'egli, dopo una gran bibbia
D'ingiurie dà nel sacco una percossa
Che tutte le stoviglie spezza e tribbia,
E ch'ei diceva: orsù, gli ho rotto l'ossa;
E che di nuovo un'altra ne raffíbbia,
E che, facendo il via la terra rossa,
Soggiunge: oh quanto sangue ha nelle vene!
Questo ghiottone a me (842), beeva bene!

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

Note:
(805) MICCIO. Ciuco, asino.
(806) A CREDENZA. Qui, sconsigliatamente, senza fondamento
(807) INSACCA ecc. Dà nella rete d'amore.
(808) FRUGNOLO è quella lanterna con cui di notte si va a caccia agli uccelli.
(809) TIEN ecc. Crede che, come primo rimedio, sia ottima ricetta una sedia portatile in cui rimandarlo a casa.
(810) PIANTA UNA VIGNA. Non bada affatto, perchè è tutto assorto nel suo pensiero, come il contadino nel piantar la vigna.
(811) LA BIACCA adoperavasi come rimedio esterno per leggerissimi mali.
(812) ALLA MODA. Ciò che incomincia a venire in moda è insolito e strano.
(813) DENTRO È CHI ecc. si dice di chi ha buona cera ma viscere guaste.
(814) SUCCHIELLARE. Tirar la carta da giuoco, che, è coperta, adagio adagio. Qui, si disponga a...
(815) ANCROIA Così chiama il Berni la sua vecchia cameriera.
(816) SE RINVIENE. Se quegl'impiastri secchi rigonfiano.
(817) MACONE. Macometto, Maometto, il diavolo.
(818) FIORITO. Pien di fiori.
(819) TENEVA IL CAMPANELLO. Parlava sempre lui.
(820) SEI NATO VESTITO. Sei fortunato.
(821) 'N UNA BUCA. A Fiesole, mostrano anche oggidì la Buca delle Fate.
(822) VA IN SU I BALESTRI. Ha gambe sottili e torte.
(823) BERLINGACCIO. Giovedì grasso.
(824) SCOMPARTIMENTI del suo giardino. Quadri, aiuole.
(825) A LUCCA TI RIVEDDI. Non la vedrai più.
(826) FORCHE. Smorfie, lezi, carezze.
(827) STA' PURE AL QUIA. Sta' sodo.
(828) TI STA IL DOVERE diciamo a cui sia incolto un male meritato.
(829) Abbiam fatto ecc. Abbiam dato nel laccio. È finita per noi.
(830) AVER LA MANO, al giuoco, vale Essere il primo a tirare, il che spesso è vantaggio.
(831) PERCHÈ. Perciò.
(832) COME DI' PEPE. Colla massima facilità. Di' sta in luogo di dir: l'r, nel pronunziare rapidamente, sparisce.
(833) NON DARÌA LA PACE. Non lascerebbe vivere in pace nemmeno un cane.
(834) PENNATO. Coltellone adunco da potare.
(835) A RICISA. Difilato.
(836) COTANTO FATTA. Tanto grossa e lunga. Così diciamo accompagnando il detto col gesto.
(837) PEVERADA. Brodo. Leccabrode, Porco.
(838) SANTINFIZZA GABBADEI, Ipocrita.
(839) CHE nella roba altrui poni cinque (dita), e ritiri la mano con sei (cose); le 5 dita e la cosa rubata che fan 6.
(840) LA GATTA DI MASINO fingeva d' esser morta.
(841) SE IL MONELLO. Sottintendi guardate se ecc.
(842) A ME. Secondo me.

(segue)

 
 
 

De claris mulieribus 004

De claris mulieribus

CAPITOLO IV.
Giunone Reina dei regni, e moglie di Giove.

Giunone Reina dei regni, figliuola di Saturno e d’Opi, fu famosa per tutto il mondo innanzi a tutte l’altre femmine famose per lo nome dei Gentili, per la scritture dei poeti, e per Terrore degli antichi intanto che i sordi denti del tempo non possono aver roso così infame opera, benchè eglino rodano tutte la cose, sì che lo suo nome non sia pervenuto famosissimo insiuo alla nostra età. E certamente di questa possiamo piuttosto recitare la nobile fortuna, che contare alcuna nobile sua opera. Ella nacque d’un parto con quello Giove di Creta, il quale, gli antichi poeti ingannati, finsero Dio del Cielo: ed in sua puerizia fu mandata a Samo; in quel luogo fu nutricata con dilegenza fino a che fa da marito e finalmente fu data per moglie a Giove suo fratello: la qual cosa ha affermato per molti secoli una statua di quella a Samo, posta nel tempio. E pensando quelli che molto spetti a sua gloria, ed alla gloria dei suoi discendenti, che Giunone, la quale pensano, essere reina del Cielo e Dea, sia stata sposata appresso di quelli; acciocchè la memoria di questo non perisse levemente, edificarono un tempio grande maraviglioso innanzi agli altri, e consegraronlo alla sua Dea: e ferono intagliare la sua immagine d’un candido marmo in abito d’una fanciulla che fusse sposata, e feronla mettere innanzi al suo tempio. Questa, finalmente maritata a quel gran Re, crescendo continuo la sua signoria, e la fama per lungo e per traverso portando lo suo nome, acquistò molta chiarezza. E poi per le finzioni dei poeti, e per la furiosa libertà degli antichi fu fatta reina del Cielo; e ancora fu commessa in lei la ragione dei matrimoni, e gli aiutorj di quelle che partoriscono, e molte più altre cose, piuttosto da farsene beffe che da ricordarle. E così per conforto del nimico dell’umana generazione le ferono edificare molti tempj per ogni parte, e molti altari; e furonvi deputati giuochi, sacerdoti e sacrificj, secondo, antica usanza. E tacendo degli altri, dappoi Samo fu onorata lungo tempo con famosa reverenzia da quelli d’Argo, popoli d’Acaja, e dai Cartaginesi: e finalmente portata a Roma fu allogata in Campidoglio nella cella dell’ottimo e sommo Giove, non altrimenti congiunta al suo marito, e sotto il vocabolo di Giunone reina fa onorata da’ Romani signori del mondo lungamente con molte ceremonie, eziandio poi che nacque in terra Iddio e uomo.

