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Messaggi del 08/12/2014

Nun te pôi scordà

Post n°763 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Nun te pôi scordà

Vedi 'n po' tu sì ccome la mettemo
certo nun serve stà llì a 'rrovellacce.
Si 'nvece ce mettessimo a parlacce,
le cose storte 'nzieme le vedemo

e forze quarche ccosa sorteremo
capace, quanto meno, de spiegacce
come e perché de tutte 'ste fregnacce
che senza mai stancacce noi facemo.

Davero nun lo voi senti 'r mio côre?
Pôi fà la dura, Amò, quanto te pare,
pôi chiude l'occhi e ffigne d'esse sorda,

te pôi vortà, senza più damme corda,
perch'hai magnato troppe cose amare,
ma nun te pôi scordà der nostro amore.

Valerio Sampieri
8 dicembre 2014

 
 
 

Il Dittamondo (1-25)

Post n°762 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXV

Non s’insuperbi alcun, per aver possa, 
ché qual si fida in questi ben terreni 
va dietro al cieco e cade ne la fossa. 
Non creda alcun che questi mortal beni 
si possano acquistare e poi tenere 5 
senza gustar sapor di piú veleni. 
Forse anni sei potea compiuti avere, 
quando tornai a la seconda guerra, 
la qual piú ch’altra assai mi fe’ dolere: 
ché certamente mai sopra la terra 10 
briga non fu, per la qual tante toniche 
fosson ricise per colpi di ferra. 
E sian tenute tutte l’altre croniche 
per ricche spese, a rispetto di questa: 
io dico ben troiane e macedoniche. 15 
E come Livio ancor ti manifesta, 
li figliuoi d’Amilcar funno cagione 
per la qual venni a sí mortal tempesta. 
E qual parrebbe a vedere un leone 
uscir del bosco, quando ha gran disio 20 
di far sopra altra bestia offensione, 
cotanto bramo e fiero si partio 
d’Africa Annibale e passò il mare 
e sui liti di Spagna pria ferio. 
Lá provai io di volerlo arrestare 25 
con preghi, con minacce e con difese: 
ma fu niente che ’l potesse fare. 
Sagunto prese e vinse quel paese; 
e, per lo molto acquisto e per la fama, 
d’avermi a sé maggior disio li prese, 30 
come a l’uom vien che, prendendo una rama 
de l’albore, che con piú voglia bada 
giungere a quella ov’è ’l frutto che brama. 
E si mosse col fuoco e con la spada, 
fiumi e selve passando, in fin che venne 35 
lá, dove coi piccon fe’ far la strada. 
Né Scipio Cornelio allora il tenne 
né ’l passo del Tesin, né quel del Taro, 
né Sempronio, ché sol fuggir convenne. 
Né la freddura poté far riparo 40 
con la gran neve al giogo d’Apennino, 
benché ’l passar assai li costò caro; 
né fu tal la ventura né ’l distino 
di Flaminio mio e de’ compagni 
che potesson por fine al suo cammino. 45 
Or sarai crudo, se gli occhi non bagni 
udendo ’l gran martir, ch’a dir ti vegno, 
e se qui meco il mio dolor non piagni. 
Ahi, Canosa, quanto ancora mi sdegno 
di nomar te, quando fra me rimiro 50 
che fonte fosti al sangue mio piú degno! 
Orosio ben descrive il gran martiro 
ch’ el fe’ de’ miei, per gli anelli tratti 
de’ diti a quelli che quivi moriro. 
Tanti ne funno allora morti e catti, 55 
che, se seguito avesse la fortuna, 
posto avea fine a tutti i miei gran fatti. 
Oh quanto è senno, quando cosa alcuna 
buona innanzi t’appar, prenderla tosto, 
ché poi, passata, è un guardar la luna! 
Apresso tutto quel ch’io t’ho proposto 
piú dí passati, col suo gran podere 
si mosse e venne al mio dolor disposto. 
E cosí me, ch’avea potuto avere, 
cercando andava (ma ciò fu niente) 65 
che mi potesse al suo disio tenere; 
benché, secondo ch’io mi tegno a mente, 
la pioggia allor li tolse la vittoria, 
onde ai suoi dei si dolse amaramente. 
Ormai ti vo’ contar de la mia gloria 70 
e ragionar di Scipio, la cui luce 
lume fu sempre a tutta la mia storia. 
Ché, come alcuna volta il ciel produce 
e la natura un uom, ch’al mondo è tale 
che miracolo par ciò che conduce, 75 
costui produsse. E però che fa male 
qual pone il ben ricevuto in oblio, 
qui vo’ tenere un poco ferme l’ale. 
Dico che questo caro figliuol mio 
tanto felice e grazioso fue, 80 
che la gente il tenea quasi uno dio. 
E non credo facesse a Troia piue 
Ettor, che fe’ costui per iscamparmi: 
sí valorose fun l’opere sue. 
Prudente, giusto, accorto, franco in armi, 85 
e temperato e forte in suoi costumi, 
largo e casto lo trovi in molti carmi. 
Qui pensa se è ragion ch’io mi consumi: 
ch’avendomi difesa a ogni mano, 
per molta invidia accusato fumi; 90 
onde il mio senno fu sí poco e vano, 
ch’io gli chiesi ragione: e sol trovai 
non piú portarne che ’l nome Africano. 
Se ingrata fui, ben l’ho, poi, pianto assai.

 
 
 

Rime di Veronica Franco

Post n°761 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime di Veronica Franco e brevi note biografiche

Le Terze rime di Veronica Franco ebbero una sola edizione nel Cinquecento (Venezia, senza indicazione tipografica, 1575). Una ristampa di esse (con una scelta di sonetti), per quanto scorretta, si ebbe solo nel 1912, curata da Gilberto Beccali e stampata a Lanciano dal Carabba. Di gran lunga migliore l'edizione del Salza (G. Stampa, V. Franco, Rime, 1912), che ha anche il pregio di radunare tutti i sonetti della Franco, che ci son pervenuti, e che erano fino allora sparsi in varie raccolte a stampa, fra cui ricorderemo le Rime di diversi eccellentissimi authori sulla morte dell'illustre signor Estor Marlinengo, conte di Malpaga ..., raccolte dalla signora Veronica Franco, s.n.t., 1575.

Indice sonetti e Terze Rime

I 16 sonetti di Veronica Franco

Terze Rime 1-2
Terze Rime 3-4
Terze Rime 5-8
Terze Rime 9-10
Terze Rime 11-12
Terze Rime 13-14
Terze Rime 15
Terze Rime 16
Terze Rime 17-18
Terze Rime 19
Terze Rime 20 (1)
Terze Rime 20 (2)
Terze Rime 21-22
Terze Rime 23-24
Terze Rima 25 (1)
Terze Rima 25 (2)

Brevi note biografiche di Veronica Franco.

Gli storici della letteratura italiana non sono stati troppo teneri con la Franco (1546-1591), famosa cortigiana di fine '500, definita sin nel titolo di alcuni volumi come "meretrice" e "prostituta", senza mezzi termini.
Misurata come al solito è invece la Bergalli Gozzi ("Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d'ogni secolo" ... parte seconda, che contiene le rimatrici dell'anno 1575 fino al presente, Venezia, Antonio Mora, 1726), che si limita a lodarla in una righetta scarsa: "Veronica Franco Donna di gran talento Veneziana, fiorì del 1578. le sue Terze Rime vanno impresse senza nome di Stampatore. pag. 18".
Nel citato volume la Bergalli riporta tre poesie della Franco, mentre il sito Italian Women Writers riporta per intero il volume delle sue "Rime" (Bari, Laterza, ca. 1575), contenute anche in "Gaspara Stampa-Veronica Franco: rime", ed. Salza, 329-361, 380-386, Ed. Salza, Abd-el-Kader, 1875-1919.

