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Messaggi del 01/12/2014

Il Dittamondo (1-12)

Post n°714 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XII

"Nel tempo che nel mondo la mia spera 
apparve in prima qui, dove noi siamo, 
dopo il diluvio ancor poca gente era. 
Noè, che si può dire un altro Adamo, 
navicando per mar giunse al mio lito, 5 
come piacque a Colui, cui credo e amo. 
E tanto li fu dolce questo sito, 
che per riposo a la sua fine il prese, 
con darmi piú del suo, ch’io non t’addito. 
Giano apresso a donnearmi intese 10 
e costui m’adornò d’una corona, 
insieme con Iafet e con Camese. 
Italus, poi, un’altra me ne dona; 
sí fe’ Saturno, che di Grecia venne, 
lo qual molto onorò la mia persona. 15 
Ercules, quel che ne le braccia tenne 
Palantea, per lo suo valor, non meno 
che gli altri, fece ciò che si convenne. 
Evandro, con gli Arcadi, ricco e pieno, 
una ne fabbricò nel monte mio, 20 
maggiore assai che gli altri non mi feno. 
Roma, Aventino e Glauco non oblio, 
li quai me ne fen tre, tal che ciascuna 
per sua beltá in gran pregio salio. 
E sí m’era allor dolce la fortuna, 25 
che d’Oriente a me venne il re Tibri, 
al qual piacendo, ancor me ne fe’ una. 
Ma perché d’ogni dubbio ti delibri 
e sappil ragionar, se mai t’affronti 
con gente a cui diletti legger libri, 30 
piacemi ch’ancor piú chiaro ti conti: 
sappi, queste corone, ch’io ti dico, 
mi fun donate dentro a sette monti. 
Ma qui ritorno a Giano, il mio antico, 
del qual t’ho detto che, dopo Noè, 35 
li piacque il luogo dov’io mi nutrico. 
De’ Latin fu costui il primo re, 
pien di scienza con tanta vertute, 
che di molte gran cose al mondo fe’. 
Costui truovò le genti sí perdute 40 
d’ogni argomento, che di fredde vivande 
vivean, come bestie matte e mute. 
Chiare fontane ed erbe crude e ghiande 
eran lor cibo e stavano sparti
a libito ne’ boschi e per le lande. 45 
Esso le raunò da tutte parti 
e dirizzolle nel vivere alquanto, 
mostrando loro e digrossando l’arti. 
De la sua morte si fece gran pianto; 
sette e venti anni regna e tra lor era 50 
tenuto com’è or fra noi un santo. 
E se deggio seguir ben mia matera 
e del caldo disio, del quale asseti, 
trarti la brama, come l’hai, intera, 
dir mi convene sí come di Creti 55 
Saturno si fuggio e venne a Giano, 
perché il figliuol nol prendesse a le reti. 
Crudele, impronto, al mal tratto e villano, 
avaro sí, che sempre il pugno serra, 
costui dipingo e con la falce in mano. 60 
Tre figliuoli ebbe, iddii nomati in terra: 
Nettunno l’un, che si disse marino, 
dal mar sorbito ne la trista guerra; 
l’altro fu Pluto, del quale il destino 
fu tal, che, avendo un paese in governo 65 
salvatico, boscoso e pellegrino, 
lo padre suo per gola, s’io dicerno, 
del regno, il fe’ morire a tradimento 
e nominato fu dio de lo ’nferno. 
Giove regnava, secondo ch’io sento, 70 
di sotto Olimpo, che pria prova il gelo 
che ’l sol del tutto a Virgo scaldi il mento. 
Costui, perch’ebbe ognor diletto e zelo 
ne l’alto monte e intese a vertute, 
si disse, dopo morte, iddio del cielo. 75 
Ora, veggendo le mortai ferute 
de’ suo’ fratelli, il padre cacciò via 
sí per vendetta e sí per sua salute. 
Di qua fuggio, come t’ho detto; in pria 
nascoso stava e, quando Gian morio, 80 
rimase solo a lui la signoria. 
E, benché fosse tanto avaro e rio, 
nondimeno era scaltro e intendente 
e sottil molto a ogni maestrio. 
Costui mostrò di far nave a la gente, 85 
scudi, moneta e di terra lavoro, 
ché prima ne sapean poco o niente. 
Questa etá si disse etá de l’oro, 
perché la gente viveano a comuno, 
sobria, casta e libera fra loro, 90 
semplice, pura e senza vizio alcuno.