Giovanni Boccaccio

VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO DA CASENTINO
DELL’OPERA INTITOLATA
DE CLARIS MULIERIBUS DI M. BOCCACCIO
PROLOGO
Incomincia il Libro delle famose Donne, compilato per lo illustrissimo uomo M. Boccaccio, poeta fiorentino, a petizione della famosissima reina Giovanna di Puglia, traslatato di latino in volgare da M.° Donato da Casentino.

 
 
 

Le quattro tempora

Le quattro tempora (1)

Sete curioso voi! Avevio (2) fame
e nnun c’era antro (3) da maggnà, nnun c’era!
Queste nun zò (4) rraggione pe jjerzera!
De tempora un par d’ova in ner tigame?! (5)

Nò, nnò, mmanco (6) una fetta de salame.
Iddio nun porta in mano la stadera.
Com’è rrobba províbbita, chi spera
ne la pochezza è un giacubbino infame.

Vedi: si ppuro (7) avessi, padron Biascio, (8)
le vertú dde millanta Salamoni,
tant’e ttanto (9) ar maggnà bbiggna annà adascio. (10)

Perché, ffratello, in quell’antri carzoni (11)
pesa ppiú un ovo e una grosta de cascio
che ttutte ste Vertú dde li cojjoni.

Giuseppe Gioachino Belli
15 agosto 1833
Sonetto 980

Note:
1 I quattro-tempi dell’anno, cioè i digiuni e le astinenze dalle carni che la Chiesa prescrive nei giorni di mercoldí, venerdí e sabato più prossimi agli equinozii ed ai solstizii, per rendere forse benigna la natura in que’ critici momenti. Qualunque di questi dodici giorni si dice tempora: oggi è tempora, la quale voce deriva senza dubbio dalle parole quatuor tempora anni.
2 Avevate.
3 Non c’era altro.
4 Non sono.
5 Nel tegame, nella tegghia.
6 Neppure.
7 Se pure: quando anche.
8 Biagio.
9 Ad ogni modo.
10 Bisogna andare adagio.
11 In quell’altro mondo.

 
 
 

Il Malmantile racquistato 07-1

Post n°1796 pubblicato il 29 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

SETTIMO CANTARE.

ARGOMENTO.

Paride, dopo aver molto bevuto,
Entra d'andar al campo in frenesia;
E come il sonno avea pel ber perduto,
Perde nel gir di notte anche la via.
Cade in un fosso, onde a donargli aiuto
Corron le Fate, e gli usan cortesia;
Vien condotto in un antro, e per diporto
La storia gli è narrata di Magorto.

1
Vino tempera te, disse Catone,
Perchè si dee berne a modo e a verso;
E non come colà qualche trincone,
Che giorno e notte sempre fa un verso;
Ond'ei si cuoce, e perchè ci va a Girone (763),
La favola divien dell'universo:
E vede poi, morendo in tempo breve,
Ch'è ver, che chi più beve, manco beve.

2.
Se il troppo vino fa che l'uom soggiace
A tal error di tanto pregiudizio,
Chi non ne beve, e quello a cui non piace
A questo conto dunque ha un gran giudizio;
Anzichè no (764), sia detto con sua pace,
Perch'ogni estremo finalmente è vizio;
E se di biasmo è degno l'uno e l'altro,
Questo (765) ha il vantaggio, al mio parer, senz'altro.

3
Perchè se quel s'ammazza e non c'invecchia
Ed è burlato il tempo di sua vita,
Almen sente il sapor di quei ch'ei pecchia (766),
E tien la faccia rossa e colorita.
Burlar anche si fa chi va alla secchia,
E insacca senza gusto acqua scipita,
Che lo tien sempre bolso e in man del fisico,
Il qual l'aiuta a far morir di tisico.