Il noto ritratto di Veronica Franco (vedi mio post su questo blog) è di Jacopo Tintoretto (si presume eseguito nel 1575, custodito presso il Worcester Art Museum, Worcester, Mass).

Breve saggio su Veronica Franco

Verso la fine del secolo, quando all'imitazione petrarchesca si sostituì una poesia che cercava di aprirsi, pur tra tante sovrastrutture di maniera, ad aspetti più realistici, troviamo la cortigiana veneziana Veronica Franco (1546-1591), donna di grande intelligenza e buona cultura. Ella intrattenne numerose relazioni con nobili e letterati del suo tempo. Di lei rimangono, oltre a un gruppo di sonetti, le Terze rime e le Lettere familiari a diversi.
Il Tintoretto dipinse un suo ritratto e si dice che Enrico di Valois, prima di tornare a Parigi, per essere incoronato re di Francia col nome di Enrico III, si fermasse a Venezia proprio per esserle presentato.
Le Terze Rime si possono definire lettere in versi sui più svariati argomenti, ma soprattutto sull'amore, sulla gelosia, sul ricordo di luoghi cari all'autrice, come Venezia o la campagna di Fumane nella Valpolicella.
Lo stile della poetessa è decoroso, non convenzionale e, nella confessione dei suoi amori, venato da una schietta sensualità .
Audaci dovettero sembrare ai suoi contemporanei parole come quelle della poesia che segue:

Certe proprietadi in me nascose
vi scovrirò d'infinita dolcezza,
che prosa o versi altrui mai non espose...

Così dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto
da cui amata e gradita mi sento,

che quel mio piacer vince ogni diletto,
sì che quel, che strettissimo parea,
nodo dell'altrui amor divien più stretto.

Le terzine sotto riportate sono sempre tratte dalle Terze Rime e parlano del sentimento di quieta amicizia per l'uomo un tempo amato che torna dopo molti anni :

Del mio passato amor dalla potenza
queste faville in me sono rimaste,
più temperate e di minor fervenza;

da queste accesa, le mie voglie caste
in quella guisa propria di voi formo,
che 'l santo amor a circonscriver baste.

In amicizia il folle amor trasformo,
e, pensando alle vostre immense doti,
per imitarvi l'animo riformo;

e, se 'n ciò i miei pensier vi fosser noti,
i moderati onesti miei desiri
non lascereste andar d'effetto vuoti.

Riduzione da: "Le Donne nella Storia Letteraria Italiana" di Gioia Guarducci, tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze.

 
 
 

Terze Rime 1-2

Post n°760 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Abdelkader Salza, Bari, Laterza 1913

I

Del magnifico messer Marco Veniero alla signora Veronica Franca

[Loda la bellezza e l'ingegno di Veronica e la prega di essergli benigna e amorosa.]

S'io v'amo al par de la mia propria vita,
donna crudel, e voi perché non date
in tanto amor al mio tormento aita?

E, se invano mercé chieggio e pietate,
perch'almen con la morte quelle pene,
ch'io soffro per amarvi, non troncate?

So che remunerar non si conviene
mia fé così ma quel mal, che ripara
a un maggior mal, vien riputato bene:

più d'ogni morte è la mia doglia amara;
e morir di man vostra, in questo stato,
grazia mi fia desiderata e cara.

Ma com'esser può mai che, dentro al lato
molle, il bianco gentil vostro bel petto
chiuda sì duro cor e sì spietato?

Com'esser può che quel leggiadro aspetto
voglie e pensier così crudi ricopra,
che 'l servir umil prendano in dispetto?

La gran bellezza a voi data di sopra
spender in morte di chi v'ama e in doglia,
qual potete peggior far di quest'opra?

Ciò da l'uman desir vostro si toglia,
e 'n sua vece vi penetri a la mente,
conforme a la beltà, pietosa voglia.

Così dentro e di fuor chiara e splendente
sarete d'ogni età vero ornamento,
non pur di questo secolo presente.

Pria che de' be' crin l'òr si faccia argento,
da custodir è quel, che poi si perde,
chi 'l lascia in man del tempo, in un momento:

e, se ben sète d'età fresca e verde,
nulla degli anni è più veloce cosa,
sì ch'a tenervi dietro il pensier perde;

e, mentre di qua giù nessun ben posa,
nasce e spar la beltà più che baleno,
non che qual nata e secca a un tempo rosa.

Ma poi, chi la pietà chiude nel seno,
col merto de la fama sua ravviva
le chiome bionde e 'l viso almo e sereno.

Dunque, per farvi al mondo eterna e diva,
amica di pietà verso chi v'ama,
siate di crudeltà nemica e schiva.

Oh, se vedeste in me l'ardente brama,
c'ho di servir voi sola a tutte l'ore,
con quel pensier ch'ognor vi chiede e brama,

e mi vedeste in mezzo 'l petto il core,
a me son certo che null'altro amante
pareggereste nel portarvi amore!

Ma guardatemi 'l cor fuor nel sembiante
pallido e mesto e nel mio venir solo,
dì e notte, con piè lasso e cor costante;

e, conoscendo il mio soverchio duolo,
e come in lui convien ch'ognor trabbocchi
di pene cinto da infinito stuolo,

volgete a me pietosamente gli occhi,
a veder come presso e di lontano
quinci ognor empio Amor l'arco in me scocchi,

stendete a me la bella e bianca mano
a rinovar il colpo, e che in tal guisa
il sen più m'apre e insieme il rende sano.

O beltà d'ogni essempio altro divisa
di cui l'anima in farsi umil soggetta,
stando lieta, qua giù s'imparadisa!

Amor da que' begli occhi in me saetta
con tal dolcezza, che 'l mio espresso danno
via più sempre mi giova e mi diletta.

Ben questi al chiaro sole invidia fanno,
bench'ancor Febo con diletto mira
le bellezze, che tante in voi si stanno:

di queste vago Apollo arde e sospira,
e per virtù di tai luci gioconde
il suo saper in voi benigno inspira;

e, mentre questo in gran copia v'infonde,
move la chiara voce al dolce canto,
ch'a' bei pensier de l'animo risponde.

La penna e 'l foglio in man prendete intanto,
e scrivete soavi e grate rime,
ch'ai poeti maggior tolgono il vanto.

O bella man, che con bell'arte esprime
sì leggiadri concetti, e le sue forme
dentro 'l mio cor felicemente imprime!

De l'antico valor segnando l'orme
questa ne va sì candida e gentile,
svegliando la virtù dove più dorme;

né pur rinova il glorioso stile
del poetar sì celebre trascorso,
che non ebbe fin qui par né simìle;

ma de le menti afflitte alto soccorso
È quella man ne l'amorosa cura,
che quivi ha 'l suo rifugio e 'l suo ricorso.