 
 
 

Giovambatista Ricchieri (21-24)

Post n°713 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Giovambatista Ricchieri (21-24)

I Colori.

XXI.

Se quando già dal Ciel partì l'Aurora,
Cinzia, rimiri il Sol, che adorno e cinto
Di viva luce il nostro Cielo indora,
Resta il tuo sguardo allor sorpreso e vinto.

Ma se un vetro angolare egli colora,
Si rifrangono i raggi, e ognun distinto
Palesa nell'opposto oggetto allora
Il bel natìo colore, ond'egli è tinto.

Non rifranto biancheggia il raggio, e intero
Dove muor non riflesso, ivi si stende
Privo tutto di luce il color nero.

Sorride, e gli occhi bruni, onde m'accende,
Cinzia volgendo a me, dice: È pur vero,
Che nel negro colore il Sol non splende?



L'Anima de' bruti.

XXII.

Cinzia, credesti già di sensi privo
L'ampio stuolo de' Bruti, e d'alma voto,
E che apparisse in lor tutto di vivo
Per le leggi immutabili del moto.

Ma vive in questi un luminoso attivo
Spirto motore, anche a' più Saggi ignoto,
Che in lor passò, come dal fonte al rivo,
Dal primo padre al figlio più remoto.

Egli, misto col sangue, per le vene
Va scorrendo dal core: ei sente, e pensa,
E della vita il corso egli sostiene.

In morte poi l'animatrice intensa
Viva fiamma sen' vola alle serene
Lucide vie dell'ampia sfera immensa.



Il Tempo.

XXIII.

Cinzia, da me brami saper, che sia
Il Tempo. Io dir nol so. Più che m'interno
Nelle tenebre sue, più l'alma mia
Resta sorpresa, e meno ognor ne scerno.

Questo solo di certo alcun potria
Dir, ch'egli è incomprensibile ed eterno:
C'era già, quando l'Universo uscia
Dal nulla al cenno del Fattor superno.

Presume altri saper la sua natura,
Perché del Sole e de' Pianeti al moto
In parti lo divide, e lo misura.

Così talun, perché d'un'Ente ignoto
La quantità ravvisa, ei si figura
Che in tutto allora al suo pensier sia noto.



Nello stesso soggetto.
(Il Tempo.)

XXIV.

Quindi, Cinzia, l'uman frale intelletto
Si confonde nel Tempo, e nol comprende,
Perché eterno, infinito; ed ei, che stretto
È in angusto confin, nulla ne intende.

Né chiaro il fa ciò, che si crede effetto
Di varie immaginate sue vicende.
È composta l'idea di questo oggetto:
Eppure inesplicabile si rende.

Egli non è, che il tutto rode e atterra,
Ma la cagion di tante ampie rovine
Son l'aria, l'acque, i fulmini, la guerra.

Egli il fuoco a' begli occhi, e l'oro al crine
Non rapisce, ma dentro a noi si serra
Il fier nemico, onde ogni cosa ha fine.

Giovambattista o Giovambatista Ricchieri
Tratto da: Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio (Genova, Bernardo Tarigo, 1753)

 
 
 

Sonetti di Raffaello Sanzio

Post n°712 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sonetti di Raffaello Sanzio

Sonetto 1

Amor, tu m'envesscasti con doi lumi
de doi beli occhi dov'io me strugo e [s]face,
da bianca neve e da rosa vivace,
da un bel parlar in donnessi costumi.

Tal che tanto ardo, ch[e] né mar né fiumi
spegnar potrian quel foco; ma non mi spiace,
poiché 'l mio ardor tanto di ben mi face,
ch'ardendo onior più d'arder me consu[mi].

Quanto fu dolce el giogo e la catena
de' toi candidi braci al col mio vòl[ti],
che, sogliendomi, io sento mortal pen[a].

D'altre cose io' non dico, che fôr m[olti],
ché soperchia docenza a mo[r]te men[a],
e però tacio, a te i pens[e]r rivolti.

Variante

o vaghi miei pensi[e]r in me rivolti,
considerade [a] la beltate amena.

Sonetto 2

Como non podde dir d'arcana Dei
Paul, como disceso fu dal c[i]elo,
così el mio cor d'uno amoroso velo
ha ricoperto tuti i penser miei.

