Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Messaggi del 08/12/2014
Post n°763 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Nun te pôi scordà |
Post n°762 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXV Non s’insuperbi alcun, per aver possa, ché qual si fida in questi ben terreni va dietro al cieco e cade ne la fossa. Non creda alcun che questi mortal beni si possano acquistare e poi tenere 5 senza gustar sapor di piú veleni. Forse anni sei potea compiuti avere, quando tornai a la seconda guerra, la qual piú ch’altra assai mi fe’ dolere: ché certamente mai sopra la terra 10 briga non fu, per la qual tante toniche fosson ricise per colpi di ferra. E sian tenute tutte l’altre croniche per ricche spese, a rispetto di questa: io dico ben troiane e macedoniche. 15 E come Livio ancor ti manifesta, li figliuoi d’Amilcar funno cagione per la qual venni a sí mortal tempesta. E qual parrebbe a vedere un leone uscir del bosco, quando ha gran disio 20 di far sopra altra bestia offensione, cotanto bramo e fiero si partio d’Africa Annibale e passò il mare e sui liti di Spagna pria ferio. Lá provai io di volerlo arrestare 25 con preghi, con minacce e con difese: ma fu niente che ’l potesse fare. Sagunto prese e vinse quel paese; e, per lo molto acquisto e per la fama, d’avermi a sé maggior disio li prese, 30 come a l’uom vien che, prendendo una rama de l’albore, che con piú voglia bada giungere a quella ov’è ’l frutto che brama. E si mosse col fuoco e con la spada, fiumi e selve passando, in fin che venne 35 lá, dove coi piccon fe’ far la strada. Né Scipio Cornelio allora il tenne né ’l passo del Tesin, né quel del Taro, né Sempronio, ché sol fuggir convenne. Né la freddura poté far riparo 40 con la gran neve al giogo d’Apennino, benché ’l passar assai li costò caro; né fu tal la ventura né ’l distino di Flaminio mio e de’ compagni che potesson por fine al suo cammino. 45 Or sarai crudo, se gli occhi non bagni udendo ’l gran martir, ch’a dir ti vegno, e se qui meco il mio dolor non piagni. Ahi, Canosa, quanto ancora mi sdegno di nomar te, quando fra me rimiro 50 che fonte fosti al sangue mio piú degno! Orosio ben descrive il gran martiro ch’ el fe’ de’ miei, per gli anelli tratti de’ diti a quelli che quivi moriro. Tanti ne funno allora morti e catti, 55 che, se seguito avesse la fortuna, posto avea fine a tutti i miei gran fatti. Oh quanto è senno, quando cosa alcuna buona innanzi t’appar, prenderla tosto, ché poi, passata, è un guardar la luna! Apresso tutto quel ch’io t’ho proposto piú dí passati, col suo gran podere si mosse e venne al mio dolor disposto. E cosí me, ch’avea potuto avere, cercando andava (ma ciò fu niente) 65 che mi potesse al suo disio tenere; benché, secondo ch’io mi tegno a mente, la pioggia allor li tolse la vittoria, onde ai suoi dei si dolse amaramente. Ormai ti vo’ contar de la mia gloria 70 e ragionar di Scipio, la cui luce lume fu sempre a tutta la mia storia. Ché, come alcuna volta il ciel produce e la natura un uom, ch’al mondo è tale che miracolo par ciò che conduce, 75 costui produsse. E però che fa male qual pone il ben ricevuto in oblio, qui vo’ tenere un poco ferme l’ale. Dico che questo caro figliuol mio tanto felice e grazioso fue, 80 che la gente il tenea quasi uno dio. E non credo facesse a Troia piue Ettor, che fe’ costui per iscamparmi: sí valorose fun l’opere sue. Prudente, giusto, accorto, franco in armi, 85 e temperato e forte in suoi costumi, largo e casto lo trovi in molti carmi. Qui pensa se è ragion ch’io mi consumi: ch’avendomi difesa a ogni mano, per molta invidia accusato fumi; 90 onde il mio senno fu sí poco e vano, ch’io gli chiesi ragione: e sol trovai non piú portarne che ’l nome Africano. Se ingrata fui, ben l’ho, poi, pianto assai. |