Di viva neve man candida e pura,
che dolcemente il cor m'ardi e consumi
per miracol d'Amor fuor di natura,

e voi, celesti e graziosi lumi,
ch'ardor e refrigerio in un mi sète,
e parer gli altrui rai fate ombre e fumi,

perch'a me 'l vostro aviso contendete?
e non più tosto con pietosi modi
al mio soccorso, oimè, vi rivolgete?

Né però chieggio che disciolga i nodi,
che 'ntorno al cor m'ordìo la mai sì vaga,
né che in alcuna parte men m'annodi

non chiedo ch'entro al sen saldi la piaga
il bel guardo gentil, che in me l'impresse,
d'amor con arte lusinghiera e vaga:

da quelle mani e da le braccia stesse
esser bramo raccolto in cortesia,
e che 'l mio laccio stringan più sempre esse.

bramo che quella vista umana e pia
si volga al mio diletto, e del bel viso
e de la bocca avara non mi sia.

Oh che grato e felice paradiso,
dal goder le bellezze in voi sì rade
non si trovar giamai, donna, diviso:

donna di vera ed unica beltade,
e di costumi adorna e di virtude,
con senil senno in giovenil etade!

Oh che dolce mirar le membra ignude,
e più dolce languir in grembo a loro,
ch'or a torto mi son sì scarse e crude!

Prenderei con le mani il forbito oro
de le trecce, tirando de l'offesa,
pian piano, in mia vendetta il fin tesoro.

Quando giacete ne le piume stesa,
che soave assalirvi! e in quella guisa
levarvi ogni riparo, ogni difesa!

Venere in letto ai vezzi vi ravvisa,
a le delizie che 'n voi tante scopre,
chi da pietà vi trova non divisa;

sì come nel compor de le dotte opre,
de le nove Castalie in voi sorelle
l'arte e l'ingegno a l'altrui vista s'opre.

E così 'l vanto avete tra le belle
di dotta, a tra le dotte di bellezza,
e d'ambo superate e queste e quelle;

e, mentre l'uno e l'altro in voi s'apprezza,
d'ambo sarebbe l'onor vostro in tutto,
se la beltà non guastasse l'asprezza.

Ma, se 'n voi la scienzia è d'alto frutto,
perché de la bellezza il pregio tanto
vien da la vostra crudeltà distrutto?

Accompagnate l'opra in ogni canto;
e, come la virtù vostra ne giova,
la beltà non sia seme del mio pianto:

in tanto amor tanto dolor vi mova,
sì che di riparar ai tristi affanni
entriate meco in lodevole prova.

S'al tempo fa sì gloriosi inganni
la vostra muta, la beltà non faccia
a se medesma irreparabil danni.

A Febo è degno che si sodisfaccia
dal vostro ingegno; ma da la beltate
a Venere non meno si compiaccia:

le tante da lei grazie a voi donate
spender devete in buon uso, sì come
di quelle, che vi diede Apollo, fate:

con queste eternerete il vostro nome,
non men che con gli inchiostri; e lento e infermo
farete il tempo, e le sue forze dome.

Per la bocca di lei questo v'affermo:
non lasciate Ciprigna, per seguire
Delio, né contra lei tentate schermo;

ché Febo se le inchina ad obedire,
né può far altrimenti, se ben poi
gran piacer tragge in ciò dal suo servire.

Così devete far ancora voi,
seguitando l'essempio di quel dio,
che v'infonde i concetti e i pensier suoi.

La bellezza adornate col cor pio;
sì che con la virtù ben s'accompagne,
lontan da ogni crudel empio desio:

queste in voi la pietà faccia compagne,
e in tanto vi rincresca, com'è degno,
d'un, che de l'amor vostro ognora piagne.

E son quell'io, che umìle a voi ne vegno,
cercando di placar con dolci preghi
la vostra crudeltate e 'l vostro sdegno:

mercé da voi, per Dio, non mi si nieghi,
donna bella e gentil, mio in tanta guerra
benigno il vostro aiuto a me si pieghi.

Così sarete senza par in terra.

II

Risposta della signora Veronica Franca

[Essa lo riama, e vuole ch'egli compia, per amor di lei, opere ed azioni conformi alla virtù dell'animo: solo allora gli concederà le gioie apprese da Venere.]

S'esser del vostro amor potessi certa
per quel che mostran le parole e 'l volto,
che spesso tengon varia alma coperta;

se quel, che tien la mente in sé raccolto,
mostrasson le vestige esterne in guisa,
ch'altri non fosse spesso in frode còlto,

quella tèma da me fôra divisa,
di cui quando perciò m'assicurassi,
semplice e sciocca, ne sarei derisa:

«a un luogo stesso per molte vie vassi»,
dice il proverbio; né sicuro è punto
rivolger dietro a l'apparenzie i passi.

Dal battuto camin non sia disgiunto
chiunque cerca gir a buona stanza,
pria che sia da la notte sopraggiunto.

Non è dritto il sentier de la speranza,
che spesse volte, e le più volte, falle
con falsi detti e con finta sembianza:

quello de la certezza è destro calle,
che sempre mena a riposato albergo
e refugio ha dal lato e da le spalle;

a questo gli occhi del mio pensier ergo,
e da parole e da vezzi delusa,
tutti i lor vani indizi lascio a tergo.

Questa con voi sia legitima scusa,
con la qual di non creder a parole,
né a vostri gesti, fuori esca d'accusa.

E, se invero m'amate, assai mi duole
che con effetti non vi discopriate,
come, chi veramente ama, far suole:

mi duol che da l'un canto voi patiate,
e da l'altro il desio, c'ho d'esser grata
al vostro vero amor, m'interrompiate.

Poi ch'io non crederò d'esser amata,
né 'l debbo creder, né ricompensarvi
per l'arra, che fin qui m'avete data,

dagli effetti, signor, fate stimarvi:
con questi in prova venite, s'anch'io
il mio amor con effetti ho da mostrarvi;

ma, s'avete di favole desio,
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accetto mio;

e, di favole stanco e sazio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio v'andrò certificando.

Aperto il cor vi mostrerò nel petto,
allor che 'l vostro non mi celerete,
e sarà di piacervi il mio diletto;

e, s'a Febo sì grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere più mi troverete.

Certe proprietati in me nascose
vi scovrirò d'infinita dolcezza,
che prosa o verso altrui mai non espose,

con questo, che mi diate la certezza
del vostro amor con altro che con lodi,
ch'esser da tai delusa io sono avezza:

più mi giovi con fatti, e men mi lodi,
e, dov'è in ciò la vostra cortesia
soverchia, si comparta in altri modi.

Vi par che buono il mio discorso sia,
o ch'io m'inganni pur per aventura,
non bene esperta de la dritta via?

Signor, l'esser beffato è cosa dura,
massime ne l'amor; e chi nol crede
ei stesso la ragion metta in figura.

Io son per caminar col vostro piede,
ed amerovvi indubitatamente,
sì com'al vostro merito richiede.

Se foco avrete in sen d'amor cocente,
io 'l sentirò, perch'accostata a voi
d'ardermi il cor egli sarà possente:

non si ponno schivar i colpi suoi,
e chi si sente amato da dovero
convien l'amante suo ridamar poi;

ma 'l dimostrar il bianco per lo nero
è un certo non so che, che spiace a tutti,
a quei, ch'anco han giudicio non intiero.

Dunque da voi mi sian mostrati i frutti
del portatomi amor, ché de le fronde
dal piacer sono i vani uomini indutti.