4.
Però sia chi si vuole, egli è un dappoco
Chi 'mbotta al pozzo come gli animali;
S'avvezzi a ber del vino appoco appoco,
Ch'ei sa, che l'acqua fa marcire i pali;
Ma, com'io dico, si vuol berne poco:
Basta ogni volta cinque o sei boccali:
Perch'egli è poi nocivo il trincar tanto,
Com'udirete adesso in questo Canto.

5.
Omai serra gli ordinghi e le ciabatte
Chiunque lavora e vive in sul travaglio,
E difilato a cena se ha batte
A casa, o dove più gli viene il taglio.
Chi dal compagno a ufo il dente sbatte;
Tanti ne va a taverna, ch'è un barbaglio (767);
Parte alla busca; e infin, purchè si roda,
Per tutto è buona stanza, ov'altri goda.

6.
E Paride (768), ch'anch'egli si ritrova
A corpo voto in quelle catapecchie,
D'Amor chiarito figlio d'una lova (769),
Che svaligiar gli ha fatto le busecchie (770),
Dice al villan: Va' a comprarmi dell'uova,
Ecco sei giuli, tônne ben parecchie;
Piglia del pane, e sopra tutto arreca
Buon vino, sai! non qualche cerboneca (771).

7.
E se t'avanza poi qualche quattrino,
Spendilo in cacio; non mi portar resto.
Messer sine, rispose il contadino,
Io torrò, s'io ne trovo, ancor cotesto.
E partendo gli ride l'occhiolino,
Sperando (772) aver a far un po' d'agresto;
Ma facendo i suoi conti per la via,
S'accorge ch'e' non v'è da far calía (773).

8.
All'oste se ne va per la più corta,
E l'uova, il pane, e 'l cacio, e 'l vin procaccia
E fatto un guazzabuglio nella sporta,
Le quattro lire slazzera (774) e si spaccia.
L'altro l'aspetta a gloria, e in sulla porta,
Per veder s'egli arriva, ognor s'affaccia;
E per anticipare, il fuoco accende,
Lava i bicchieri e fa l'altre faccende.

9.
Perch'egli è tardi ed ha voglia di cena,
Poích'ogni cosa ha bell'e preparato,
Si strugge e si consuma per la pena,
Che lì non torna il messo nè il mandato;
Ma quand'ei vedde colla sporta piena
Giunger al fine il suo gatto frugato (775).
Oh ringraziato, dice, sia Minosse,
Ch'una volta le furon buone (776) mosse.

10.
Chiappa le robe, e mentre ch'ei balocca
In cuocer l'uova, e il cacio ch'è stupendo,
Sente venirsi l'acquolina in bocca,
E far la gola come un saliscendo.
Sbocconcellando intanto, il fiasco sbocca,
E con due man alzatolo, bevendo,
Dice al villan, che nominato è Meo
Orsù ti fo briccone (777), addio, io beo.

11.
Così per celia cominciando a bere,
Dagliene un sorso e dagliene il secondo,
Fe sì, che dal vedere (778) e non vedere
Ei diede al vino totalmente fondo.
A tavola dipoi messo a sedere,
Lasciato il fiasco voto sopra il tondo,
Voltossi a' dieci pan da Meo provvisti,
E in un momento fece repulisti.

12.
Dieci pan d'otto, e un giulio di formaggio
Non gli toccaron l'ugola: e s'inghiotte
Due par di serque (779) d'uova e da vantaggio;
Poi dice: o Meo, spilla quella botte
Che t'hai per l'opre, e dammi il vino assaggío;
Io vo' stasera anch'io far le mie lotte (780),
Bench'io stia bene, sia ripieno e sventri (781),
Perchè mi par ch'una lattata (782) c'entri.

13.
Il rustico, che dar del suo non usa,
Non saper, dice dove sia il succhiello;
Che per casa non v'è stoppa nè fusa,
E che quel non è vin, ma acquerello.
Ci vuol, risponde Paride altra scusa.
E rittosi, di canna fa un cannello;
E in sulla botte posto a capo chino,
Con esso pel cocchiume succia il vino.

14.
E perch'è buono, e non di quello il quale
È nato in sulla schiena (783) de' ranocchi,
A Meo, che piuttosto a carnovale
Che per l'opre lo serba, esce degli occhi,
E bada a dire: ovvia! vi farà male;
Ma quegli, che non vuol ch'ei lo 'nfinocchi,
Ed è la parte sua furbo e cattivo,
Gli risponde: oh tu sei caritativo!

15.
Non so, se tu minchioni la mattea (784),
Lasciami ber, ch'io ho la bocca asciutta;
Che diavol pensi tu poi ch'io ne bea?
Io poppo poppo, ma il cannel non butta.
Risponde Meo: poffar la nostra Dea
Che s'ei buttasse, la beresti tutta;
Oh discrezione! s'e' ce n'è minuzzolo.
Paride beve, e poi gli dà lo spruzzolo.

16.
Non vi so dir se Meo allor tarocca.
Ma l'altro, che del vin fu sempre ghiotto,
Di nuovo appicca al suo cannel la bocca,
E lascia brontolare. e tira sotto;
Ma tanto esclama, prega, e dàgli, e tocca,
Ch'ei lascia al fin di ber, già mezzo cotto;
Dicendo, ch'ei non vuoi che il vin lo cuoca;
Ma che chi lo trovò non era un'oca.