Post n°761 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime di Veronica Franco e brevi note biografiche Le Terze rime di Veronica Franco ebbero una sola edizione nel Cinquecento (Venezia, senza indicazione tipografica, 1575). Una ristampa di esse (con una scelta di sonetti), per quanto scorretta, si ebbe solo nel 1912, curata da Gilberto Beccali e stampata a Lanciano dal Carabba. Di gran lunga migliore l'edizione del Salza (G. Stampa, V. Franco, Rime, 1912), che ha anche il pregio di radunare tutti i sonetti della Franco, che ci son pervenuti, e che erano fino allora sparsi in varie raccolte a stampa, fra cui ricorderemo le Rime di diversi eccellentissimi authori sulla morte dell'illustre signor Estor Marlinengo, conte di Malpaga ..., raccolte dalla signora Veronica Franco, s.n.t., 1575. Indice sonetti e Terze Rime I 16 sonetti di Veronica Franco Terze Rime 1-2 Brevi note biografiche di Veronica Franco. Gli storici della letteratura italiana non sono stati troppo teneri con la Franco (1546-1591), famosa cortigiana di fine '500, definita sin nel titolo di alcuni volumi come "meretrice" e "prostituta", senza mezzi termini. Il noto ritratto di Veronica Franco (vedi mio post su questo blog) è di Jacopo Tintoretto (si presume eseguito nel 1575, custodito presso il Worcester Art Museum, Worcester, Mass). Breve saggio su Veronica Franco Verso la fine del secolo, quando all'imitazione petrarchesca si sostituì una poesia che cercava di aprirsi, pur tra tante sovrastrutture di maniera, ad aspetti più realistici, troviamo la cortigiana veneziana Veronica Franco (1546-1591), donna di grande intelligenza e buona cultura. Ella intrattenne numerose relazioni con nobili e letterati del suo tempo. Di lei rimangono, oltre a un gruppo di sonetti, le Terze rime e le Lettere familiari a diversi. Certe proprietadi in me nascose Così dolce e gustevole divento, che quel mio piacer vince ogni diletto, Le terzine sotto riportate sono sempre tratte dalle Terze Rime e parlano del sentimento di quieta amicizia per l'uomo un tempo amato che torna dopo molti anni : Del mio passato amor dalla potenza da queste accesa, le mie voglie caste In amicizia il folle amor trasformo, e, se 'n ciò i miei pensier vi fosser noti, Riduzione da: "Le Donne nella Storia Letteraria Italiana" di Gioia Guarducci, tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze. |
Post n°760 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco I Del magnifico messer Marco Veniero alla signora Veronica Franca [Loda la bellezza e l'ingegno di Veronica e la prega di essergli benigna e amorosa.] S'io v'amo al par de la mia propria vita, E, se invano mercé chieggio e pietate, So che remunerar non si conviene più d'ogni morte è la mia doglia amara; Ma com'esser può mai che, dentro al lato Com'esser può che quel leggiadro aspetto La gran bellezza a voi data di sopra Ciò da l'uman desir vostro si toglia, Così dentro e di fuor chiara e splendente Pria che de' be' crin l'òr si faccia argento, e, se ben sète d'età fresca e verde, e, mentre di qua giù nessun ben posa, Ma poi, chi la pietà chiude nel seno, Dunque, per farvi al mondo eterna e diva, Oh, se vedeste in me l'ardente brama, e mi vedeste in mezzo 'l petto il core, Ma guardatemi 'l cor fuor nel sembiante e, conoscendo il mio soverchio duolo, volgete a me pietosamente gli occhi, stendete a me la bella e bianca mano O beltà d'ogni essempio altro divisa Amor da que' begli occhi in me saetta Ben questi al chiaro sole invidia fanno, di queste vago Apollo arde e sospira, e, mentre questo in gran copia v'infonde, La penna e 'l foglio in man prendete intanto, O bella man, che con bell'arte esprime De l'antico valor segnando l'orme né pur rinova il glorioso stile ma de le menti afflitte