Però quanto ch'io viddi e quanto io fei
pel gaudio taccio, che nel petto celo,
ma prima cangerò nel fronte el pelo,
che mai l'obligo volga in pensi[e]r rei.

E se quello altero almo in basso cede,
vedrai che non fia a me, ma al mio gran foco,
qua più che gli altri in la fervenzia esciede.

Ma pensa ch'el mio spirto a poco a poco
el corpo lasarà, se tua mercede
socorso non li dia a tempo e loco.

Varianti

I) Però quanto ch'io vidde e quanto io fei
dir non posso io, ch'uno amoroso zelo
fa che talor di morte el crudel felo
se gusta, ma tu rimedio al mio mal sei.

II) Donnqua te pregarò, ché 'l peregar qui lice,
per ritrovarsi in su sublimo loco
a poter dir nel mondo esar felice

III) Adunqua tu sei sola alma felice
in cui el c[i]el tuta beleza pose,
che rivelasse al mondo non se lice,
ch'el tien mio cor come in foco fenice.

IV) che 'l mio cor arde qual nel foco fenice.

V) e, se benignia a me tua alma inclina
abasso..

VI) e se ben guardi... infimo loco.

VII) ...Arno, Po, Nil, Inde e Gange

VIII) e, se 'l pregar mi[o] in te avesse loco,
giammai non resteria chiamar mercede,
fi[n] che nel petto fuso el parlar fi[o]co.

IX) ma, se li mi[e] favile a poco a poco

X) [E] guarda a l'ardor mio non abbi a gi[o]co,
ché, sendo io tuo sogetto, o[g]ni concede
che per mia fiama ardresti a poco a poco.

XI) E, guarda l'ardor mio non abbi a gi[o]co,
ché, esendo io fiama e tu di giazio, ho fede
che da mia fiama ardresti a poco a poco.

XII) ma omni amuna gentil di basso loco
cerca surger gran cose, e imperò ho fede
che tua virtù m'esalta a poco a poco.

XIII) ma asa[i] fia el tacer che dirne poco.

Sonetto 3

Un pensier dolce è rimembra[r]se in modo
di quello asalto, ma più gravo è il danno
del partir, ch'io restai como quei ch'hano
in mar perso la stella, se 'l ver odo.

Or, lingua, di parlar disogli el nodo
a dir di questo inusitato ingano
ch'Amor mi fece per mio gravo afanno,
ma lui pur ne ringrazio e lei ne lodo.

L'ora sesta era, che l'ocaso un sole
aveva fatto, e l'altro surse in loco,
ato più da far fati che parole.

Ma io restai pur vinto al mio gran foco
che mi tormenta, ché dove l'on sòle
disiar di parlar, più riman fioco.

Varianti

I) più di dispetti è ricordarsi el dano
del suo partir...

II) molte speranze nel mio peto stanno.

III) e questo sol m'è rimasto ancor

IV) quel dolce suo parlar...

V) pel fisso immaginar quel...

VI) nel mio pensi[e]r quel s[u]o pa[rlar]...

VII) moso tanta letizia che...

Sonetto 4

[S']a te servir par mi stegeniase, Amore,
per li efetti dimostri da me in parte,
tu sai el perché, senza vergante e in carte
ch'io dimostrai el contrario del mio core.

[I]o grido e dico or che tu sei el mio signiore
dal centro al ciel, più sù che Iove o Marte,
e che schermo non val, né ingenio o arte,
a schifar le tue forze e 'l tuo furore.

Or questo qui fia noto: el foco ascoso
io portai nel mio peto; ebbi tal grazia,
che inteso alfin fu suo spiar dubioso:

e quell'alma gentil non mi dislazia,
ond'io ringrazio Amor, che a me piatoso
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Varianti

I) che 'l dol ristrisse del ferite core
s'esso se vede al marzial furore.

II) né Saturno né Jove, Mercurio o Marte

III) e s'alcun temp[o] portai ascoso el foco

IV) e che quella che 'l sol vince di luce
or per...

Sonetto 5

[Fe]llo pensier, che in ricercar t'afanni
[d]e dare in preda el cor per più tua pace,
[n]on vedi tu gli efetti aspri e tenace
[de] cului che n'usurpa i più belli anni?