17.
Poichè dal cibo e da quel vin che smaglia
Si sente tutto quanto ingazzullito,
Risolve ritornare alla battaglia,
Donde innocentemente s'è partito
Chè scusa non gli pare aver che vaglia
Che non gli sia a viltade attribuito.
Così ribeve un colpettino, e incambio
D'andare a letto, s'arma e piglia l'ambio.

18.
Senza lume nè luce via spulezza (785),
E corre al buio, che nè anche il vento:
Non ha paura mica della brezza,
Perch'egli ha in corpo chi lavora drento;
Per la mota sibben si scandolezza,
Chè, dando il cul in terra ogni momento,
Quanto più casca e nella memma pesca,
Tanto più sente ch'ell'è molle e fresca.

19.
Dopoch'ei fu cascato e ricascato,
Per non sentir quel molle e fresco ancora,
Chè'l vino, e quanto dianzi avea ingubbiato,
Opra di dentro sì ma non di fuora,
Giunto al mulin, dal mezz'in giù sbracciato
Si sciaguatta (786) i calzoni in quella gora,
Per dopo nella casa di quel loco
Farsegli tutti rasciugare al foco.

20.
Mentre si china, dando il culo a leva,
E' fece un capitombolo nell'acqua;
Ond'avvien ch'una volta ei l'acqua beva
Sopra del vin, che mai per altro annacqua.
Quanto di buon si è, che s'ei voleva
Lavare i panni, il corpo anche risciacqua:
E divien l'acqua sì fetente e gialla,
Che i pesci vengon tutti quanti a galla.

21.
Le regole ben tutte a lui son note,
Che insegnò, per nuotar bene, il Romano (787):
Distende il corpo, gonfie fa le gote.
Molto annaspa col piede e colla mano.
Intanto si conduce fra le ruote,
Che fan girando macinare il grano;
Ben se n'avvede, e già mette a entrata (788)
Di macinarsi, e fare una stiacciata.

22.
In questo che il meschin già si presume
D'andar a far la cena alle ranocchie,
Aprir vede una porta, e in chiaro lume
Sventolar drappi e campeggiar conocchie;
Chè le Naiadi ninfe di quel fiume,
Coronate di giunchi e di pannocchie (789),
Corrono ad aiutarlo, infin ch'a riva.
Là dove il dì riluce in salvo arriva.

23.
E vede all'ombra di salcigne, frasche,
Fra le più brave musiche acquaiuole (790),
Parte di loro al suon di bergamasche (791),
Quinte e seste tagliar le capriuole.
Chi tien che queste ninfe sien le lasche,
Chi le sirene ed altri le cazzuole (792).
Io non so chi di lor dia più nel buono,
E le lascio nel grado ch'elle sono.

24.
Ognun si tenga pure il suo parere;
O quelle o altre, a me non fa farina (793).
Bastivi per adesso di sapere
Che queste non son bestie da dozzina;
E s'ella non m'è stata data a bere,
Elle son Fate c'han virtù divina;
E che sia il vero, fede ve ne faccia
Il Garani scampato dalla stiaccia.

25.
Il quale così molle e sbraculato (794)
Il cadavero par di mona Checca (795),
Ch'essendo stato allor disotterrato,
Abbia fatto alla morte una cilecca (796).
Si scuote e trema sì, ch'io ho stoppato (797)
Per San Giovanni (798) il carro della Zecca;
E mentr'ei si dibatte e il capo serolla,
Il pavimento e i circostanti ammolla.

26.
Ma le Fate, che specie son di pesce
Ed hanno il corpo a star nell'acqua avezzo,
Più che l'esser bagnate a lor rincresce
Il vederlo così fradicio mezzo;
Perciò lo spoglian; ma perchè riesce,
Quando un vuol far più presto, stare un pezzo,
Per trattenerlo, mentr'or questa or quella
L'asciuga, una contò questa novella.

27.
Furo un tratto una dama e un cavaliero
Moglie e marito, in buono e ricco stato,
Che fatti vecchi contro ogni pensiero,
Dopo d'aver qualche anno litigato
La grinza pelle con un cimitero,
Convenne loro al fin perdere il piato,
E senza appello aver a far proposito
Di dar per sicurtà l'ossa in deposito.

28.
Lasciaron due figliuoli, i più compiti
Che 'l mondo avesse mai sulle sue scene;
Perch'essi avevan tutt'i requisiti
Dovuti a un galantuomo e a un uom dabbene;
Aggiunto che di soldi eran gremiti
(Chè questo in somma è quel che vale e tiene);
Stavan d'accordo in pace ed in amore.
Ed eran pane e cacio, anima e cuore.

29.
Cosa che fare in oggi non si suole,
perchè i fratelli s'han piuttosto a noia:
E se lor han due cenci o terre al sole,
All'un mill'anni par che l'altro muoia.
E questo è il ben ch'al prossimi si vuole!
E siam di così perfida cottoia,
Che sebben fosser anche al lumicino,
E' non si sovverrebbon d'un lupino.