alto soccorso Di viva neve man candida e pura, e voi, celesti e graziosi lumi, perch'a me 'l vostro aviso contendete? Né però chieggio che disciolga i nodi, non chiedo ch'entro al sen saldi la piaga da quelle mani e da le braccia stesse bramo che quella vista umana e pia Oh che grato e felice paradiso, donna di vera ed unica beltade, Oh che dolce mirar le membra ignude, Prenderei con le mani il forbito oro Quando giacete ne le piume stesa, Venere in letto ai vezzi vi ravvisa, sì come nel compor de le dotte opre, E così 'l vanto avete tra le belle e, mentre l'uno e l'altro in voi s'apprezza, Ma, se 'n voi la scienzia è d'alto frutto, Accompagnate l'opra in ogni canto; in tanto amor tanto dolor vi mova, S'al tempo fa sì gloriosi inganni A Febo è degno che si sodisfaccia le tante da lei grazie a voi donate con queste eternerete il vostro nome, Per la bocca di lei questo v'affermo: ché Febo se le inchina ad obedire, Così devete far ancora voi, La bellezza adornate col cor pio; queste in voi la pietà faccia compagne, E son quell'io, che umìle a voi ne vegno, mercé da voi, per Dio, non mi si nieghi, Così sarete senza par in terra. II Risposta della signora Veronica Franca [Essa lo riama, e vuole ch'egli compia, per amor di lei, opere ed azioni conformi alla virtù dell'animo: solo allora gli concederà le gioie apprese da Venere.] se quel, che tien la mente in sé raccolto, quella tèma da me fôra divisa, «a un luogo stesso per molte vie vassi», Dal battuto camin non sia disgiunto Non è dritto il sentier de la speranza, quello de la certezza è destro calle, a questo gli occhi del mio pensier ergo, Questa con voi sia legitima scusa, E, se invero m'amate, assai mi duole mi duol che da l'un canto voi patiate, Poi ch'io non crederò d'esser amata, dagli effetti, signor, fate stimarvi: ma, s'avete di favole desio, e, di favole stanco e sazio, quando Aperto il cor vi mostrerò nel petto, e, s'a Febo sì grata mi tenete Certe proprietati in me nascose con questo, che mi diate la certezza più mi giovi con fatti, e men mi lodi, Vi par che buono il mio discorso sia, Signor, l'esser beffato è cosa dura, Io son per caminar col vostro piede, Se foco avrete in sen d'amor cocente, non si ponno schivar i colpi suoi, ma 'l dimostrar il bianco per lo nero Dunque da voi mi sian mostrati i frutti Ben per quanto or da me vi si risponde, ma piaceriami che di me pensaste né così tosto d'alcun uom compresi Ma chi per questo poi s'argomentasse E però quel, che da voi cerco adesso, perché si disconvien troppo al decoro Di mia profession non è tal atto; Voi ben sapete quel che m'è più caro: De le virtuti il mio cor s'innamora, non mi negate l'opra vostra in tanto, siate in ciò diligente e studioso, A voi poca fatica sarà questa, E, se sì picciol carico vi pesa, quel che la sua natura inchina al basso, onde non ha 'l mio amor dentro a voi loco, E poi da me volete farvi amare? Per questo non mi glorio e non m'essalto; a la possa il desir abbiate eguale, Io bramo aver cagion vera d'amarvi, Dal merto la mercé non fia discosta, questo farà che voli e non pur saglia E, qual ella si sia, la mia bellezza, dolcemente congiunta al vostro fianco, e 'n ciò potrei tal diletto recarvi, Così dolce e gustevole divento, che quel mio piacer vince ogni diletto, Febo, che serve a l'amorosa dea, a rivelar nel mio pensier ne viene ond'io instrutta a questi so dar opra e 'l mio cantar e 'l mio scriver in carte è'avete del mio amor l'alma conquisa, Il valor vostro è quel tenace nodo farvi signor vi può de la mia vita, Fate che sian da me di lei vedute e le vostre da me si goderanno Aver cagion d'amarvi io bramo forte: Altro non voglio dir: restate in pace. |