[Dur]e fatiche, e voi, famosi afanni,
[r]isvegliate el pensier che in ozio giace,
most[r]ateli quel sole alto che face
[s]alir da' bassi ai più sublimi scanni.

[Div]ine alme celeste, acuti ing[e]ni,
che .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
disprezando le pompe e scetri e regni,

Varianti

I) ...ce ho pensier cole che onclinar volti

II) ...voler seguita la nostra stella

III) non vedi tu da l'uno a l'altro polo.
[D]a l'ocaso al leva[nte]...

IV) ...pensier, fa che...

V) [d]ivene alme, o voi, celesti ingenie,

VI) Sol per most[r]arci...

Sonetto 6

Come la veggo e chiara sta nel core
tua gran bellezza, il mio pennello franco
non è in pingere egual e viene manco,
perché debol riman per forte amore.

Sì mi tormenta lo infinito ardore.
Il volto roseo, il seno colmo e bianco,
con lo rotondo delicato fianco,
ha di vaghezza che abbaglia di splendore.

L'insieme allo pensier tutto commosse,
che atto non fe' il saper; perciò nemica
fece la man che al ben ritrar non mosse.

Ognor fisso studiar in dolce amica
quella beltà che ciel credea sol fosse,
fia che il desiar compirà la mia fatica.

(sonetto quasi sicuramente apocrifo)

 
 
 

Francesco Maria Molza (2)

Post n°711 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

[6 Di Francesco Maria Molza]

Come posso dir' io che sì begli occhi
Sian, donna, vostri, e sì soave il guardo,
S'io non v'oso guardar quando vi guardo;
Perché qualor avvien che gli occhi miei

Cercando l'orme vostre in alcun loco
Scontran la maraviglia di quel volto
Ratto di tante e sì diverse avvolto
Voglie mi trovo, e tra sì dolci e rei

Pensier, tema, vergogna, in ghiaccio e in foco,
Che se la vista un poco
Alzo a mirarvi, a quella altiera e grave

Vostra tant'onestà l'alma mia pave
E arrosso e imbianco a un tempo e impallidisco
E vorrei pur mirarvi, e non ardisco.

[7 Di Francesco Maria Molza]

Come potrò lontan dal mio bel sole
Guidar la stanca navicella in porto,
Se con lui vivo, e senza lui son morto?
Come potrò senz'alma, e senza core
Viver unquanque, o travagliata vita?
In lui resta di me la miglior parte.
Tu ch'i vani desii nostri comparte
Spegni col piombo in me l'usato ardore
E accendi lui talché mi doni aìta,
O potenza infinita
D'amor, ch'un corpo d'ogni senso privo
Senz'alma, senza cor tenghi ancor vivo.

[8 Di Francesco Maria Molza]

Al signor Vescovo di Verona in quei tempi Datario di Nostro Signore.

Spirto gentil, che 'n giovenile etade
Italia nighitosa ai primi pregi
Chiamate spesso de' suoi luoghi egregi
Mentre vi stringe il cor alta pietade.

Alle dolci, occupate, alme contrade,
Già seggio illustre d'onorati regi,
Gli occhi volgete e fra bei vostri fregi
Luogo abbia ancor di lei la libertade.

E se fortuna di furor accesa
Ch'a bei principi fu sempre molesta
Intoppi n'apparecchia amari et empi,

Non lasciate, signor, vostr'alta impresa;
Però che non fu mai sì com'or presta
Italia a ritornar gli antichi esempi.

[9 Di Francesco Maria Molza]

Madrigale del Molza

Perché piangi, alma, se per pianger mai
Fin non speri a' tuoi guai?
Per questo sol piango io;
Che s'alli affanni miei
Prometteste riposo, il pianto mio
Tanta letizia de la speme avrei
Che pianger non potrei;
Però fuor di speranza
Sol lagrimar m'avanza.