Ben per quanto or da me vi si risponde,
avara non vorrei che mi stimaste,
ché tal vizio nel sen non mi s'asconde;

ma piaceriami che di me pensaste
che ne l'amar le mie voglie cortesi
si studian d'esser caute, se non caste:

né così tosto d'alcun uom compresi
che fosse valoroso e che m'amasse,
che 'l cambio con usura ancor gli resi.

Ma chi per questo poi s'argomentasse
di volermi ingannar, beffa se stesso;
e tale il potria dir, chi 'l domandasse.

E però quel, che da voi cerco adesso,
non è che con argento over con oro
il vostro amor voi mi facciate espresso;

perché si disconvien troppo al decoro
di chi non sia più che venal, far patto
con uom gentil per trarne anco un tesoro.

Di mia profession non è tal atto;
ma ben fuor di parole, io 'l dico chiaro,
voglio veder il vostro amor in fatto.

Voi ben sapete quel che m'è più caro:
seguite in ciò com'io v'ho detto ancora,
ché mi sarete amante unico e raro.

De le virtuti il mio cor s'innamora,
e voi, che possedete di lor tanto,
ch'ogni più bel saver con voi dimora,

non mi negate l'opra vostra in tanto,
che con tal mezzo vi vegga bramoso
d'acquistar meco d'amador il vanto:

siate in ciò diligente e studioso,
e per gradirmi ne la mia richiesta
non sia 'l gentil vostro ozio unqua ozioso.

A voi poca fatica sarà questa,
perch'al vostro valor ciascuna impresa,
per difficil che sia, facil vi resta

E, se sì picciol carico vi pesa,
pensate ch'alto vola il ferro e 'l sasso,
che sia sospinto da la fiamma accesa:

quel che la sua natura inchina al basso,
più che con altro, col furor del foco
rivolge in su dal centro al cerchio il passo;

onde non ha 'l mio amor dentro a voi loco,
poi ch'ei non ha virtù di farvi fare
quel ch'anco senz'amor vi saria poco.

E poi da me volete farvi amare?
quasi credendo che, così d'un salto,
di voi mi debba a un tratto innamorare?

Per questo non mi glorio e non m'essalto;
ma, per contarvi il ver, volar senz'ale
vorreste, e in un momento andar troppo alto:

a la possa il desir abbiate eguale,
benché potreste agevolmente alzarvi
dov'altri con fatica ancor non sale.

Io bramo aver cagion vera d'amarvi,
e questa ne l'arbitrio vostro è posta,
sì che in ciò non potete lamentarvi.

Dal merto la mercé non fia discosta,
se mi darete quel che, benché vaglia
al mio giudicio assai, nulla a voi costa:

questo farà che voli e non pur saglia
il vostro premio meco a quell'altezza,
che la speranza col desire agguaglia.

E, qual ella si sia, la mia bellezza,
quella che di lodar non sète stanco,
spenderò poscia in vostra contentezza:

dolcemente congiunta al vostro fianco,
le delizie d'amor farò gustarvi,
quand'egli è ben appreso al lato manco;

e 'n ciò potrei tal diletto recarvi,
che chiamar vi potreste pur contento,
e d'avantaggio appresso innamorarvi.

Così dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto,
da cui amata e gradita mi sento,

che quel mio piacer vince ogni diletto,
sì che quel, che strettissimo parea,
nodo de l'altrui amor divien più stretto.

Febo, che serve a l'amorosa dea,
e in dolce guiderdon da lei ottiene
quel che via più, che l'esser dio, il bea,

a rivelar nel mio pensier ne viene
quei modi, che con lui Venere adopra,
mentre in soavi abbracciamenti il tiene;

ond'io instrutta a questi so dar opra
sì ben nel letto, che d'Apollo a l'arte
questa ne va d'assai spazio di sopra,

e 'l mio cantar e 'l mio scriver in carte
s'oblia da chi mi prova in quella guisa,
ch'a' suoi seguaci Venere comparte.

è'avete del mio amor l'alma conquisa,
procurate d'avermi in dolce modo,
via più che la mia penna non divisa.

Il valor vostro è quel tenace nodo
che me vi può tirar nel grembo, unita
via più ch'affisso in fermo legno chiodo:

farvi signor vi può de la mia vita,
che tanto amar mostrate, la virtute,
che 'n voi per gran miracolo s'addita.

Fate che sian da me di lei vedute
quell'opre ch'io desio, ché poi saranno
le mie dolcezze a pien da voi godute;

e le vostre da me si goderanno
per quello ch'un amor mutuo comporte,
dove i diletti senza noia s'hanno.

Aver cagion d'amarvi io bramo forte:
prendete quel partito che vi piace,
poi che in vostro voler tutta è la sorte.

Altro non voglio dir: restate in pace.

 
 
 

Il Dittamondo (1-24)