30.
Perch'e' sono una man di mozzorecchi;
Al contrario costor, di chi io favello,
I quai di cortesia furon due specchi
E trattavan ciascun da buon fratello,
S'avrebbon portat'acqua per gli orecchi.
E si servian di coppa (799) e di coltello:
E per cercar dell'uno il bene stare,
L'altro voluto avrebbe indovinare.

31.
Essendo un giorno insieme ad un convito.
Quand'appunto aguzzato hanno il mulino (800)
E mangian con bonissimo appetito,
Non so come, il maggior detto Nardino.
Nell'affettar il pan tagliossi un dito,
Sicch'egli insanguinò il tovagliuolino;
E parvegli sì bello a quel mo intriso,
Ch'ei si pose a guardarlo fiso fiso.

32.
E resta a seder lì tutto insensato,
Ch'ei par di legno anch'ei come la sedia;
Può far, tanto nel viso è dilavato,
Colla tovaglia i simili (801) in commedia.
E mirando quel panno insanguinato
Ormai tant'allegria muta in tragedia;
Mentre nel più bel suon delle scodelle
Si vede ognun riposar le mascelle.

33.
E tutti quei che seggon quivi a mensa,
i servi, i circostanti ed ogni gente,
Corrongli addosso, chè ciascun si pensa
Che venuto gli sia qualch'accidente;
Nè sanno che il suo male è in quella rensa (802),
Com'appunto fra l'erba sta il serpente;
Rensa non già, ma lensa (803), onde il suo cuore
Preso al lamo col sangue aveali Amore.

34.
Che gli par di veder, mentre in quel telo
Contempla in campo bianco i fior vermigli,
Un carnato di qualche Dea di cielo
Composta colassù di rose e gigli.
E sì gli piace, e tanto gli va a pelo.
Che finalmente, mentrech'ei non pigli
Una moglie d'un tal componimento.
Non sarà de' suoi di mai più contento.

35.
E già se la figura nel pensiero
E bianca e fresca e rubiconda e bella,
Co' suoi capelli d'oro e l'occhio nero,
Che più nè men la mattutina stella
E come ch'ei la vegga daddovero,
Divoto se le inchina e le favella,
E le promette, s'egli avrà moneta,
Di pagarle la Fiera all'Improneta (804).

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

Note:
(763) GIRONE (giro). Villaggio a tre miglia da Firenze.
(764) ANZICHÈ NO. Pare che sia usato in senso di Ma, anzi no.
(765) QUESTI. L' astemio ha l'utilità dello star sempre in cervello, ma non altro; ma non sente nessun piacere.
(766) PECCHIA. Succia, come pecchia.
(767) BARBAGLIO. Ciò che abbarbaglia; una meraviglia.
(768) PARIDE ecc. Vedi c. III, 11.
(769) LOVA. Lupa, meretrice.
(770) BUSECCHIE. Tasche.
(771) CERBONECA. Vino fradicio.
(772) SPERANDO d'appropriarsi l'avanzo del danaro.
(773) CALÌA, Rimasugli dell' oro o argento che si lavora. Qui, avanzo.
(774) SLAZZERA. Cava fuori e paga; dal Lazzare, veni foras.
(775) GATTO FRUGATO. Uomo accorto.
(776) LE FURON BUONE MOSSE dicesi quando i barberi del palio vengono davvero, dopo che molte volte si è sentito invano gridar dalla gente: Eccoli! Eccoli!
(777) BRICCONE. Brindisi.
(778) DAL VEDERE ecc. In un batter d' occhio.
(779) SERQUA. Dozzina, 12 uova.
(780) LOTTE. Forze.
(781) SVENTRI. Scoppi.
(782) LATTATA, proprio è Orzata; ma vale anche portata di nuovo vino dopo molto mangiare e bere.
(783) IN SU LA SCHIENA ecc. in pantani o stagni, che non è buono.
(784) MINCHIONI LA MATTEA. Burli. Vedi c. IV, 15.
(785) SPULEZZA. Va via in furia.
(786) SCIAGUATTARE. Frequentat. di sciacquare.
(787) IL ROMANO fu uno stufaiuolo, che insegnava nuotare alla gioventù fiorentina.
(788) METTE A ENTRATA. Tien per certo; dall'allibrare a entrata che fanno i computisti il danaro ricevuto.
(789) PANNOCCHIE. Spighe della saggina, panico e simili.
(790) MUSICHE ACQUAIUOLE. Ranocchie.
(791) BERGAMASCA. Un certo ballo.
(792) CAZZUOLE. Animaletti neri del genere de' batraciani.
(793) NON FA FARINA. Non m'importa e non mi frutta nulla.
(794) SBRACULATO. Senza brache o calzoni.
(795) MONA CHECCA chiamavano i fanciulli fiorentini uno scheletro rivestito, che solevasi esporre nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo, il 2 novembre.
(796) CILECCA, Celia, burla.
(797) HO STOPPATO. Vedi c. III, 34.
(798) PER SAN GIOVANNI. Il giorno di San Giovanni, patrono di Firenze, soleva il magistrato della zecca mandare in offerta un gran carro in forma piramidale, assai alto (e però facile a scuotersi e tremare), con in cima un uomo legato a un palo, che rappresentava il Santo. Dice il Biscioni che questa usanza fu abolita perchè, fra le altre indecenze, la plebe soleva dire a quel figuro che era stato legato al palo, san Giovanni birbone.
(799) SERVIR DI COPPA ecc. Far da coppiere e da scalco; farsi scambievolmente ogni maggior servizio.
(800) AGUZZATO IL MULINO. Vedi c. IV, 58.
(801) I SIMILI. Titolo di commedia in cui due personaggi, simili in modo da scambiarsi, sono cagione di mille equivoci.
(802) RENSA. Tela di lino fina; da Rems ove fabbricavasi.
(803) LENSA o Lenza, filo dell'amo.
(804) L' IMPRUNETA è a cinque miglia da Firenze.