Post n°759 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXIV Ben dèi pensar che molto gran letizia si fe’ tra’ miei per cagion de la pace, ché onor seguia e fuggiami tristizia. Ma, perché veggi ben com’è fallace e cieca ogni speranza in questo mondo, 5 di seguire oltra mi diletta e piace. Dico in quel tempo morbido e giocondo sí vidi inebriare il mio bel fiume, che ’l piú de’ miei palagi trasse al fondo. Non fece il fuoco di Neron piú lume, 10 che quel mi fe’ che s’accese in quell’anno, né arse piú de le mie belle piume. E fu sí grave l’uno e l’altro danno, che i Falisci e i Gallici s’ardiro d’assalirmi, con darmi molto affanno. 15 E gli African, che le novelle udiro, rupper la pace e denno aiuto a’ Sardi, i quai si ribellaro al mio impiro. Tito e Gaio, attenti a’ miei riguardi, i Falisci sconfisson per tal modo, 20 ch’assai ne sanguinaro lance e dardi. Valerio contro ai Galli acquistò lodo; si fe’ Torquato e Atilio Bivolco contro ai Sardi, che sempre m’usâr frodo. Tanto Marte mi fu benigno e dolco, che Lucio Flacco e Lucio Cornelio Liguri e Insubri cacciâr fuor del solco. Per le vittorie ch’ebbi in ciascun prelio, mandò Cartagine a far la disfatta pace che avea, non potendo far melio. 30 Ma, certamente, non l’avria mai fatta se sol non fosse la grazia d’un Ano, che mai non nacque il par di tale schiatta. Allor fu chiuso il tempio di Giano, ch’era d’allora in qua stato aperto 35 che Numa altrui l’avea lasciato in mano. In questo tempo ti dico, per certo, né gente in mar né cavalier per terra si combattean per alcun mio merto. Ma come piacque al Sommo, che non erra, 40 questo cotal riposo durò poco, ch’io ritornai a la seconda guerra. Vero è che, prima ch’io ti conti il loco e i piú nomati d’essa, ti vo’ dire cose che funno vere e parran gioco. 45 Io dico che si videro apparire nel ciel tre lune e, dentro a la mia riva, aprir la terra e l’uom vivo inghiottire. E dico, perché tu altrui lo scriva, che piovver pietre dove Ancona è ora 50 e, in altra parte, carne come viva. E già da molti udio contare ancora che fu udito favellare un bue e - cave tibi, Roma, - disse allora. E poi non pur da uno, ma da piue, 55 si disse che ’n Cicilia avea due scudi, de’ quali il sangue uscir veduto fue. Ora comprender puoi, se ben conchiudi, che minacce del Ciel son questi segni, che seguon come stati dolci o crudi. 60 Ma tanto son bestiali i nostri ingegni, che a ciò poco si pensa, e, per tal fallo, giungon le pestilenze ai nostri regni. Non vo’ piú dare al mio dire intervallo: con lieta fronte Emilio trionfai, 65 quando di me fece mentire il Gallo. E Regulo secondo tanto amai, quanto può madre amare alcun figliuolo e, lassa!, la sua morte piansi assai. Per me fu morto dentro al grande stuolo 70 presso ad Arezzo e Livio testimona se degno fu ch’io ne portassi duolo. Levinio onorai de la corona e del mio carro, poi che fu tornato di ver Cicilia e sí di Macedona. 75 Non vo’ tacer come Fulvio e Torquato gli Insubri del campo cacciâr via né che Flaminio fe’ da l’altro lato. Non vo’ tacere come in Lombardia Claudio uccise Viridomaro re 80 e tolse di Melan la signoria. Non vo’ tacer que’ due consigli che Erennio a Ponzio die’, né quanto tristi da Caudio Spurio e i suoi tornaro a me. Certo io non so se mai parlare udisti 85 di cosa scelerata quanto questa, de la qual voglio che per me t’avisti: che fun le mie matrone in tal tempesta, che cercaro d’uccider tutti i maschi, ch’eran nel grembo bel de la mia vesta. 90 Or perché d’ogni cibo mio ti paschi, notar ti voglio i cittadini appunto che meco vidi al tempo che qui intaschi. Al censo, dove ’l nover fu congiunto, dugencinquanta milia si trovaro o pochi piú, se sí non funno a punto. E a ciò che il mio dir ti sia piú caro, l’etá ch’io era vissa è buon sapere, ché ’l parlare è piú bel, quant’è piú chiaro. Dico ched e’ potean passati avere 100 cinquecento anni e venti, allor che fece Cartago meco pace al mio piacere. Di seguitare omai oltra mi lece e ragionar de la seconda briga, che, senza fal, de’ miei tanti disfece, 105 ch’ancora il pianto il viso mio ne riga. |
