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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Messaggi del 10/12/2014
Post n°780 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO I Qui son de’ miei figliuoi giunta a la foce; qui Cesare m’aspetta e qui mi chiama con la sua grande e magnanima voce. Costui, per darli onor, grandezza e fama, mandai in Francia e giú di sotto il Reno, 5 sopra gente che sempre poco m’ama. E se ne’ suoi cinque anni avesse a pieno compiuto il suo dover, non li sarei de l’onor che volea venuta meno. Ma per legge che fe’ Pompeo tra’ miei, 10 per l’arbitrio che da se stesso prese, il mio senato il giudicò tra’ rei. Questo, ch’io dico, e le soperchie spese, invidia e cupidigia fun cagione del mal, che sopra me per lui discese. 15 E come per natura sua il leone, allor che ’l cacciator nel bosco mira, l’ira raccoglie e diventa fellone: ciò è che tanto la sua coda gira sé percotendo, che ’l nobil cor desta 20 e diventa sdegnoso e pregno d’ira; fatto crudele, con tanta tempesta si lancia in contro a qual vede piú presso, che par che tremi tutta la foresta, cosí Cesare allora in fra se stesso 25 si combattea, cercando le cagioni come ’l suo core a ira fosse messo. Poi, crudel fatto, le sue legioni armate mosse e contro a me ne venne, che folgor parve quando vien da’ tuoni. 30 Né la gran pioggia a Rubicone il tenne, né ’l mio dolor, né lo scuro sembiante, né i suoi veder pensar tra l’esse e l’enne, che non seguisse dietro dal gigante, e gli altri apresso, ché al mio tormentare ciascun fe’ il cor piú duro che diamante. Troppo lungo sarebbe a raccontare ciò che fe’ in Spagna, Marsilia e Tessaglia e sopra a Tolomeo, passato il mare. Troppo starei a dirti la battaglia 40 lá dove Giuba fu e ’l buon Catone, che per mia libertá tanto travaglia. Troppo starei a dirti la cagione, dove e come s’uccise Rancellina, quando fu morto Igneo nel padiglione. 45 Troppo starei a dirti la ruina ch’el fe’ de’ miei e come Cassio e Bruto dopo tre anni insieme l’assassina. S’io ti dovessi dir tutto compiuto a passo a passo il fatto e dirti ancora 50 la gente ch’ebbe contro e in aiuto, e ricordarti quel che fece allora Domizio a Corfino e ancora dove col braccio in man la fine sua onora, e di Scipio piú volte le gran prove 55 e Vergenteo in sul lito marino, che allor fe’ sí ch’assai n’è scritto altrove; e sí come Appio andò ad Apollino e Sesto ad Ericon, sol per sapere ciascun la veritá del suo distino; 60 e quanto Leneo fu di gran podere e Metello, che ’n su Tarpea si dolse, quando spogliar la vide del mio avere; e come Ulterio pria la morte volse che domandar mercé, tanto fu duro, 65 e ciascun suo compagno a ciò rivolse; e come Sceva, che fu aspro e sicuro, istava a la difesa come un verro, quando fu morto a Durazzo in sul muro; e quanto mal mi fe’ l’ardito ferro 70 di Lelio, che l’aquila portava e sopra l’elmo, per cimiero, un cerro; e dirti del valor, che s’adornava colui che Igneo in su la guardia uccise, quel dí che Cesar piú si disperava; 75 e quanto mi fe’ noia e mi conquise l’altro, per cui ne la navicella Iulio con Amiclate andar si mise; e divisarti come mi fu fella la lingua di quel Curio maladetto, 80 che tanto ardito contro a me favella: ora, come di sopra t’ho giá detto, senza alcun dubbio noi staremmo troppo, volendo di ciascun contar l’effetto: per ch’io in prima l’uno e l’altro doppo 85 vo nominando e prendo pur lo fiore e quanto posso in brieve poi gli aggroppo. Qui dèi pensar che per suo gran valore, per doni, per franchezza e per sapere, Cesar del mondo e di me fu signore, 90 e ch’esso fe’, per tanta gloria avere, cinquantadue battaglie, che niuna fu senza trombe e ordine di schiere: e cosí fa col buon buona fortuna. |
Post n°779 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME |
Post n°778 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Di Torquato Tasso Non per crescer più sempre il mio dolore E ne l'alma destar nuovi martiri Potrà spegnere il ciel questi desiri E veder poscia estinto il giusto ardore. Di nuove forme Amor m'imprime il core E più fiero mi stracci e mi raggiri, Ch'al primo fin convien sol ch'io sospiri E nel mio incendio viva a l'ultime ore. Quanto vie più la crudeltà mi preme Di che s'ingombra il cor, madonna, tanto Più nel primo voler l'alma si regge. Vinta l'ira, il desio, l'odio, la speme, La crudeltà, l'ardor, l'orgoglio, il pianto, Né mi consigli Amor, né mi dia legge. [2 Di Torquato Tasso] Di Torquato Tasso Amorosa fenice Nel sol, che solo adoro, Ardendo vivo e moro, E morendo rinasco, e volo, e canto, Fatto cigno canoro, Il suo bel nome santo, Amor, s'in altro lume Arder non so le piume, Perché della mia donna angel mi fai, E non m'arridi in quel bel seno mai? [3 Di Torquato Tasso] Di Torquato Tasso Pregato avessi un cor di tigre, o d'orsa Mentre tra voi mi vissi, Euganei colli, Prima che 'l cor dolente e gli occhi molli Portar per lei, che la mia vita inforsa. Che quest'alma infelice a languir corsa Come piacque a mia stella, anzi io pur volli, Dopo vane speranze e pensier folli D'un sospir sarìa stata almen soccorsa. Voi dunque, voi d'ogni pietade ignudi Dove raggio d'amor non scalda, o luce Fuggo e ricolgo altrove i pensier miei. Via più d'Acrocerauno infami e rei Colli, poi che natura in voi produce Sì fieri mostri in vista umana e crudi. [4 Di Torquato Tasso] Battista Guarino O nel silenzio tuo, lingua bugiarda Dove or son le promesse e gli ardimenti? Com'esser può che ne le fiamme ardenti Onde tutto avvampo io, tu sol non arda? Allor tu stai più neghittosa e tarda Che con sguardi amorosi e cari accenti Par che madonna accenni a' miei tormenti Quella pietà che poi per te si tarda. Ma se muta sei tu, sian gli occhi nostri Loquaci e caldi, e 'n lor le sue profonde Piaghe e l'interno duol discopra il core. Non è sì chiuso, o sì secreto ardore Ch'un ciglio a l'altro non riveli e mostri Là dove Amor vera eloquenza asconde. [5 Di Battista Guarini] Di Battista Guarino. Risposta a Torquato Tasso. Questi, ch'indarno ad alta meta aspira Con l'altrui biasmo e con bugiardi accenti Vedi come 'n sé stesso arrota i denti Mentre contra ragion meco s'adira. Già il suo veneno in lui ritorna e gira, E par che l'arme in sé medesmo avventi, Già le menzogne sue quasi lucenti Cristalli sono, ov'ei si specchia e mira. Di due fiamme si vanta, e stringe e spezza Più volte un nodo e con quest'arti piega, Chi il crederebbe? a suo favor gli dei. Amor non, che per alma a furti avvezza Sì bella donna egli non scalda e lega Premio de' casti e fidi affetti miei. [6 Di Ercole Cavalletto] Del Cavalletto Humile accademico sopra il poema eroico di Torquato Tasso. Se gli affetti d'Amor cantando scrivi, Tasso, se l'onestà di donna bella In quegli i furti, i fochi e le quadrella Si veggon, gli atti in questa onesti e schivi. Se fiume, o selve a noi mostri, o descrivi, Se di turbato mar dubia procella S'armati cavallier, pedoni, o in sella Tutti a gli occhi mertai paiono vivi: Ma se canti talor (tratto in disparte) L'arme, e se muovi con la penna altieri, Quinci Bellona e quindi irato Marte Hanno tanto del vero i tuoi pensieri, E pingi in guisa, e dai nome a le carte Ch'altri non fia che d'agguagliarti speri. [7 Di Torquato Tasso] Sonetto sopra le confine poste tra Ferraresi et Bolognesi l'anno 1579. S'empia cagion de' nostri antichi affanni Tuo mio fervendo in quest'e in quella parte Ne i confini accendea, Megera e Marte Per meta e spazio indegno e dati danni, Squarciato ne portava il petto e i panni Il donno e il servo, e con la solit'arte Il togato