(segue)

 
 
 

De claris mulieribus 003

De claris mulieribus

Capitolo III.
Opis moglie di Saturno.

Opis ovvero Rea, se noi diamo fede agli antichi, fu famosa tra molte cose prospere, e tra molte avverse. Perchè la fu figliuola di Uranio, potentissimo de’ rozzi Greci, e di Vesta sua moglie la quale, similmente sorella e moglie di Saturno Re non era famosa per niuna opera che fusse pervenuta a noi, se non che per iscaltrimento di femmina ella liberò Giove, Nettuno e Plutone dalla morte, patteggiata da Titano con Saturno. Li quali, essendo uomini, arrivarono a fama di Dei per la ignoranza degli uomini di quella etade. E questa non solamente acquistò onore di Reina, anzi per errore degli uomini fu riputata maravigliosa Dea, e madre degli Dei: e a lei per pubblici ordinamenti furono diterminati templi, sacerdoti e sacrificj. E in tanto crebbe questo vituperoso male, che essendo in fatica i Romani nella seconda guerra degli Africani, quasi per salutevole aiutorio, mandarono ambasciadori di loro dei consoli ad Attalo re di Pergamo a domandare la statua di quella con grandissimi prieghi, e l’ordine dei sacrificj. E fu tolto da Pesinunte terra d’Asia un sasso quasi mal formato; e portato in Roma con diligenzia; e finalmente allogato in un maraviglioso tempio, come somma Deità: e per molti secoli per salute della Repubblica fu onorato appresso ai Romani e per Italia, per molti sagrificj. E fu certamente mirabile giuoco della fortuna, ovvero piuttosto della cecità degli uomini, o vogliamo dire inganno, o decozione dei dimonj, per opera de’ quali avvenne, che una donna sbattuta di molte fatiche, finalmente invecchiata, morta, e convertita in polvere, dannata appresso quelli dell’inferno, sia creduto, esser Dea, e per sì lunga età sia onorata con divine esequie quasi da tutto il mondo.

Giovanni Boccaccio

VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO DA CASENTINO
DELL’OPERA INTITOLATA
DE CLARIS MULIERIBUS DI M. BOCCACCIO
PROLOGO
Incomincia il Libro delle famose Donne, compilato per lo illustrissimo uomo M. Boccaccio, poeta fiorentino, a petizione della famosissima reina Giovanna di Puglia, traslatato di latino in volgare da M.° Donato da Casentino.

 
 
 

L'eclisse

Post n°1794 pubblicato il 28 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

L'eclisse

Sì, 'st'ecrisse che fanno li scenziati,
nu' lo nego, sarà una cosa bella,
ma però tutti l'anni è 'na storiella,
ciarimanemo sempre cojonati.

L'antr'anno mi' fratello pe' vedella
ce venne espressamente da Frascati,
stette un'ora coll'occhi spalancati
senza potè scoprì manco 'na stella.

Se er celo è sempre nuvolo, succede
che un'antra vorta, quanno la faranno,
nun ce sarà gnisuno che ce crede.

E io ciavrebbe gusto: perché quanno
er celo è annuvolato, chi la vede?
che lo dicheno a fa'? perché la fanno?

Trilussa

 
 
 

San Giuvan-de-ggiuggno

San Giuvan-de-ggiuggno

Domani è Ssan Giuvanni? Ebbè ffío (1) mio,
cqua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e ffattucchiere
pe la quale (2) er demonio è er loro ddio, (3)

se straformeno (4) in bestie; e tte dich’io
c’a la finosomia (5) de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi riffigurà (6) ppiú dd’un giudio. (7)

E accusì vvanno tutti a Ssan Giuvanni,
che llui è er loro Santo protettore,
pe la meno che ssia, da un zeimilanni. (8)

Ma a mmé, cco ’no scopijjo (9) ar giustacore
e un capo-d’ajjo (10) o ddua sott’a li panni,
m’hanno da rispettà ccome un Ziggnore.