Post n°758 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti XLII Ben puoi la voglia altera, e il cuor feroce, Perché di me pietà mai non ti pieghi, Tener, dolce mia pena, et nei miei prieghi, Chiuder le orecchie alla tremante voce. Ben puoi con quella Man tenermi in croce, Onde sì spesso il dì mi prendi et leghi, Et quei begli occhi schifi, ove tu spieghi El foco del disio, che ognor mi cuoce. Ma non che viva viva tua sembianza Nel cor non porti sempre e 'l dolce umile Mirar vezzoso e 'l riso et le parole. Hor se da te s'attende, alma gentile, Mia pace mia salute et mia speranza, Ben sei crudel se di me non ti duole. XLIII Di selva in selva, alla stagion più acerba, Solo seguendo una selvagia fera, Alfin la giunsi là, dove la sera Pascer soleva tra i fioretti et l'erba: Parea sua vista sì cruda e superba, Et contro amor del mio languir sì altera Ch'io abandonai l'impresa, lasso, ch'era Condotta al fin che il bel piacer ne serba. Questo sì forte al mio Signor dispiacque, Che come spesso già per me l'assalse, Et mosso da pietà pregar solea; Così quasi sdegnando poi si tacque, Né per mio scampo poscia mai più valse Gridar mercede alla mia morte rea. XLIV L'alta beltà, che me dipinse Amore In mezo il cuor con sì pungente stile, Sì come per natura ella è gentile, Così piatoso avesse il duro core. Di tanta alteza et del mio gran dolore Io farei fede in più leggiadro stile, Perché mia vita ad opra più sottile Insieme ordita avrei col gran valore. Ma bench'io parli ognior d'ira et d'affanno, Stato non è quanto che il mio felice, Né in ciel ch'io creda già, né qui, né altrove. Che l'eccellentie che abagliato m'hanno, Essendo in terra lei sola Fenice, Ippolito arder ponno non che Giove. XLV Le bionde trecce, il riso et le parole, Et le maniere elette Fur l'arco et le saette, Che m'han passato il cor, come Amor vuole. La bella man che per virtù d'amore Rinfresca al petto mio l'antica piaga, Ond'io languisco sempre, è fatta vaga Della mia morte, et del mio gran dolore. Sfidando di speranza il tristo core, Ahi lasso me dolente, Che l'affannata mente Non fa che voglia, et meco pur si duole. XLVI È questa quella man, che già tanti anni All'amoroso nodo mi distrinse? È questo il laccio, dove Amor m'avinse Per forza, per destino, et per inganni? Questa è colei che sì soavi affanni Mille fiate et più, mi risospinse; Et viva Amor nel cor me la dipinse Ai gesti, alle maniere, al viso, ai panni. Benedette le lacrime leggiadre, Che tante per te verso, et quella stella, Che già mi fe' di te servo fedele: Benedetto sia il seme et quella madre, Che rivestì del suo cosa sì bella, Ben che mi sia a gran torto sì crudele. XLVII Madonna, del mio petto il bel sembiante, Ove a tuo nome già il dipinse Amore, Fia spento, quando al cor l'usato ardore, A gli occhi mancheran lacrime tante. Scolpita viva viva in un diamante Ti serbo d'ogni tempo in mezo 'l core: Né ria fortuna avrà mai tal valore Che notte et giorno non mi sii davante. Et benché ti mostrassi ognor sì cruda, La dolce fiamma del voler gentile Non spense mai l'oscura tua sembianza; Ma 'nanzi che questi occhi morte chiuda Conoscerai nel mio debile stile A quanto bene alzasti mia speranza. XLVIII Alta speranza dell'afflitta mente Prima che a morte mi conduca Amore, Trammi una volta di sì lungo ardore Ove dì et notte avampa il cor dolente. Natura, e il tuo costume non consente In tanta crudeltà nutrire il core, Aiuta il servo tuo, che amando more Sì che li segni della morte sente. Se il ciel cortese et sopra ogni altra bella T'ha fatta, e il tuo