Post n°759 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXIV

Ben dèi pensar che molto gran letizia 
si fe’ tra’ miei per cagion de la pace, 
ché onor seguia e fuggiami tristizia. 
Ma, perché veggi ben com’è fallace 
e cieca ogni speranza in questo mondo, 5 
di seguire oltra mi diletta e piace. 
Dico in quel tempo morbido e giocondo 
sí vidi inebriare il mio bel fiume, 
che ’l piú de’ miei palagi trasse al fondo. 
Non fece il fuoco di Neron piú lume, 10 
che quel mi fe’ che s’accese in quell’anno, 
né arse piú de le mie belle piume. 
E fu sí grave l’uno e l’altro danno, 
che i Falisci e i Gallici s’ardiro 
d’assalirmi, con darmi molto affanno. 15 
E gli African, che le novelle udiro, 
rupper la pace e denno aiuto a’ Sardi, 
i quai si ribellaro al mio impiro. 
Tito e Gaio, attenti a’ miei riguardi, 
i Falisci sconfisson per tal modo, 20 
ch’assai ne sanguinaro lance e dardi. 
Valerio contro ai Galli acquistò lodo; 
si fe’ Torquato e Atilio Bivolco 
contro ai Sardi, che sempre m’usâr frodo. 
Tanto Marte mi fu benigno e dolco, 
che Lucio Flacco e Lucio Cornelio 
Liguri e Insubri cacciâr fuor del solco. 
Per le vittorie ch’ebbi in ciascun prelio, 
mandò Cartagine a far la disfatta 
pace che avea, non potendo far melio. 30 
Ma, certamente, non l’avria mai fatta 
se sol non fosse la grazia d’un Ano, 
che mai non nacque il par di tale schiatta. 
Allor fu chiuso il tempio di Giano, 
ch’era d’allora in qua stato aperto 35 
che Numa altrui l’avea lasciato in mano. 
In questo tempo ti dico, per certo, 
né gente in mar né cavalier per terra 
si combattean per alcun mio merto. 
Ma come piacque al Sommo, che non erra, 40 
questo cotal riposo durò poco, 
ch’io ritornai a la seconda guerra. 
Vero è che, prima ch’io ti conti il loco 
e i piú nomati d’essa, ti vo’ dire 
cose che funno vere e parran gioco. 45 
Io dico che si videro apparire 
nel ciel tre lune e, dentro a la mia riva, 
aprir la terra e l’uom vivo inghiottire. 
E dico, perché tu altrui lo scriva, 
che piovver pietre dove Ancona è ora 50 
e, in altra parte, carne come viva. 
E già da molti udio contare ancora 
che fu udito favellare un bue 
e - cave tibi, Roma, - disse allora. 
E poi non pur da uno, ma da piue, 55 
si disse che ’n Cicilia avea due scudi, 
de’ quali il sangue uscir veduto fue. 
Ora comprender puoi, se ben conchiudi, 
che minacce del Ciel son questi segni, 
che seguon come stati dolci o crudi. 60 
Ma tanto son bestiali i nostri ingegni, 
che a ciò poco si pensa, e, per tal fallo, 
giungon le pestilenze ai nostri regni. 
Non vo’ piú dare al mio dire intervallo: 
con lieta fronte Emilio trionfai, 65 
quando di me fece mentire il Gallo. 
E Regulo secondo tanto amai, 
quanto può madre amare alcun figliuolo 
e, lassa!, la sua morte piansi assai. 
Per me fu morto dentro al grande stuolo 70 
presso ad Arezzo e Livio testimona 
se degno fu ch’io ne portassi duolo. 
Levinio onorai de la corona 
e del mio carro, poi che fu tornato 
di ver Cicilia e sí di Macedona. 75 
Non vo’ tacer come Fulvio e Torquato 
gli Insubri del campo cacciâr via 
né che Flaminio fe’ da l’altro lato. 
Non vo’ tacere come in Lombardia 
Claudio uccise Viridomaro re 80 
e tolse di Melan la signoria. 
Non vo’ tacer que’ due consigli che 
Erennio a Ponzio die’, né quanto tristi 
da Caudio Spurio e i suoi tornaro a me. 
Certo io non so se mai parlare udisti 85 
di cosa scelerata quanto questa, 
de la qual voglio che per me t’avisti: 
che fun le mie matrone in tal tempesta, 
che cercaro d’uccider tutti i maschi, 
ch’eran nel grembo bel de la mia vesta. 90 
Or perché d’ogni cibo mio ti paschi, 
notar ti voglio i cittadini appunto 
che meco vidi al tempo che qui intaschi. 
Al censo, dove ’l nover fu congiunto, 
dugencinquanta milia si trovaro 
o pochi piú, se sí non funno a punto. 
E a ciò che il mio dir ti sia piú caro, 
l’etá ch’io era vissa è buon sapere, 
ché ’l parlare è piú bel, quant’è piú chiaro. 
Dico ched e’ potean passati avere 100 
cinquecento anni e venti, allor che fece 
Cartago meco pace al mio piacere. 
Di seguitare omai oltra mi lece 
e ragionar de la seconda briga, 
che, senza fal, de’ miei tanti disfece, 105
ch’ancora il pianto il viso mio ne riga.

 
 
 

La Bella Mano (041-050)

Post n°758 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XLI

Quella mentita forma, in cui m'apparse
La mia dolce nemica il giorno, ch'io
Per mirar ella me puosi in oblio,
Le rime a ben ritrarla oggi son scarse.

Ma, benché falsamente se uman farse
Parea ver me il sembiante altero et pio,
Qual meraviglia, se d'un bel disio
Di smisurato amore il mio core arse?

Valor, virtù, belleza, et leggiadria,
Orgoglio ascoso in un pietoso giro
Acerbamente al dolce m'han sospinto:

Poi del mio error vergogna all'alma invia
Altretanto dolor quanto è il martiro;
Et veggio et erro in questo laberinto.


XLII

Ben puoi la voglia altera, e il cuor feroce,
Perché di me pietà mai non ti pieghi,
Tener, dolce mia pena, et nei miei prieghi,
Chiuder le orecchie alla tremante voce.

Ben puoi con quella Man tenermi in croce,
Onde sì spesso il dì mi prendi et leghi,
Et quei begli occhi schifi, ove tu spieghi
El foco del disio, che ognor mi cuoce.

Ma non che viva viva tua sembianza
Nel cor non porti sempre e 'l dolce umile
Mirar vezzoso e 'l riso et le parole.

Hor se da te s'attende, alma gentile,
Mia pace mia salute et mia speranza,
Ben sei crudel se di me non ti duole.

XLIII

Di selva in selva, alla stagion più acerba,
Solo seguendo una selvagia fera,
Alfin la giunsi là, dove la sera
Pascer soleva tra i fioretti et l'erba:

Parea sua vista sì cruda e superba,
Et contro amor del mio languir sì altera
Ch'io abandonai l'impresa, lasso, ch'era
Condotta al fin che il bel piacer ne serba.

Questo sì forte al mio Signor dispiacque,
Che come spesso già per me l'assalse,
Et mosso da pietà pregar solea;

Così quasi sdegnando poi si tacque,
Né per mio scampo poscia mai più valse
Gridar mercede alla mia morte rea.

XLIV

L'alta beltà, che me dipinse Amore
In mezo il cuor con sì pungente stile,
Sì come per natura ella è gentile,
Così piatoso avesse il duro core.

Di tanta alteza et del mio gran dolore
Io farei fede in più leggiadro stile,
Perché mia vita ad opra più sottile
Insieme ordita avrei col gran valore.

Ma bench'io parli ognior d'ira et d'affanno,
Stato non è quanto che il mio felice,
Né in ciel ch'io creda già, né qui, né altrove.

Che l'eccellentie che abagliato m'hanno,
Essendo in terra lei sola Fenice,
Ippolito arder ponno non che Giove.

XLV

Le bionde trecce, il riso et le parole,
Et le maniere elette
Fur l'arco et le saette,
Che m'han passato il cor, come Amor vuole.
La bella man che per virtù d'amore
Rinfresca al petto mio l'antica piaga,
Ond'io languisco sempre, è fatta vaga
Della mia morte, et del mio gran dolore.
Sfidando di speranza il tristo core,
Ahi lasso me dolente,
Che l'affannata mente
Non fa che voglia, et meco pur si duole.

XLVI

È questa quella man, che già tanti anni
All'amoroso nodo mi distrinse?
È questo il laccio, dove Amor m'avinse
Per forza, per destino, et per inganni?

Questa è colei che sì soavi affanni
Mille fiate et più, mi risospinse;
Et viva Amor nel cor me la dipinse
Ai gesti, alle maniere, al viso, ai panni.

Benedette le lacrime leggiadre,
Che tante per te verso, et quella stella,
Che già mi fe' di te servo fedele:

Benedetto sia il seme et quella madre,
Che rivestì del suo cosa sì bella,
Ben che mi sia a gran torto sì crudele.

XLVII

Madonna, del mio petto il bel sembiante,
Ove a tuo nome già il dipinse Amore,
Fia spento, quando al cor l'usato ardore,
A gli occhi mancheran lacrime tante.

Scolpita viva viva in un diamante
Ti serbo d'ogni tempo in mezo 'l core:
Né ria fortuna avrà mai tal valore
Che notte et giorno non mi sii davante.

Et benché ti mostrassi ognor sì cruda,
La dolce fiamma del voler gentile
Non spense mai l'oscura tua sembianza;

Ma 'nanzi che questi occhi morte chiuda
Conoscerai nel mio debile stile
A quanto bene alzasti mia speranza.

XLVIII

Alta speranza dell'afflitta mente
Prima che a morte mi conduca Amore,
Trammi una volta di sì lungo ardore
Ove dì et notte avampa il cor dolente.

Natura, e il tuo costume non consente
In tanta crudeltà nutrire il core,
Aiuta il servo tuo, che amando more
Sì che li segni della morte sente.