Giuseppe Gioachino Belli
15 marzo 1834
Sonetto 1095

Note:
1 Figlio.
2 Di questo pronome relativo il romanesco non usa che il femminino singolare, e di questo i soli casi la quale e per la quale.
3 I due versi antecedenti sono tratti quasi letteralmente dalla Dottrina del Cardinal Bellarmino.
4 Si trasformano.
5 Fisonomia.
6 Ci puoi raffigurare.
7 I giudei passano per abilissimi maliardi.
8 Da un seimil’anni.
9 Scopiglio.
10 Aglio. Alla scopa e all’aglio è attribuito l’onore di predominare le streghe e renderne innocue le malie.

 
 
 

Baldessare Stampa

XI
Di M. Baldessare Stampa

1 [*]

Occhi, che la virtù vostra serena,
Che già mi trasse all’amorosa rete,
A me tenendo ascosa, rivolgete
Quel ben ch’indi sperava in pianto e ’n pena,

Se ’l vostro sguardo sol mi spinge e mena
Come vi piace ad ore triste o liete,
Perché col torto orgoglio pur volete
Tormi il piacer che miei tormenti affrena?

Fugge al vostro apparir, lumi beati,
Ogni oscuro che cinga l’aria nostra,
Sol contra me l’usanza è fiera e nova:

Se vostro io sono, onde è che sete armati,
Lasso, a mio danno? Ma se voglia vostra
È pur ch’io mora, ecco il morir mi giova.


2

O per cui sola ad alto onor m’invio,
Donna gentil, che ’l basso mio pensiero
Scorgete al ciel per vago almo sentiero
A contemplar le intelligenzie e Dio,

In voi s’erge e si specchia il mio desio,
E mirando ivi accolto il pregio altero
E l’onestade e tutto il bene intero,
Frena l’ardir del senso frale e rio.

Indi per la beltà vostra infinita
Di grado in grado puro e lieto poggia,
Sì che giunge a la vera eterna vita;

Così la mente al suo Fattor s’appoggia
E degno effetto al vostro amor la invita,
Poi che per voi nel suo riposo alloggia.


3

Misero, che agghiacciando avampo ed ardo,
E per temprar col pianto il foco interno
Gli amari affanni e l’alta doglia eterno,
E con due morti in vita mi ritardo;

Sperando temo, or debile or gagliardo,
E morto i’ vivo in dolce orrido inferno,
E pur mi reggo senza alcun governo,
E caccio tigri a passo infermo e tardo.

A me ribello io sono, altrui fedele,
E duolmi, rido, e guerreggiando in pace
Faccio gli sensi a la ragione scorte;

Dolce l’assenzio parmi, acerbo il mele,
E mi pasco di quel che mi disface:
Così strani accidenti ha la mia sorte.