destin d'ogni virtute Ti colma sì che affonda la bilancia, Et se consentimento è di mia stella Che da te sola io speri mia salute, Perché non mi soccorri, o mia speranza? XLIX Sia dunque benedetto il primo inganno, Onde mi prese sì, che ancor mi tene Amor ferito a morte, et l'alta spene, Che volse la mia vita a tanto affanno: Et le faville accese, che mi stanno A mille a mille sparte in fra le vene: Et l'ora, ch'io scopersi tanto bene Per gli occhi, che dì et notte dir mi fanno. Sia benedetto l'amoroso lampo, Che mi percosse d'un soave ardore, Il dì, che io vidi il bel sembiante umano. Sia benedetto quando per mio scampo Corsi fuggendo il caldo d'altro amore, Alla dolce ombra della bella mano. L Qualunque per Amor giamai sospire, Fermato di seguir cosa mortale, In me si specchi, et pensi se al mio male Si vide al mondo mai simil martire. Per fedelmente amare et ben servire Son posto in croce, et lamentar non vale; Come tu vedi son tornato a tale, Che mille morti Amor mi fa sentire. Costei, di cui mi lagno, con sua mano m'aperse il petto, et prese il freddo core Che a lei mercede ancora, et morte chiama. O tu, che leggi, pensa quanto istrano Altrui debbe parer, quando pur more Per quella mano istessa che tanto ama. Giusto de' Conti La Bella Mano |
Post n°757 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXIII Tal era giá in Africa Cartagine, che, per tema ciascun de la sua scopa, seguiva e onorava la sua imagine. E io di qua, ne le parti d’Europa, mi vedea tanto grande e tanto cara, 5 qual donna a cui ogn’altra poi s’indopa. Or come sai che le piú volte è gara dove poder con gran poder confina, mosse guerra fra noi aspra e amara: ch’ella volea dominar la marina, 10 guardar Cicilia, Corsica e Sardigna e ogni piaggia che m’era vicina. Per ch’io pensai: se costei s’alligna sí presso a me, il suo poder fia tale, che poco pregiar posso ulivi o vigna. 15 Onde, per non voler vergogna e male, e sí per acquistar onore e pregio, la briga impresi, che fu sí mortale. Appio Claudio di gran valore fregio: tal me ’l trovai contro Annibale il vecchio 20 e contro a Iero, che m’avea in dispregio. Ma poco apresso fe’ grande apparecchio questo Annibal e venne a le mie prode col ferro in man, col fuoco e col capecchio. Cornelio Asina uccise con sue frode; e, benché ’l soprannome non sia vago, non vo’, però, che ’l tegni di men lode. Oh quanto, rimembrando, ancor m’appago come con buon volere e gran fatica Duilio il sperse per lo marin lago! 30 E quanto cara m’è, bench’io nol dica, de la sua sposa Iulia la risposta, che fe’ vèr lui, tanto onesta e pudica! E quanto ancor mi piace e mi s’accosta Lucio Scipio, quand’io penso ch’Annone 35 uccise e cacciò i suoi di costa in costa! Da gente serva e vil, senza ragione una giura fu fatta per rubarmi; ma cadde il danno su le lor persone. Da notar degno Calpurnio qui parmi, 40 ch’accorto fu in subito consilio, franco, sicuro e valoroso in armi. In questo tempo feci il gran navilio: Regulo e Manlio funno gli ammiragli fra gli altri eletti nel mio gran Concilio. 45 Non dirò tutto, perché men t’abbagli il mio parlar; ma d’Amilcar costoro preson vittoria, dopo piú travagli. Con molti presi e con ricco tesoro Manlio a me tornò e Regul poi 50 in Africa co’ suoi fece dimoro. Costui fu tal, che certo al dí d’ancoi il par non troveresti per virtute: dico nel mondo, non che qui fra noi. Sessanta e tre cittá con piú tenute 55 prese ed uccise il gran serpente e rio, del qual poi vidi il cuoio pien di ferute. Qui pensa se fu degno che morio di crudel morte; e ciò sostener volse per mantener sua fé e l’onor mio. Per la vendetta, il mio senato sciolse Emilio e Fulvio, che la fecion tale, ch’Africa poi piú tempo se ne dolse. Allegri e carchi, senza niun male reddiano a me, allor che le bianche onde 65 ruppe ’l navilio con vento mortale. Or qui ben puoi veder che non risponde ognor la fine come va il principio, come ogni albor non frutta che fa fronde. Sempronio ancora e Servilio Cipio 70 tornavan di Cicilia ricchi e carchi, quando a Eolo spiacque ciò concipio. Per questi dubitosi marin varchi, ordinai io al piú per mar tenere sessanta legni, a guardar le mie marchi. 