[10 Di Francesco Maria Molza]

Canzone del Molza

L'alta speranza che 'l mio cor saluta,
E fallo rallegrar com'a lei piace,
Meco ragiona in sì soave guisa
Che l'alma ogni altro ben odia e rifiuta,
E giovale sperar che la sua pace
Alberghi in quei begli occhi onde fu ancisa;
Perché mi tien de ragionar precisa
Ogn'altra via, e spesso m'assicura
Con voce sì soave di sospiri
Portarvi inanzi il duol de' miei martìri,
Ch'ogni doglia, quantunque acerba e dura,
Rivolgi in festa pura:
Questa mi porge a dir ferma fidanza
Ch'ogni altrui gioia il mio languir avanza.
Ciò gli occhi fanno, che sì dolce aprìo
Con le sue man Amor, che 'l perder vita
Li cui cantai e cantarò in eterno.
Da questi di valore ardente uscìo
Per passar dentro a' miei virtù infinita,
Alla cui giunta ogni mio senso interno
Presto die' loco, sì com'io discerno,
Per prender qualità da quel bel raggio
Che dal volto cadea, ove dimora
Quanto di bel il secol nostro onora.
Qual fia a parlar giammai cotanto saggio,
Che 'l lor dolce vïaggio,
E quel ch'appena col pensier disegno,
Aguagli, o 'l bel morir ch'onor mi tegno?
Forse che non ve erate in fin quel giorno
Accorta a pieno ancor come piacete,
E com'il ciel vi fe' sì bella cosa?
Perché 'l dolce atto di pietate adorno,
Il ben ch'egli può dar, che voi tenete
Mostrasse altrui la via de gire ascosa
Là dove in pace il suo fattor si posa.
Però contra colui che tutto vede,
Madonna, e che veghiati ch'altri fiso
In voi non scorga il ben del paradiso
Celandogli il bel don che per mercede
Del suo valor vi diede
Il lume, de cui mai nulla si perde
Per muro, o poggio mai, o fronde verde.
Ché sempre ho inanzi il bel sembiante umano,
Che 'l disgombra d'ogni duol ch'aquista
Longe da voi, che siete la sua duce.
Ché, se dato v'ha il cielo in vostra mano
Il potervi arricchir sol della vista,
Dritto è che del valor ch'indi traluce
Nell'alma viva e de sì chiara luce,
Innanzi a cui da vespro e da le squille
Passarci terza pria che pur un poco
Sfogato avessi l'amoroso foco
Del cor che vi recoron le faville,
Intrando a mille, a mille
Da que' begli occhi, ond'al prezzar imparo
Quanto di bello apprezza il volgo avaro.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Francesco Maria Molza

Post n°710 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Capitolo I

[1 Di Francesco Maria Molza]

Del Molza

Se ben non scopro in viso di dolermi
E mia vita tranquilla appar di fore,
Ahi! simulata gioia in gran dolore,
Non son io roso da secreti vermi?

I miei desir più che mai saldi e fermi
Porto nascosi, e sì gli stringo al core
Che potenza crudel, né volger d'ore
Da voi non mai potran sciolto vedermi.

Simil son io a un bel sepulcro ornato,
Che per vaghezza assai diletto prende,
Poi dentro serba paventosa morte.

Spirto gentil, il mio noioso stato
Non iudicate, che mal si comprende
Al canto, al riso, al volto l'altrui sorte.

[2 Di Francesco Maria Molza]

Sonetto del Molza

Rott'è l'antico nodo e 'l foco spento
Per cui già 'l cor sì caldamente m'arse,
Si ch'omai ben è tempo da ritrarse
Dal longo strazio e dal crudel tormento.

Potete omai mostrar le chiome al vento,
Or in gemme raccolte, ed ora sparse,
Può ben l'altero cor pietoso farse
Ch'io son di non più amar lieto e contento.

E ripigliar potete i vaghi panni,
L'oro, le perle e con accesi sguardi,
Con atti e con parole alzarmi al cielo;

Ma ch'io ritorni agli amorosi affanni
Non fia giammai; ché n'accorgèmo tardi
Io di vostra pietà, voi del mio gelo.

[3 Di Francesco Maria Molza]

Fuggitevi da me, pensier noiosi,
Ché basta ben s'un tempo tanto haveti
Imperio nel mio cor, e stati seti
Cagion de' brevi miei dolci riposi.

E fate luogo omai che si riposi
Dov'eravate in me pensier più lieti,
Tal che mai sempre in l'avenir si vieti
A voi di star in me troppo nascosi.

Ch'io spero restaurar tutti i miei danni
Col nuovo giogo che m'ha posto al collo
Amor, che a suoi soggetti mai non manca.

Et dalli in preda i miei futuri anni
Con leal servitù, sanza dar crollo,
Anzi più sempre colla voglia franca.