vendea menzogne e carte Indarno consumando i mesi e gli anni. Alfin giustizia e pace aprendo un giorno Dopo tenebre tante almo e sereno A bearne dal ciel duo nominaro, L'uno d'alta virtude ed ostro adorno, Di valor l'altro, e i termini fermaro Al Tebro cari, al Po giocondi, al Reno. [8 Di Torquato Tasso] Quando il Po entrò in Ferrara del 1592. Se quelle genti, o Po, timide rendi Ch'han de' più forti di per tutto 'l grido Anzi la lor' città, m'è ferreo nido Ad ogni moto tuo sì forte offendi. Chi non vede che 'l titol regio prendi Tra tutti i fiumi che ben nel tuo lido Trenta d'essi ti seguon per lor fido Duce real ch'al mar con lor t'estendi. Onde si vede ben l'alto valore Tuo, che supera quel delle salse onde U' fu l'intrepido Icaro sepolto, Poiché Fetonte non senza pallore Fulminato da Giove in le tue sponde Lì caramente fu da te raccolto. [9 Di Torquato Tasso] Di Torquato Tasso Questa terrena ed infiammata cura, Padre del ciel, che 'l ver di nebbie adombra Volgi in foco celeste, e spegni l'ombra Che 'l tuo lume divin mi vela e fura. Tu vedi ben di che letale e impura Fiamma con un sol guardo Amor m'ingombra, Scaccia dal cor l'empio tiranno e sgombra Col tuo lume vital quest'empia arsura. Che se tant'arse l'alma ai raggi suoi Tra le nubi d'un volto ottuso e spenti Che fia, se 'l vero sol la scorge e infiamma? Signor, l'esca mortal de' sensi ardenti Intepidisci e purga tu, che puoi Trae d'immonda favilla eterna fiamma. [10 Di Torquato Tasso] Alla signora ... Io son, Tiresia, del piacere altrui E del vostro piacere giudice esperto, Ch'ora son uomo, e donna un tempo fui, E del giudicio ebbi il castigo e 'l merto. Né cieco son, come rassembro a vui, Però che ho l'occhio interno al vero aperto. Questa è, Manso, mia figlia e cara scorta E Giove è suo e 'l sacro augello il porta. E conduciamo a le famose rive Un gentil cavalier fra gli altri erranti, Donne leggiadre, anzi terrene dive, Per riprovar gli altrui superbi vanti, Perché quanto il sol gira oggi non vive Fede maggior tra valorosi amanti, E Venere l'affida, e insieme il figlio Ond'egli spera uscir d'ogni periglio. Ha gigli e rose, e bei rubini ed oro, E due stelle serene e mille raggi Il bel volto purpureo e bianco viso E la sua primavera è suo tesoro, E gemme i vaghi fiori e i lieti maggi Lucide fiamme son di paradiso; Ma il più bel pregio è la virtù de l'alma Ch'è di sé stessa a voi corona e palma. La natura v'armò, bella guerriera, E i guardi sono strali, e nodi i crini, E le due chiare luci ambo facelle, E in vostro campo e ne la prima schiera L'onor, la gloria, e sono lor vicini Gli alti costumi e le virtuti anch'elle Et un diaspro intorno il cor v'ha cinto E voi sete la duce, Amore il vinto. [11 Di Torquato Tasso] All'illustrissimomo cardinale Albano. Mente canuta assai prima del pelo, Pieno di maestà, sereno aspetto, Cui non perturba mai soverchio affetto, Né ti nasconde il ver sotto alcun velo. Santo amor de la fede e santo zelo, Di morte sprezzator; costante petto, Lingua che ben comparte alto concetto, ALBAN, son doni a te dati dal cielo. E s'uom s'avanza per umana cura Tu gli accresci così, che Roma pote Solo capirti, o fortunato vecchio, E Roma in sé t'esalta, e 'n lei più note Son tue virtuti, a cui far bella e pura Io quest'alma vorrei, com'a mio specchio. [12 Di Torquato Tasso] In morte della signora Ginevra Teodola. Gentilezza di sangue, animo adorno D'ogni più grazïoso, alto costume, Che spargeva per gli occhi un chiaro lume Di sua bellezza et illustrava intorno. Fer' dolce invidia un tempo e dolce scorno A chi l'un pregio e l'altro aver presume Sin che spiegasti al ciel l'eterne piume Da la prigione ove facei soggiorno. Ed or Forlì, che fece a l'alma bella Il carcer vago, alle tue care membra Orna piangendo la dolente