75 Ma quella lupa, che non puote avere tanto, che giá mai sazi l’appetito, l’ordine ruppe a seguir tal volere. E perché forse ancor non hai udito del vecchio Annibal quello che ne avenne, 80 sappi ch’el fu da' suoi morto e tradito. E Asdrubal tanto male si contenne contro a Metello Lucio, che, del campo fuggendo, ancor da’ suoi morir convenne. Ne la Spagna Amilcar l’ultimo inciampo 85 de la vita sostenne e sí sconfitta fu sua gente, che poca ne fe’ scampo. Ahi, lassa!, come io fui allor trafitta ch’Atilio e Manlio rivolson la poppa contro a’ nemici, u’ la proda era ritta! 90 E lassa!, ché sí il cuore ancor mi scoppa, quando ricordo il gran distruggimento di Claudio, che al dir la lingua aggroppa. Cosí allora allegrezza e tormento cambiavan me, come fa gente in mare, 95 che ride e piange secondo c’ha il vento: ché, quando piú fioria per sormontare, di subito giungea nova tempesta, che ’l passo a dietro mi facea tornare. Ma tanta grazia al mio Lutazio presta 100 il cielo allor, che ristorò le perde sopra Cartagine e con lieta festa la pace fe’, che poco stette verde. |
Post n°756 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°755 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Teresina Cià li capelli fini fini, pare Che quarche ragno je l'abbia filati: L'occhioni aiilucenti, ammannolati, Belli, turchini come l'ortremare. La boccuccia è 'na rosa; du' filare De denti che chi sa chi je l' ha dati... Un palommaro l'averà pescati Insieme all'antre perle in fonno ar mare. E' bella e bona, e già li cicisbei In der véde' st'ottavia meravija, Resteno come mummie da mosei. Oh! beato quell'omo ch'a 'sta fija Je darà er primo bacio, e che co' lei Potrà.., paga' la tassa de famija. Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°754 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Le lire svizzere Quanno ch'agnédi giù dar caffettiere Pe' pijà' er latte, messi sur bancone Du' lire de la Svizzera; er padrone Le guardò bene e disse: - Fa' er piacere! Le svizzere a sedere nun so' bone... Dico: - So' bene in tutte le magnere! Che? la bontà dipenne dar sedere?... Dice: Nun vanno, e c'è la su'raggione: Ne la moneta quando che se vede la donna a sède' come qui, nun vale; invece corre quando che sta in piede. Dico: - Pe' mé me pare tutt'eguale: Presempio voi si state in piede o a sède' Siet sempre un cazzaccio tale e quale! Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°753 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXII Tu puoi comprender ben sí come vegno digradando il mio tempo a passo a passo, confiorendo de’ miei alcun piú degno. Era lo stato, ch’avea allor, sí basso, ch’oltra i due mari e ’l giogo d’Apennino 5 poco il mio nome facea ancor trapasso, perché l’invidia di ciascun vicino e Sanniti e Latin davano ingombro al bene, in ch’io sperava per distino. Papir Cursor del suo corpo t’aombro forte, leggieri e d’animo sí magno, che de’ nemici fe’ piú volte sgombro. La gran discordia a dirti qui rimagno ch’ebbe con Fabio e de’ Sanniti nota l’arme, di che giá fece il bel guadagno. 15 Cosí montava allor su per la rota, come si va sul pin di rama in rama: bontá de la famiglia mia divota. Chi è or colui che ’l suo Comun tanto ama, che negasse d’averne signoria 20 per viver puro e torne altrui la brama, come piú volte fe’ d’aver bailia Massimo Fabio del mio? E di tal servo giusto è che sempre la memoria sia. Costui piú volte mise ossa e nervo 25 per me ed isconfisse il Tosco e il Gallo, dopo l’augurio del lupo e del cervo. Costui riscosse la vergogna e il fallo del suo figliuolo con tanta vittoria, ch’io lo rimisi nel suo primo stallo. 