Se il ciel cortese et sopra ogni altra bella
T'ha fatta, e il tuo destin d'ogni virtute
Ti colma sì che affonda la bilancia,

Et se consentimento è di mia stella
Che da te sola io speri mia salute,
Perché non mi soccorri, o mia speranza?

XLIX

Sia dunque benedetto il primo inganno,
Onde mi prese sì, che ancor mi tene
Amor ferito a morte, et l'alta spene,
Che volse la mia vita a tanto affanno:

Et le faville accese, che mi stanno
A mille a mille sparte in fra le vene:
Et l'ora, ch'io scopersi tanto bene
Per gli occhi, che dì et notte dir mi fanno.

Sia benedetto l'amoroso lampo,
Che mi percosse d'un soave ardore,
Il dì, che io vidi il bel sembiante umano.

Sia benedetto quando per mio scampo
Corsi fuggendo il caldo d'altro amore,
Alla dolce ombra della bella mano.

L

Qualunque per Amor giamai sospire,
Fermato di seguir cosa mortale,
In me si specchi, et pensi se al mio male
Si vide al mondo mai simil martire.

Per fedelmente amare et ben servire
Son posto in croce, et lamentar non vale;
Come tu vedi son tornato a tale,
Che mille morti Amor mi fa sentire.

Costei, di cui mi lagno, con sua mano
m'aperse il petto, et prese il freddo core
Che a lei mercede ancora, et morte chiama.

O tu, che leggi, pensa quanto istrano
Altrui debbe parer, quando pur more
Per quella mano istessa che tanto ama.

Giusto de' Conti
La Bella Mano
 
 
 

Il Dittamondo (1-23)

Post n°757 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXIII

Tal era giá in Africa Cartagine, 
che, per tema ciascun de la sua scopa, 
seguiva e onorava la sua imagine. 
E io di qua, ne le parti d’Europa, 
mi vedea tanto grande e tanto cara, 5 
qual donna a cui ogn’altra poi s’indopa. 
Or come sai che le piú volte è gara 
dove poder con gran poder confina, 
mosse guerra fra noi aspra e amara: 
ch’ella volea dominar la marina, 10 
guardar Cicilia, Corsica e Sardigna 
e ogni piaggia che m’era vicina. 
Per ch’io pensai: se costei s’alligna 
sí presso a me, il suo poder fia tale, 
che poco pregiar posso ulivi o vigna. 15 
Onde, per non voler vergogna e male, 
e sí per acquistar onore e pregio, 
la briga impresi, che fu sí mortale. 
Appio Claudio di gran valore fregio: 
tal me ’l trovai contro Annibale il vecchio 20 
e contro a Iero, che m’avea in dispregio. 
Ma poco apresso fe’ grande apparecchio 
questo Annibal e venne a le mie prode 
col ferro in man, col fuoco e col capecchio. 
Cornelio Asina uccise con sue frode; 
e, benché ’l soprannome non sia vago, 
non vo’, però, che ’l tegni di men lode. 
Oh quanto, rimembrando, ancor m’appago 
come con buon volere e gran fatica 
Duilio il sperse per lo marin lago! 30 
E quanto cara m’è, bench’io nol dica, 
de la sua sposa Iulia la risposta, 
che fe’ vèr lui, tanto onesta e pudica! 
E quanto ancor mi piace e mi s’accosta 
Lucio Scipio, quand’io penso ch’Annone 35 
uccise e cacciò i suoi di costa in costa! 
Da gente serva e vil, senza ragione 
una giura fu fatta per rubarmi; 
ma cadde il danno su le lor persone. 
Da notar degno Calpurnio qui parmi, 40 
ch’accorto fu in subito consilio, 
franco, sicuro e valoroso in armi. 
In questo tempo feci il gran navilio: 
Regulo e Manlio funno gli ammiragli 
fra gli altri eletti nel mio gran Concilio. 45 
Non dirò tutto, perché men t’abbagli 
il mio parlar; ma d’Amilcar costoro 
preson vittoria, dopo piú travagli. 
Con molti presi e con ricco tesoro 
Manlio a me tornò e Regul poi 50 
in Africa co’ suoi fece dimoro. 
Costui fu tal, che certo al dí d’ancoi 
il par non troveresti per virtute: 
dico nel mondo, non che qui fra noi. 
Sessanta e tre cittá con piú tenute 55 
prese ed uccise il gran serpente e rio, 
del qual poi vidi il cuoio pien di ferute. 
Qui pensa se fu degno che morio 
di crudel morte; e ciò sostener volse 
per mantener sua fé e l’onor mio. 
Per la vendetta, il mio senato sciolse 
Emilio e Fulvio, che la fecion tale, 
ch’Africa poi piú tempo se ne dolse. 
Allegri e carchi, senza niun male 
reddiano a me, allor che le bianche onde 65 
ruppe ’l navilio con vento mortale. 
Or qui ben puoi veder che non risponde 
ognor la fine come va il principio, 
come ogni albor non frutta che fa fronde. 
Sempronio ancora e Servilio Cipio 70 
tornavan di Cicilia ricchi e carchi, 
quando a Eolo spiacque ciò concipio. 
Per questi dubitosi marin varchi, 
ordinai io al piú per mar tenere 
sessanta legni, a guardar le mie marchi. 75 
Ma quella lupa, che non puote avere 
tanto, che giá mai sazi l’appetito, 
l’ordine ruppe a seguir tal volere. 
E perché forse ancor non hai udito 
del vecchio Annibal quello che ne avenne, 80 
sappi ch’el fu da' suoi morto e tradito. 
E Asdrubal tanto male si contenne 
contro a Metello Lucio, che, del campo 
fuggendo, ancor da’ suoi morir convenne. 
Ne la Spagna Amilcar l’ultimo inciampo 85 
de la vita sostenne e sí sconfitta 
fu sua gente, che poca ne fe’ scampo. 
Ahi, lassa!, come io fui allor trafitta 
ch’Atilio e Manlio rivolson la poppa 
contro a’ nemici, u’ la proda era ritta! 90 
E lassa!, ché sí il cuore ancor mi scoppa, 
quando ricordo il gran distruggimento 
di Claudio, che al dir la lingua aggroppa. 
Cosí allora allegrezza e tormento 
cambiavan me, come fa gente in mare, 95 
che ride e piange secondo c’ha il vento: 
ché, quando piú fioria per sormontare, 
di subito giungea nova tempesta, 
che ’l passo a dietro mi facea tornare. 
Ma tanta grazia al mio Lutazio presta 100 
il cielo allor, che ristorò le perde 
sopra Cartagine e con lieta festa 
la pace fe’, che poco stette verde.

 
 
 

Rime inedite del 500 (III)

Post n°756 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

III

[1 Di Luigi Alamanni]

Per farsi una ghirlanda la mia Clori
Giva cogliendo vari e vaghi fiori,
Tra' quali Amor nascosto
Con essi insieme fu legato e posto.
Prima alquanto dibatte l'ali e scuote
Per livrarsi da quel nodo, se puote;
Indi mirando fiso
La bella guancia e 'l delicato viso,
Le par che questo che l'ha fatto preda
Sia sola degna a cui sua madre ceda,
E che li dei del cielo
Possa arder tutti d'amoroso zelo.
Poscia toccando i vaghi suoi capelli
Che fanno l'oro e 'l sol parer men belli,
E spiran tale odore
Qual non mandò giammai l'Arabia fuore;
Volto alla madre dice: hor ti provede
D'altro amor, d'altro figlio e d'altro erede,
Ch'io costei vo' che sia
Hora il mio regno, hora la sede mia.