[4 Di Francesco Maria Molza]

Canzone del Molza

Alma città, che già tenesti a freno
E le terre vicine e le lontane
Per tutto ove 'l mar cinge e scalda il sole,
Or fatta ancella sei di gente strane
Ch'ingombran di vil seme il tuo bel seno,
Facendo spuria così nobil prole.
Amor mi sprona a dir di te parole
Con la pietà, che fuor mi bagna il petto,
Veggendo nude le tue membra e sparte.
Benché l'ardir e la memoria e l'arte
Sento mancarmi a sì alto soggetto.
Ma se nell'intelletto
Ti rendo in parte le memorie antiche,
Assai care saran le mie fatiche.
Quanto altrui rimembrar noioso sia
Nelle miserie sue del tempo lieto
Niun lo sa più di te, se guardi il vero.
Ritorna alquanto con la mente adietro,
Mirando la tua immensa monarchia,
E la terra tremar sotto 'l tuo impero
E l'armi tue e 'l tuo bel nome altero
Far tributari a te populi esterni.
E i trionfi, l'imagini e i grandi archi,
E d'oro, e gemme, e spoglie i tempï carchi,
E tanti figli tuoi di gloria eterni,
Tanti spirti superni
Ch'or d'oro terso, ora d'un verde lauro
T'ornàro il fronte altero e 'l bel crin d'auro.
Nel tuo bel grembo e ne' publici luochi
Tra quella gente sol di gloria amica,
Che si vedeva in quella adorna etade,
Roma già tu 'l sa' ben, senza ch'i 'l dica,
D'alte jacture, sacrifici e giochi
Acquistate col senno e con le spade,
E 'l Campidoglio e le sacrate strade
Da carri trionfali esser calcate,
Carchi di ricche prede e regi vinti
E di trofei pomposi intorno cinti:
E l'unïon di quelle alme beate,
Sol di virtude ornate,
E 'l tuo senato, a tal grado condutto,
Che dava leggi a l'universo tutto.
Or ti veggio, e mi duol, patria dolente,
E di populi tanti e tanti regni
A te fatti sugetti al tutto priva,
E quel valor, quel peregrini ingegni
Son persi, e ciascun'anima eccellente,
Per cui sempre sarai nel mondo viva;
Bontà, religion, concordia e fede
Fuggir da te, quasi da proprio albergo.
Dico, poi ch'al ben far volgesti il tergo,
Roma (misera te!) che fusti erede,
Com'oggi ancor si vede,
Di tutti quei peccati accolti insieme
Che commetter si pon tra l'uman seme.
Onde rimasa sei povera e ignuda,
Pallida in viso, e con fatica i panni
Coprir ti pon le parti vergognose.
Guardati attorno, e vedrai già tant'anni
Ch'albergo fatta sei di gente cruda,
Nel cui voler giammai non te ripose,
E sotto 'l manto tuo starse nascose
Avarizia, superbia, ambizïone,
Lussuria, gola e l'altre brutte arpie,
E da mille fangose e torte vie
Ogni barbara, inculta nazïone
Adosso man ti pone
Profanando le membra delicate
A tutto 'l mondo in reverentia state.
E pur, s'alcuno spirito gentile
Amico di virtù teco si trova,
Che la tua sciolta vita ti dispiaccia,
A l'invecchiato mal poco ti giova,
Misera, e tu medesma il tieni a vile,
Ché dal vero cammin volt'hai la faccia:
Anzi convien che 'l buon siegua la traccia
Degli empi figli tuoi, pien di furore,
Dati al comune incendio, alla ruina
Del proprio sangue tuo, patria meschina;
Che già solean con tanto alto valore
Morir sol per onore
E delle piaghe e del lor petto esangue,
Spargean fuori non men gloria che sangue.
Adonque al gran bisogno alza la testa,
Se del tuo vero onor punto ti cale,
Ché 'l tempo ancor sarà, purché tu vogli,
Non aspettar che 'l mal tuo sia mortale,
Ch'io veggio tua ruina manifesta,
Se di tante discordie non ti sciogli
E gli animi diversi indi raccogli,
Unitamente, e al sacro concistoro
Ti volgi a quei nel cui voler è dato
Dar nuovo sposo al tuo tempio sacrato.
E non sol per tua pace priega loro;
Ma ancor per suo ristoro.
Che questa eletïon sia in virtute
Del santo spirto e de la sua salute.
Canzon mia, non escir de' sette colli,
Ove 'l Tebro più superbo al mar descende,
E dalla molta gente che vedrai;
Alli maggiori umilmente dirai
Ch'ormai voglian da sé l'odio disciorre,
E gli animi disporre
Talmente che per essi a questi giorni
Roma ne' primi onori lieta (i)torni.