30 E perché noti ben la sua memoria Ponzio prese e puose a’ colpi fine de’ Sanniti: che fu sí lunga storia. In questo tempo le cittá vicine quale omaggio mi fe’, qual fu conquisa: 35 per ch’io piú allargai le mie confine. Ma perch’ella non va com’uom divisa, quando montar credea di bene in meglio, fu con Cecilio la mia gente uccisa. Ora, figliuolo, a ragionar mi sveglio 40 le gran battaglie e come la fortuna doler mi fe’ in questo tempo veglio. Dico che non per fallo o colpa alcuna de’ miei con Taranto incominciai guerra, per la qual molte si vestîr di bruna. 45 Emilio con il fuoco e con le ferra, per vendicar lo ricevuto oltraggio, corse, in quel tempo, tutta la lor terra. Pirro d’Epirro, isceso del lignaggio del magnanimo Greco, in loro aiuto 50 venire vidi e farmi gran dannaggio. E credo ben che non avria perduto Levino contro a lui, di sopra Liro, se avesse a’ leofanti proveduto. Non molto poi i miei si partiro, 55 per vendicare il danno, dal mio ospizio, benché pur sopra lor giunse il martiro. Qui si convien la luce di Fabrizio, che ’l tenne a fren, mostrar ne le parole, 60 pien di vertú e mondo d’ogni vizio. Costui fu tal, che ’n prima avresti il sole tratto del suo cammin, che lui avessi volto a far quello che onestá non vole. Oh, quanto il loderesti, se sapessi 65 ciò ch’a Pirro rispuose e poi sí come mandò il medico preso per suoi messi! Veder bramava, per lo molto nome, il leofante e ’l gran dificio ch’ello portava a dosso, in cambio d’altre some; 70 quando fu Curio primamente quello che, poi ch’egli ebbe Pirro in fuga messo, me ’l presentò armato d’un castello. Tremò la terra sotto i piedi, apresso, de’ Piceni e de’ miei, fatte le schiere, 75 per che ciascuno spaurio adesso. Ma qui è bel d’udire e di sapere quel tempo ch’io avea in fino al dí che Taranto ai miei fe’ dispiacere. Venti sei anni a rilevare un D mancavano e tu cosí li nota, se con altri di tal materia di’. Orribil fiamme e diverse tremota si videro e sentîr, per che temenza n’ebbe grande di qua la gente tota. 85 Credo per segno di crudel sentenza si vider correr sangue le fontane e lupi squartar l’uomo in mia presenza. Ora ti vengo a dir le cose strane che funno in mare, in terra, e le sconfitte 90 galliche ed ispagnuole e africane, ben che ’n molti volumi siano scritte. |
Post n°752 pubblicato il 08 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
L'assassino pratico I E'cchime qua, so' io sor delegato. Lei già saprà der fatto ch'è successo... Mò' che serve a negà'?.,. tanto è l'istesso; So' stato propio io che l' ho ammazzato, Viengo a costituimme da me stesso Percui tni scuserà si ho un po' tardato: Ho avuto da parlà' co' l'avvocato Pe' famme la difesa ner processo. Ho scritto la mi' lettera ar giornale, Mò' sto tranquillo,,.. eppoi legga l'articolo Quarantasei der codice penale... Vede? che dice? embè? nun ho raggione?... Abbasta, mò' che nun c'è più pericolo Si vuole sono a sua disposizzione. II Quale E' stato er movente der delitto?.., Come sarebbe a di' quale movente? Io, pe' me tanto, nun movevo gnente Si quer bojaccia fusse stato zitto. Domani in de la lettera ch'ho scritto Je spiego l'omicidio chiaramente, E lei ch' è 'na persona inteliggente Dirà si stavo o no ner mi' diritto. Io l'ho corti in fregante: io l'ho saputo Che queli boja staveno d'accordo... Poi quela sera avevo un po' bevuto... Quaesto me gioverà?.,, me l'assicura?... Ma allora, aspetti: mò' che m'aricordo Ero imbriaco fracico addrittura. Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02