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Messaggi del 10/12/2014

Il Dittamondo (2-01)

Post n°780 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO I

Qui son de’ miei figliuoi giunta a la foce; 
qui Cesare m’aspetta e qui mi chiama 
con la sua grande e magnanima voce. 
Costui, per darli onor, grandezza e fama, 
mandai in Francia e giú di sotto il Reno, 5 
sopra gente che sempre poco m’ama. 
E se ne’ suoi cinque anni avesse a pieno 
compiuto il suo dover, non li sarei 
de l’onor che volea venuta meno. 
Ma per legge che fe’ Pompeo tra’ miei, 10 
per l’arbitrio che da se stesso prese, 
il mio senato il giudicò tra’ rei. 
Questo, ch’io dico, e le soperchie spese, 
invidia e cupidigia fun cagione 
del mal, che sopra me per lui discese. 15 
E come per natura sua il leone, 
allor che ’l cacciator nel bosco mira, 
l’ira raccoglie e diventa fellone: 
ciò è che tanto la sua coda gira 
sé percotendo, che ’l nobil cor desta 20 
e diventa sdegnoso e pregno d’ira; 
fatto crudele, con tanta tempesta 
si lancia in contro a qual vede piú presso, 
che par che tremi tutta la foresta, 
cosí Cesare allora in fra se stesso 25 
si combattea, cercando le cagioni 
come ’l suo core a ira fosse messo. 
Poi, crudel fatto, le sue legioni 
armate mosse e contro a me ne venne, 
che folgor parve quando vien da’ tuoni. 30 
Né la gran pioggia a Rubicone il tenne, 
né ’l mio dolor, né lo scuro sembiante, 
né i suoi veder pensar tra l’esse e l’enne, 
che non seguisse dietro dal gigante, 
e gli altri apresso, ché al mio tormentare 
ciascun fe’ il cor piú duro che diamante. 
Troppo lungo sarebbe a raccontare 
ciò che fe’ in Spagna, Marsilia e Tessaglia 
e sopra a Tolomeo, passato il mare. 
Troppo starei a dirti la battaglia 40 
lá dove Giuba fu e ’l buon Catone, 
che per mia libertá tanto travaglia. 
Troppo starei a dirti la cagione, 
dove e come s’uccise Rancellina, 
quando fu morto Igneo nel padiglione. 45 
Troppo starei a dirti la ruina 
ch’el fe’ de’ miei e come Cassio e Bruto 
dopo tre anni insieme l’assassina. 
S’io ti dovessi dir tutto compiuto 
a passo a passo il fatto e dirti ancora 50 
la gente ch’ebbe contro e in aiuto, 
e ricordarti quel che fece allora 
Domizio a Corfino e ancora dove 
col braccio in man la fine sua onora, 
e di Scipio piú volte le gran prove 55 
e Vergenteo in sul lito marino, 
che allor fe’ sí ch’assai n’è scritto altrove; 
e sí come Appio andò ad Apollino 
e Sesto ad Ericon, sol per sapere 
ciascun la veritá del suo distino; 60 
e quanto Leneo fu di gran podere 
e Metello, che ’n su Tarpea si dolse, 
quando spogliar la vide del mio avere; 
e come Ulterio pria la morte volse 
che domandar mercé, tanto fu duro, 65 
e ciascun suo compagno a ciò rivolse; 
e come Sceva, che fu aspro e sicuro,
istava a la difesa come un verro, 
quando fu morto a Durazzo in sul muro; 
e quanto mal mi fe’ l’ardito ferro 70 
di Lelio, che l’aquila portava 
e sopra l’elmo, per cimiero, un cerro; 
e dirti del valor, che s’adornava 
colui che Igneo in su la guardia uccise, 
quel dí che Cesar piú si disperava; 75 
e quanto mi fe’ noia e mi conquise 
l’altro, per cui ne la navicella 
Iulio con Amiclate andar si mise; 
e divisarti come mi fu fella 
la lingua di quel Curio maladetto, 80 
che tanto ardito contro a me favella: 
ora, come di sopra t’ho giá detto, 
senza alcun dubbio noi staremmo troppo, 
volendo di ciascun contar l’effetto: 
per ch’io in prima l’uno e l’altro doppo 85 
vo nominando e prendo pur lo fiore 
e quanto posso in brieve poi gli aggroppo. 
Qui dèi pensar che per suo gran valore, 
per doni, per franchezza e per sapere, 
Cesar del mondo e di me fu signore, 90 
e ch’esso fe’, per tanta gloria avere, 
cinquantadue battaglie, che niuna 
fu senza trombe e ordine di schiere: 
e cosí fa col buon buona fortuna.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (7)

Post n°779 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.


18

Talor piango i’, Amor, sì coralmente
Che tu che ’l vedi ti muovi a pietate,
E se non fussi tua benignitate,
Abbandonato avrei ’l secol presente.

Ma tu conforti la mia afflitta mente
Dicendo; va con tua umilitate
Per via seguendo, che le più fiate
Vince pietà così altera gente.