tomba, Ginevra, e de' tuoi merti ei si rimembra, E l'orba madre tua nel pianto appella Col nome stesso che per te rimbomba. [13 Di Alessandro Bovio] Del Bovio Sereno Academico sopra il poema heroico di Torquato Tasso. Mentre ch'aspira a nove prede Amore E spiega a l'aria il volo, e intorno gira Sovra l'altiero Po si ferma, e mira Quasi presago di novello onore. Ivi s'asside e sparge arabo odore A l'onde, ai campi, e 'l bel paese ammira, E fra sé dice: Apollo ha qui la lira Riposta e l'alto suo santo furore. A queste voci mormorando l'acque Risposer liete: È ben felice il loco Ove tu sel, poi che di te l'onori. Ma non felice men poi che 'l tuo foco Canta il gran Tasso, che d'eterni onori Cinse Goffredo. Amor sorrise e tacque. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°777 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La lapida sur portone Io so' er padron de casa e avrebbe er dritto De commannà', ma invece nossignora: Ma da 'sto giorno in poi, per dina-nora, A l'anquilini illustri nu' j'affitto. Quanto vie' er municipio zitto zitto Me te schiaffa 'na lapida de fora, Perché da me c'è stata 'na pittora, E indovinece un po' quer che cià scritto? "Qui ciabbitò la groria de le grorie, La pittora Guazzetti, brava assai, Onesta donna... " co' tant'artre storie. Però ciamanca er mejo: a l'iscrizzione S'è scordato de di' che la citai Perché non me pagava la piggione. Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°776 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXIX Invidia, superbia e avarizia vedea moltiplicar tra’ miei figliuoli piú, quanto piú cresceva in lor divizia: per ch’io di gravi e di cocenti duoli, ch’apparver poi, giá m’ero indovina, 5 come per vento il tempo stimar suoli. Ma prima che sentissi tal ruina, sopra ’l Rodano Mario i Galli e i Cibri distrusse e la lor gente feminina. E fenno contro a me, per viver libri, 10 insieme compagnia Giugurta e Bocco, come tu puoi veder per molti libri. E, dopo piú miei danni, ch’io non tocco, Mario, vincendo, li fece tornare per forza in ver Numidia e nel Morocco. 15 Vidi preso Giugurta incarcerare, che detto avea di me assai giá bene: ch’i’ a vender fosse, pur chi comperare. De’ due Metelli parlar mi convene, perché l’un di Sardigna triunfai, 20 di Tracia l’altro, dopo molte pene. Niun de’ miei per suo valor giá mai con gente avea passato monte Toro, quando Servilio n’ebbe onore assai. Del monte Rodopeo ancora onoro 25 Scribonio con ciascuno suo compagno, che di lá pria ne portâr gran tesoro. Ma tanto, lassa!, del mio mal mi lagno, al ricordo che la saga vestio, che gli occhi e ’l volto di lagrime bagno. 30 Vero è ch’apresso, pensando com’io mi rimisi la toga, mi conforto e Cesar lodo qui con gran disio. De la gran guerra ancor memoria porto, la qual durò intorno di trent’anni con Mitridate, che dal figlio è morto. Chi ti potrebbe dire i molti danni, chi ti potrebbe dir la lunga spesa, chi ti potrebbe dire i gravi affanni, ch’allor soffersi per tanta contesa? 40 Certo non so, ma per fermo ti conto ch’al fin l’onor fu mio di quell’impresa. I Luculli, che passaro Ellesponto, qui convien ch’a la mente ti riduca, perché ciascuno al mio onor fu pronto. 45 E come il serpe esce fuor de la buca nel sol del Cancro, con la gola aperta, e l’occhio ha tal, che par carbon che luca, tal Saturnino uscio con la testa erta e gli occhi accesi al mal, fuor del mio seno, 50 e mosse quel, ch’io fui presso a diserta. Otriaca fu Mario al suo veleno e a quello di ciascuno, che si mosse per seguitare il suo mal volto freno. Sempre la ’nfermitá, che sta ne l’osse, 55 perché si cela è piú pericolosa che quella in che si veggion le percosse. E perché allor la mia era nascosa, dubitava sí forte de la vita, quanto giá mai di alcun’altra cosa. 60 E pensa s’i’ dovea stare smarrita, ché per annunzio, credo, fuor del pane spicciò il sangue qual d’una ferita. E lassar l’uom fuggire al bosco il cane, la terra aprire e fuor gittar la fiamma 65 veduto fu e altre cose strane. Silla crudel, dei qual mi credea mamma, per sua invidia con Mario prese briga, che diece anni durò e non men dramma. Ahi, lassa!, come ’l pianto il volto riga, 70 quando ricordo il triunfar di Mario e quanto giá per me portò fatiga! E poi penso che sí, per lo contrario, la fortuna contro a Silla gli offese, che dal bene al suo mal non so divario. 