[5 Di Francesco Maria Molza]

Occhi beati, e tu del ciel discesa,
Alma felice, cui sì chiaramente
L'alto valor de la pudica mente
Per entro quelli al mondo si palesa.

Se il mio desir mi sprona a bella impresa,
Gli è per vostra mercé che sì presente
Il raggio mi mostrate almo e lucente
De la virtù, ond'è mia voglia accesa.

I' fora sanza voi qual sanza rivo
Un secco prato, o sanza spiga un'erba
Cui poi negasse la sua luce il sole.

Né sol io col splendor vostro m'avvivo;
Ma il ghiaccio ancor ne la stagion acerba
Potrebbe innanzi a voi produr vïole.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Giovambatista Ricchieri (17-20)

Post n°709 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Giovambatista Ricchieri (17-20)

Il Fulmine.

XVII.

Cinzia, lo struggitor sulfureo strale,
Che vaste moli in polve a terra stende,
Dalle squarciate nubi a noi non scende,
Ma ver l'alto dal suolo impenna l'ale.

Igneo spirto di solfo, aereo sale
Da i Venti si comprime, indi s'accende,
E scoppia in fuoco, e mentre in alto ascende,
Rovinoso le torri e i monti assale.

Così l'alato fulmine sonante
Dal terrestre vapor quaggiù si crea,
Se l'aria nuvolosa è men pesante.

Che poi dal Cielo a incenerir la rea
Empia gente lo vibri il Dio Tonante,
Son vani sogni della Plebe Achea.



Nello stesso soggetto.

XVIII.

Son vani sogni della Plebe Achea,
Che dalle nubi acquose il Dio Tonante
Vibri irato lo strale fulminante,
Che si temprò nella fucina Etnea.

Ma non è vana immaginata idea,
Che, mosso a sdegno il vero Dio da tante
Colpe, mostri il terror della pesante
Mano in punir l'iniqua gente e rea.

Il tremuoto, che scote e Torri e Tempj,
L'orribile fragor della saetta,
Son le voci, ond'ei parla al cor degli empj.

I nembi, l'aria avvelenata e infetta,
Le guerre, aspra cagion d'orridi scempj,
Sono i ministri della sua vendetta.



Il Flusso e riflusso del Mare.

XIX.

Quando con l'aurea luce il dì nascente
Dal Tauro i gioghi, e l'Eritreo colora
In quelle parti attratto è dall'ardente
Face del Cielo il nostro globo allora.

E quindi là si gonfia il Mar, che sente
L'impulso al primo aprirsi dell'Aurora;
E sceman sulle spiagge d'Occidente
L'acque, fin che sul Gange il Sol dimora.

Quando poi dal meriggio ei sferza l'onde,
Sotto i suoi raggi il mare incurva il dorso,
E nell'Indico sen s'alzan le sponde.

Così pur, s'oltra Calpe è già trascorso
Il carro luminoso, e a noi s'asconde,
Corre l'acqua, e ne siegue attratta il corso.



Nello stesso soggetto.
(Il Flusso e riflusso del Mare.)

XX.

Non è già solo il portator del giorno,
Che co i fervidi raggi, ond'egli accende
Il nostro globo, errante a lui d'intorno,
Attragga il mar, che sovra i lidi ascende.

Ma l'Astro ancor d'argentea luce adorno,
Che nel notturno oscuro Ciel risplende,
Muove l'onda, che or fugge, or fa ritorno
Con eterne immutabili vicende.

E perché più del Sole a noi dappresso
Nel suo corso la Luna errando gira,
Maggior moto è da lei nel mare impresso.

Cinzia, or tu fai ciò che a mill'altri inspira
Stupor, vedendo che dal lido istesso,
A cui l'onda tornò, poi si ritira.

Giovambattista o Giovambatista Ricchieri
Tratto da: Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio (Genova, Bernardo Tarigo, 1753)

 
 
 
 
 

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