[2 Di Luigi Alamanni]

Quando Zephiro dolce a noi ritorna
E i campi e i prati di fioretti adorna,
Ogn'arbor si rinnova
E cantan lieti gl'augelletti a prova.
Da me l'orrido verno si diparte,
E torna primavera in ogni parte
Allor che Clori mia
Perch'io la veggia a me lieta s'invia.

[3 Di Luigi Alamanni]

Clori mia dolce più che 'l mele assai,
Mira i don' ch'io ti porto onesti e gai,
La rete e le calzette,
Il centolo, il frontale e le scarpette.
Questi come li vidde Filli avara:
Se li vuoi dare a me, vita mia cara,
Mi disse, io ti prometto
Tu sarai 'l mio bene è 'l mio diletto.
Ma io ti dico il vero, o Clori, e giuro
(Altrimenti mi sia 'l ciel empio e duro)
Che tu sola 'l mio amore
Sarai mai sempre, e la mia vita e 'l core.

[4 Di Luigi Alamanni]

Fuggemi Clori leggiadretta e snella
Qual pargoletto daino, o capriolo
Per questa selva e quella
Timido e tutto solo.
Va cercando la madre ove s'asconde
Che l'ha cacciata altra fiera più cruda,
E ad ogni sterpo e fronde
Che tocca trema e suda.
Ma non io già qual tigre, o qual leone
Seguo te per sbranarti; ah! ferma il piede,
Questo timor depone
E sol ch'io t'ami crede.

[5 Di Luigi Alamanni]

Ombrose valli, e voi fresch'erbe e frondi
E tu rivo ch'inondi,
Se mai grati vi fur' gl'ascosi amori
Di ninfe e di pastori,
Benigni hor vi mostrate e nascondete
Sotto vostr'ombre liete
Clori e Damon, che qui soli soletti
Stanno abbracciati e stretti.

[6 Di Luigi Alamanni]

S'io non ti bacio almeno
Una volta, mi sento venir meno,
E s'io ti bacio, o Clori,
Temo del sdegno tuo l'aspri furori,
Quinci la morte temo
E tutto di paura aghiaccio e tremo.
Donque non so che farmi,
Baciti, o no, ma ben sento mancarmi.

[7 Di Luigi Alamanni]

Sopra l'Hebro indurato al fanciul Thrace
Scherzando sotto i piedi il giel si sface,
Cade fra l'onde rapide, e la testa
Risecata dal ghiaccio in alto resta
La qual la madre ardendo di me nacque,
Questo, disse, alle fiamme, il resto all'acque.

[8 Di Luigi Alamanni]

Non si doglia Atteon, ché trasformato
In cervo da' suoi can sia devorato,
S'a chi sol cangia i giorni suoi felici
Fanno i servi il medesimo e gli amici.

[9 Di Luigi Alamanni]

Speme e fortuna addio, ch'in porto entrai
Schernite hor gli altri, ch'io mi spregio homai.

[10 Di Luigi Alamanni]

Mostra 'l suo mal dicendo un animale
Che così picciol sia fa piaga tale;
Ella ridendo: e tu che picciol sei
Che piaghe fai tra gl'homini e li dei?

[11 Di Luigi Alamanni]

Invidia ha questo ben che 'l peccatore
Purga col suo peccato dentro e fuore.

[12 Di Luigi Alamanni]

Se da l'alto splendor del chiaro padre
Fra l'umane miserie crude e ladre
A noi salvar l'immortal figlio viene
Per ritornarsen poi con mille pene,
Hor che deggiam per lui? Che d'esso inferno
Fatti siam cittadin del ragno eterno.

[13 Di Luigi Alamanni]

Molti furo a quistion chi avanti vada,
O piuma ornata, o valorosa spada.
Se questa mette in opra e quella insegna,
L'una e l'altra di par chiamarei degna.

[14 Di Luigi Alamanni]

Valoroso pensier, che cingi spada
Segui pur dell'onor la dritta strada;
Non temer di morir, né speme d'oro
Torca un fil sol dal martïal lavoro.

[15 Di Luigi Alamanni]

Mia madre di me gravida a gli Dei
Domandò 'l parto ch'uscirà di lei.
Donna, Marte, Phebo, huom, nessun de' dui,
Giunon dicendo, ermafrodito fui.
Cerca il mio fin, Phebo nell'onde il pone,
In croce Marte, e nel ferro Giunone.
D'un arbor ch'acqua adombra caggio offeso
Dalla mia spada e d'un pie' resto impeso.
Con la fronte nel fiume; onde a me nuoce
Maschio, femina, neutro, acqua, arme e croce.

[16 Di Luigi Alamanni]

All'uom sincero e d'ogni macchia puro
Non fa mestier d'arco e saette al lato,
Né d'elmo fatto in buona tempra e duro,
Né di scudo incantato.
Faccia vïaggio o per campagne e boschi,
O per alpestri monti e ombrose valli,
O per luoghi solinghi, oscuri e foschi,
O per aperti calli.
Ecco che solo e disarmato intorno
A questa selva, e lungo questo rivo
Clori cantando vo la notte e 'l giorno
D'ogn'altro pensier schivo;
Né malvagio apparir per farm' oltraggio
Veggio dovunque gli occhi in giro meno,
Così seguo securo il mio vïaggio,
Lieto e contento a pieno.
Pommi ove 'l sole occide l'erbe e fiori,
O dove 'l giel mai sempre e 'l vento stride,
Amerò sempre la mia dolce Clori,
Dolce se parla o ride.

[17 Di Luigi Alamanni]

Per ch'io mi sfacci e mi consumi, o Clori,
Non convien che tu in questo o in quel loco
Cerchi pietre, erbe e fiori
Per porle a Pluto in sacrificio al foco.
Gl'occhi rivolgi a me misero soli,
Gl'occhi tuoi disdegnosa e d'ira acerba
Questi quel che tu vuoli
Faranno in me vie più ch'incanto et erba.
Per farti una ghirlanda, la mia Clori,
Vado cogliendo in questo prato i fiori.
Deh t'abbracciasse io come
Questi ti cingeran le belle chiome!

[18 Di Luigi Alamanni]

Ecco la notte parte e 'l giorno appare
E incomincian gl'augei vaghi a cantare,
Rizzati, Clori mia,
E a pascolar le pecorelle invia.
Tra 'l monte Jano e tra 'l Marrocco siede
Una valle che 'l sol poco la vede,
Ivi su 'l mezzo giorno
Sarò io con le greggi mie d'intorno.
Presso al ruscel, che d'acqua pura e fresca
D'un saldo e vivo sasso par che esca,
Quivi solo soletto
Te sola con Amor solo t'aspetto.

[19 Di Luigi Alamanni]

Vendi, Rosa, la rosa, o pur te stessa,
Che 'l nome tenghi e la sembianza d'essa?

[20 Di Luigi Alamanni]

Fa d'esser ricco e d'aver più che puoi,
Ch'onor, gloria e virtù ti seguon poi.