Baldessare Stampa
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

De claris mulieribus 002

De claris mulieribus

Capitolo II.
Semiramis Reina degli Assirj

Semiramis gloriosa reina degli Assirj di che padre nascesse la vecchiezza del tempo ce l’ha tolto. Vero è, come agli antichi autori piace per favola, che essa fosse figliuola di Nettuno, il quale affermano, per errore credendo, essere figliuola di Saturno e Dio del mare. La qual cosa, benchè non sia convenevole a crederla, nondimeno è argomento, quella essere nata di nobili parenti. E questa certamente fu moglie di Nino, nobile re degli Assirj, e di quella generò Nino solo figliuolo. E avendo Nino soggiogata tutta l’Assiria e ultimamente i Battriani, morì d’una ferita d’una saetta. E essendo morto, quella giovinetta, e il suo figliuolo essendo fanciullo, temendo commettere il reggimento di sì gran regno, e cominciata signoria a sì tenera età, fu di sì grande animo, che ardì quella femmina pigliare con arte e ingegno la nazione, la quale l’uomo aspro avea soggiogata con le armi e signoreggiata con la forza. E con alcun’astuzia di femmina avendo pensato lo grande [inganno] ingannò l’oste dei Cavalieri del marito che era morto. E non fu maraviglia, perchè Semiramis e il figliuolo erano simiglievoli delle membra, e nella faccia: l’una e l’altro senza barba, e la voce del fanciullo non era dissimiglievole da quella di una femmina, e per la statura poco o niente differente dal figliuolo. Le quali cose ajutando quella, acciocchè in processo di tempo non si scoprisse l’inganno, portava coperto il capo di una berretta, le braccia e le gambe portava coperte. E perchè fino a quel tempo non era usanza che gli Assirj andassino sì vestiti, acciocchè la novità dell’abito non desse ammirazione a quelli del paese, determinò che tutto il popolo portasse simile abito. E così quella, che era stata innanzi moglie, mostrava lo giovine per la madre; e con maravigliosa diligenza, avendo presa la maestà del Re, servò quella e lo magisterio della milizia. E mettendosi essere uomo, adoperò molte grandi cose, nobili per fortissimi uomini. E poichè non risparmiavasi di alcuna fatica, non impaurita d’alcuno pericolo, soperchiò l’invidia di non uditi fatti di ciascuni uomini; non temè manifestarsi ad ogni uomo chi ella fusse acciocchè ella non mostrasse, sè avere usato inganno di femmina, quasi come ella volesse mostrare, che alla signoria bisogna d’avere animo e non essere maschio. La qual cosa quanto diede d’ammirazione a quelli che la videro, tanto ampiò la gloriosa maestà di quella donna. Acciocchè noi leviamo i suoi fatti più alti palesamente, dappoi la maravigliosa trasmutazione, da uomo, prese le armi: non solamente difese l’imperio che il suo marito aveva acquistato, ma aggiunse a quello l’Etiopia assalita da lei, e vinta con Aspra guerra: e di poi convertì contro a quelli d’India le forti arme, ai quali fino a quel tempo non era andato alcuno se non suo marito. E sopra questo, riparò Babilonia, antichissimo edificio di Nembrotto, città in quei tempi nei campi di Sennaar, e circondolla di mura fabbricate di pietre cotte e di pegola, alte, e grosse di maraviglioso circuito E acciocchè delle molte cose fatte da lei, d’una solamente faccia memoria, dicesi che certissima cosa fu, che avendo ella messa ogni cosa in quiete, e standosi in riposo, un dì facendosi pettinare dalle sue donzelle secondo l’usanza delle donne, e secondo l’usanza del paese facendosi fare le treccie, non avendo ancora pettinata se non mezzi cappelli, avvenne che le fu annunziato, che Babilonia era ribellata, e venuta in signoria di un suo figliastro. La qual cosa ella portò sì molestamente, che gittò via il pettine, subito lasciato l’esercizio di femmina, levossi irata, e prese l’armi, e subito assediò quella fortissima città. E non restò di cessare quei cittadini che restavano, in fin che dopo lungo assedio ridusse quella potentissima città a sua signoria per forza d’arme, istanca per lungo assedio. Del quale sì animoso fatto fece testimonianza per lungo spazio una statua di metallo posta diritta in Babilonia, la quale era una donna che a veva mezzi capelli sciolti e sparti, e mezzi ritorti in una treccia. Ancora ella edificò molte città di nuovo, e fece di grandissimi fatti, i quali la vecchiezza ha sì consumati, che non ne sono pervenuti, infino al nostro tempo alcuni, se non quasi questi che io ho detto. Poi finalmente questa donna cominciò a scellerato peccato: bruttò tutte queste cose, di perpetua memoria lodevoli, non che in una femmina, ma eziandio in ciascuno forte uomo maravigliose cose. Perchè essendo ella stimolata, come le altre, di peccato carnale, fu creduto che ella peccasse con molti, e tra gli altri con chi ella peccò fu Nino suo figliuolo, benchè questo fusse cosa piuttosto bestiale che umana: e quel giovine di eccellentissima bellezza, quasi come se egli avesse mutato di esser femmina, ed ella maschio, marcivasi nelle camere in ozio; dove ella s’affaticava in arme contro a’ nemici. O che scellerato fatto è questo, che questa pestilenzia devitevole, non dico quando le cose sono quiete, ma tra i faticosi pensieri del Re, e le sanguinose battaglie; e che è fuori di natura! Tra gli pianti e gli esilj, non facendo alcuna distinzione di tempi, piglia e conduce in pericolo la mente di quelli che non sono caduti, e macchia ogni onore di vituperosa infamia. Della quale bruttura Semiramide pensando ammorzare colla sagacità quella fama che lasciva avea bruttata, dicesi che ella fece quella vituperosa legge, per la quale era conceduto ai suoi soggetti, che nei fatti di lussuria egli facessero come gli paresse. E temendo di essere ingannata dalle donne di casa, ella prima, secondo che alcuni hanno detto, trovò l’usanza delle mutande, e quella faceva usare alle sue femmine, serrandole con chiavi; la quale cosa ancora si osserva nelle parti d’Egitto e d’Africa. Alcuni altri hanno scritto che essendo ella innamorata del figliuolo, e quello essendo di compiuta età, volendo ritrattare il peccato, ella l’uccise, avendo ella regnato anni ventidue. Ma alcuni altri si discordano dagli altri, e da questi: e dicono che, come ella aveva commesso l’adulterio con alcuno, incontanente lo faceva uccidere, acciocchè il peccato stesse celato. E dicono che essendo ella alcuna volta ingravidata, per lo parto si manifestava, e per essere scusata, dicono che ella fece quella legge, della quale poco d’avanti fu fatta memoria. E benchè paresse alquanto tenere coperto lo disconcio peccato del figliuolo, non potè tor via la indegna azione di quello, perchè mosso a ira uccise quella scellerata reina; o perchè egli vedesse lo suo peccato comune con molti altri, e per questo lo portasse meno pazientemente; o che egli giudicasse sua vergogna la disonestà della madre; o forse perchè temeva che nascesse figliuolo a sospezione dell’impero.

Giovanni Boccaccio

VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO DA CASENTINO
DELL’OPERA INTITOLATA
DE CLARIS MULIERIBUS DI M. BOCCACCIO
PROLOGO
Incomincia il Libro delle famose Donne, compilato per lo illustrissimo uomo M. Boccaccio, poeta fiorentino, a petizione della famosissima reina Giovanna di Puglia, traslatato di latino in volgare da M.° Donato da Casentino.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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