75 Dire non so quel duol, ch’allor discese sopra il mio sangue, né credo sia lingua che far potesse il gran danno palese. Passato questo e fatta un poco pingua, ordinò Catellina la gran giura, 80 la qual Sallustio par che chiar distingua. Qui soffersi io gran pena e gran paura e se non fosson, piú sarebbe stata, Tullio e Caton, che preson di me cura. Cosí, come odi, una e altra fiata 85 per li tre vizi, ch’io ti dissi dianzi, mi vidi lagrimosa e sconsolata. E però quale intende a grandi avanzi, o Signore o Comun, sempre convene partirli dal suo cuore innanzi innanzi. 90 Or come sai che per natura avene che ’l dolce si conosce per l’amaro, la notte per lo dí e ’l mal dal bene, cosí per le virtú, che son contraro di questi vizi, avièn che l’uomo sale 95 ispesse volte in luogo degno e caro. Quasi in quel tempo, ch’i’ stava sí male, in vèr levante mandai io Pompeo, d’animo forte, franco e liberale. Lá vinse il Turco, l’Armino e ’l Giudeo, 100 quello d’Egitto e quel di Babilona, Albania e Siria e per mar ciascun reo. E tanto fece per la sua persona, che d’Asia e d’Europa prese e mise una gran parte sotto mia corona, 105 e Tolomeo fe’ re, che poi l’uccise. |
Post n°775 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La strega |
Post n°774 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LI Soccorri, o mio conforto et vera pace, Soccorri, ch'io son giunto dal martire: La doglia è sì nel colmo, che più gire Nanzi non puote omai, se non mi sface. O d'ogni mia salute sol verace Porto, ove a forza mi convien fuggire, Se campar voglio vita, che al perire Giunta la veggio, sì come altrui piace. Ma se di tanto mal pietà giamai Aver da te si debbe, a che pur guardi? Provedi alla virtù, che è stanca et lassa. A che, dolce mia fiamma, a che pur tardi? Le lagrime m'abondan tanto omai, Che il troppo pianto a me pianger non lassa. LII Giorgio, se amore altro non è che fede, Accesa in speme d'un desir perfetto, Crescer dee tanto l'amoroso affetto Quanto l'un degli amanti all'altro crede. Or dunque se è così, donde procede Che senza gelosia non è diletto? Come la fe' s'accorda co 'l sospetto Nell'aspettata spene di mercede? Come esser può che d'un sì fiero errore Nasca sì dolce assentio di martiri, Di fede quindi et quindi di paura? Et di cagion così contrarie al cuore La dilettosa febbre ne s'aggiri, Che fredda et calda gli animi ne fura? LIII Ben sei, crudel, contenta omai che vedi Come io so' avolto nel tenace visco: Arde il mio petto, e il viso impallidisco, E il core, ove scolpita ognior mi sedi. Ben sei, crudel, contenta: et che più chiedi, Se pur dinanzi a te venir n'ardisco: Vedendo l'ombra lasso io non m'arrisco Passar su l'orme dei tuoi santi piedi. Fera selvagia di te stessa vaga, Ecco la carne et l'ossa, ecco, la vita Nelle man strette, come vuoi, tu porti. Rinfresca nel cor mio l'antica piaga, Sì che una volta avanzi la ferita, Che prova ciascun giorno mille morti. LIV Se fusse mio destino, o gran valore Di mie crudeli stelle, o qualche inganno, Che i tuoi begli occhi sì trattato m'hanno, Non so, ma sia chi può, sel vuole Amore. Usa mia libertà come signore Grato nel servo, non come tiranno; Vinca tua crudeltade il lungo affanno, Miei