[21 Di Luigi Alamanni]

È de la piuma l'aura assai men greve;
Ma d'ogni cosa è più la donna lieve.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Teresina

Post n°755 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Teresina

Cià li capelli fini fini, pare
Che quarche ragno je l'abbia filati:
L'occhioni aiilucenti, ammannolati,
Belli, turchini come l'ortremare.

La boccuccia è 'na rosa; du' filare
De denti che chi sa chi je l' ha dati...
Un palommaro l'averà pescati
Insieme all'antre perle in fonno ar mare.

E' bella e bona, e già li cicisbei
In der véde' st'ottavia meravija,
Resteno come mummie da mosei.

Oh! beato quell'omo ch'a 'sta fija
Je darà er primo bacio, e che co' lei
Potrà.., paga' la tassa de famija.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Le lire svizzere

Post n°754 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Le lire svizzere
 
Quanno ch'agnédi giù dar caffettiere
Pe' pijà' er latte, messi sur bancone
Du' lire de la Svizzera; er padrone
Le guardò bene e disse: - Fa' er piacere!

Le svizzere a sedere nun so' bone...
Dico: - So' bene in tutte le magnere!
Che? la bontà dipenne dar sedere?...
Dice: Nun vanno, e c'è la su'raggione:

Ne la moneta quando che se vede
la donna a sède' come qui, nun vale;
invece corre quando che sta in piede.

Dico: - Pe' mé me pare tutt'eguale:
Presempio voi si state in piede o a sède'
Siet sempre un cazzaccio tale e quale!

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (1-22)

Post n°753 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXII

Tu puoi comprender ben sí come vegno 
digradando il mio tempo a passo a passo, 
confiorendo de’ miei alcun piú degno. 
Era lo stato, ch’avea allor, sí basso, 
ch’oltra i due mari e ’l giogo d’Apennino 5 
poco il mio nome facea ancor trapasso, 
perché l’invidia di ciascun vicino 
e Sanniti e Latin davano ingombro 
al bene, in ch’io sperava per distino. 
Papir Cursor del suo corpo t’aombro 
forte, leggieri e d’animo sí magno, 
che de’ nemici fe’ piú volte sgombro. 
La gran discordia a dirti qui rimagno 
ch’ebbe con Fabio e de’ Sanniti nota 
l’arme, di che giá fece il bel guadagno. 15 
Cosí montava allor su per la rota, 
come si va sul pin di rama in rama: 
bontá de la famiglia mia divota. 
Chi è or colui che ’l suo Comun tanto ama, 
che negasse d’averne signoria 20 
per viver puro e torne altrui la brama, 
come piú volte fe’ d’aver bailia 
Massimo Fabio del mio? E di tal servo 
giusto è che sempre la memoria sia. 
Costui piú volte mise ossa e nervo 25 
per me ed isconfisse il Tosco e il Gallo, 
dopo l’augurio del lupo e del cervo. 
Costui riscosse la vergogna e il fallo 
del suo figliuolo con tanta vittoria, 
ch’io lo rimisi nel suo primo stallo. 30 
E perché noti ben la sua memoria 
Ponzio prese e puose a’ colpi fine 
de’ Sanniti: che fu sí lunga storia. 
In questo tempo le cittá vicine 
quale omaggio mi fe’, qual fu conquisa: 35 
per ch’io piú allargai le mie confine. 
Ma perch’ella non va com’uom divisa, 
quando montar credea di bene in meglio, 
fu con Cecilio la mia gente uccisa. 
Ora, figliuolo, a ragionar mi sveglio 40 
le gran battaglie e come la fortuna 
doler mi fe’ in questo tempo veglio. 
Dico che non per fallo o colpa alcuna 
de’ miei con Taranto incominciai guerra, 
per la qual molte si vestîr di bruna. 45 
Emilio con il fuoco e con le ferra, 
per vendicar lo ricevuto oltraggio, 
corse, in quel tempo, tutta la lor terra. 
Pirro d’Epirro, isceso del lignaggio 
del magnanimo Greco, in loro aiuto 50 
venire vidi e farmi gran dannaggio. 
E credo ben che non avria perduto 
Levino contro a lui, di sopra Liro, 
se avesse a’ leofanti proveduto. 
Non molto poi i miei si partiro, 55 
per vendicare il danno, dal mio ospizio, 
benché pur sopra lor giunse il martiro. 
Qui si convien la luce di Fabrizio, 
che ’l tenne a fren, mostrar ne le parole, 60 
pien di vertú e mondo d’ogni vizio. 
Costui fu tal, che ’n prima avresti il sole 
tratto del suo cammin, che lui avessi 
volto a far quello che onestá non vole. 
Oh, quanto il loderesti, se sapessi 65 
ciò ch’a Pirro rispuose e poi sí come 
mandò il medico preso per suoi messi! 
Veder bramava, per lo molto nome, 
il leofante e ’l gran dificio ch’ello 
portava a dosso, in cambio d’altre some; 70 
quando fu Curio primamente quello 
che, poi ch’egli ebbe Pirro in fuga messo, 
me ’l presentò armato d’un castello. 
Tremò la terra sotto i piedi, apresso, 
de’ Piceni e de’ miei, fatte le schiere, 75 
per che ciascuno spaurio adesso. 
Ma qui è bel d’udire e di sapere 
quel tempo ch’io avea in fino al dí 
che Taranto ai miei fe’ dispiacere. 
Venti sei anni a rilevare un D 
mancavano e tu cosí li nota, 
se con altri di tal materia di’. 
Orribil fiamme e diverse tremota 
si videro e sentîr, per che temenza 
n’ebbe grande di qua la gente tota. 85 
Credo per segno di crudel sentenza 
si vider correr sangue le fontane 
e lupi squartar l’uomo in mia presenza. 
Ora ti vengo a dir le cose strane 
che funno in mare, in terra, e le sconfitte 90 
galliche ed ispagnuole e africane, 
ben che ’n molti volumi siano scritte. 

 
 
 

L'assassino pratico

Post n°752 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

L'assassino pratico 

I

E'cchime qua, so' io sor delegato. 
Lei già  saprà  der fatto ch'è successo... 
Mò' che serve a negà'?.,. tanto è l'istesso; 
So' stato propio io che l' ho ammazzato, 

Viengo a costituimme da me stesso 
Percui tni scuserà si ho un po' tardato: 
Ho avuto da parlà' co' l'avvocato 
Pe' famme la difesa ner processo. 

Ho scritto la mi' lettera ar giornale, 
Mò' sto tranquillo,,.. eppoi legga l'articolo 
Quarantasei der codice penale... 

Vede? che dice? embè? nun ho raggione?... 
Abbasta, mò' che nun c'è più pericolo 
Si vuole sono a sua disposizzione. 

II

Quale E' stato er movente der delitto?.., 
Come sarebbe a di' quale movente? 
Io, pe' me tanto, nun movevo gnente 
Si quer bojaccia fusse stato zitto. 

Domani in de la lettera ch'ho scritto 
Je spiego l'omicidio chiaramente, 
E lei ch' è 'na persona inteliggente 
Dirà si stavo o no ner mi' diritto. 

Io l'ho corti in fregante: io l'ho saputo 
Che queli boja staveno d'accordo... 
Poi quela sera avevo un po' bevuto... 

Quaesto me gioverà?.,, me l'assicura?...
Ma allora, aspetti: mò' che m'aricordo 
Ero imbriaco fracico addrittura.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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