prieghi, e i miei lamenti, e il gran dolore. Né prender tal vaghezza di mia doglia, Che non ti fia più caro il piacer mio; Che tuo sia il danno, quando Amor m'uccida: A me fia gratia, che di qui mi scioglia, Se ben morendo, more quel disio, Che ciascun giorno a più dolor mi guida. LV Io piango spesso, et meco Amor talvolta, Che perde tante imprese et tanti assalti, Seguendo ognor per aspri luoghi et alti La fera, che sì ardita in lui si è volta. Veggiola ad ora ad or sì pronta et sciolta, Che avanza il mio Signore a sì gran salti; E il cor d'un marmo, e gli occhi ha di duoi smalti Che i suoi lamenti e i miei sì poco ascolta. Talora al trapassar d'un verde colle L'occhio la perde, et poi veggio posarla, Sì che or la giungo, or subito m'avanza: Et quanto più dagli occhi miei si tolle, Tanto più il gran disio di seguitarla, Et di voltarla cresce la speranza. LVI Prima vedrem di sdegno un cor gentile Al tutto scemo, e 'l sol corcar là, donde Ne mena il novo giorno, et fiori et fronde Morranno per le piagge a mezo aprile. Ch'ognior non segua l'angoscioso stile Et brame l'ombra delle trecce bionde, Ove per consumarme amor nasconde Il foco et l'esca, e 'l sordo suo fucile, Et che 'l cor duro et la gelata mente De chi in un punto mi fa vivo et morto, Non sia tal sempre in me quale esser suole: Così mia pace et mia speranza ha[n] spente Questa malvagia, onde adtendea conforto, Malvagia a chi il mio mal sì poco dole. LVII Prima vedrem le stelle a mezo il giorno, Et poi levarsi innanzi l'alba il sole, Vedremo di fioretti et de viole Quando più forte inverna, il mondo adorno: La luna pieno l'uno et l'altro corno Avrà nel tempo, quando scemar vole, Natura resterà da quel che sole, E i Cieli ad uno ad uno d'andar dattorno, Che questa fera, che al fuggir m'avanza Impari aver pietà del pianger mio, Ch'è fatta sorda alli miei giusti prieghi, Né ch'io per tutto ciò quel gran disio Dal cor divelli, et scacci la speranza Che par ch'ogni mia pace et ben me nieghi. LVIII Né valle, che di miei sospir sì ardenti Calda non sia: né sì riposto loco, Né sì chiuso sentiero, ove quel roco Mio sempre mormorar già non si senti: Né sì selvaggie, né sì aspre genti Veggio, a cui sia celato il mio gran foco: Né parte al mondo, dove assai o poco Pietà non s'aggia de miei duri stenti, Et questa sorda, che ben mille volte Versar mi vede lacrime sì calde Del fonte, che per gli occhi miei risorga, O che s'infinga, o tema, o non m'ascolte, O che di me pietà mai non la scalde, Par che di tanto mal non se n' accorga. LIX Arder la notte, et agghiacciare al sole, Et trar sospir dal fondo del mio petto, Et versar sempre lacrime a diletto, Interrompendo il pianto con parole; Tener mia voglia ardente ognior qual sole, Cercando morte co 'l maggior mio affetto, Aver me stesso più ch'altri a dispetto, Seguire il mal disio come Amor vole, Questo è il mio stato et fu, dolce mia pena, Caro mio stento, et fiamma mia gentile Dal giorno che mal vidi gli occhi vostri. Onde procede il duol, che al fin mi mena, O dura et rigida alma in atto umile, Che a torto sì crudel ver me ti mostri. LX O Dio, ch'al vento perdo le parole, Et cerco l'orso umiliar co 'l pianto, Misero, con la morte allato incanto L'aspido sordo che ascoltar non vuole, Al raggio d'un sfrenato et vivo sole Mi specchio: et di Sirena il dolce canto Mia vita ha tratto in fondo, et so ben quanto Poco a costei del mio perir gli duole! Et vo seguendo ognior Diana in traccia Di selva in selva, et d'uno in altro poggio. A cui dei miei sospir nulla gli cale, Per far pietoso il sasso, ove io m'appoggio, Che più m'infiamma, quando lui più agghiaccia D'un foco, che il cor m'arde, et non fa male. Giusto de' Conti La Bella Mano |
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il 15/04/2023 alle 00:02