Ed io seguo tuo dir, ma questa petra
È duro diamante e fredda neve,
Nè s’addolcisce già, nè sente il caldo

Di te, signor, ch’hai vota la faretra
De’ tuoi dorati strali e fatta lieve;
Sicchè con teco omai mia morte saldo.



19

Deh, perchè m’ha’ fatto, Amor, suggetto
Di questa tua e mia crudel nemica,
Sicchè battaglia tal nel core intrica,
Che di pianti e sospir mi fregia il petto,

Il qual s’è fatto d’ogni duol ricetto.
Signor mio, benchè con vergogna il dica,
Tu non puoi di pietà già farla amica,
Il perch’io chiamo morte con diletto,

Or mio fìa ’l danno e tuo fia il disonore,
Poich’esta pargoletta disarmata
Disarma te, che co’ dorati strali

Vincesti Febo, ch’avea avuto onore
Del gran Pitone; omè, ora è abbassata
Tua signoria, e contra lei non vali.



20

Se mortal fosse stato il grave colpo
Col qual da prima, Amor, tu mi feristi
E dì sì rei e lagrimosi e tristi
Finiti avrei, per cui mi snervo e spolpo.

Nè del mio male altri che te incolpo,
Ch’i leggiadr’occhi sì pietosi apristi;
Poi fatti gli hai crudel: ciò consentisti
Per più mie pene, sicchè mai mi scolpo

Da’ gravi colpi tuoi; ch’a poco a poco
Per continua usanza m’han sì avvezzo,
Ch’io sopporto ogni pondo e fommi forte,

Per più incender nello ardente foco;
E nullo altro ho, se non il mio mal prezzo.
Aggine tu pietà, o dolce morte.

 
 
 

Rime inedite del 500 (V)

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

V

[1 Di Torquato Tasso]


Di Torquato Tasso

Non per crescer più sempre il mio dolore
E ne l'alma destar nuovi martiri
Potrà spegnere il ciel questi desiri
E veder poscia estinto il giusto ardore.

Di nuove forme Amor m'imprime il core
E più fiero mi stracci e mi raggiri,
Ch'al primo fin convien sol ch'io sospiri
E nel mio incendio viva a l'ultime ore.

Quanto vie più la crudeltà mi preme
Di che s'ingombra il cor, madonna, tanto
Più nel primo voler l'alma si regge.

Vinta l'ira, il desio, l'odio, la speme,
La crudeltà, l'ardor, l'orgoglio, il pianto,
Né mi consigli Amor, né mi dia legge.

[2 Di Torquato Tasso]

Di Torquato Tasso
Amorosa fenice
Nel sol, che solo adoro,
Ardendo vivo e moro,
E morendo rinasco, e volo, e canto,
Fatto cigno canoro,
Il suo bel nome santo,
Amor, s'in altro lume
Arder non so le piume,
Perché della mia donna angel mi fai,
E non m'arridi in quel bel seno mai?

[3 Di Torquato Tasso]

Di Torquato Tasso

Pregato avessi un cor di tigre, o d'orsa
Mentre tra voi mi vissi, Euganei colli,
Prima che 'l cor dolente e gli occhi molli
Portar per lei, che la mia vita inforsa.

Che quest'alma infelice a languir corsa
Come piacque a mia stella, anzi io pur volli,
Dopo vane speranze e pensier folli
D'un sospir sarìa stata almen soccorsa.

Voi dunque, voi d'ogni pietade ignudi
Dove raggio d'amor non scalda, o luce
Fuggo e ricolgo altrove i pensier miei.

Via più d'Acrocerauno infami e rei
Colli, poi che natura in voi produce
Sì fieri mostri in vista umana e crudi.

[4 Di Torquato Tasso]

Battista Guarino

O nel silenzio tuo, lingua bugiarda
Dove or son le promesse e gli ardimenti?
Com'esser può che ne le fiamme ardenti
Onde tutto avvampo io, tu sol non arda?

Allor tu stai più neghittosa e tarda
Che con sguardi amorosi e cari accenti
Par che madonna accenni a' miei tormenti
Quella pietà che poi per te si tarda.

Ma se muta sei tu, sian gli occhi nostri
Loquaci e caldi, e 'n lor le sue profonde
Piaghe e l'interno duol discopra il core.

Non è sì chiuso, o sì secreto ardore
Ch'un ciglio a l'altro non riveli e mostri
Là dove Amor vera eloquenza asconde.

[5 Di Battista Guarini]

Di Battista Guarino. Risposta a Torquato Tasso.
Questi, ch'indarno ad alta meta aspira
Con l'altrui biasmo e con bugiardi accenti
Vedi come 'n sé stesso arrota i denti

Mentre contra ragion meco s'adira.
Già il suo veneno in lui ritorna e gira,
E par che l'arme in sé medesmo avventi,
Già le menzogne sue quasi lucenti

Cristalli sono, ov'ei si specchia e mira.
Di due fiamme si vanta, e stringe e spezza
Più volte un nodo e con quest'arti piega,

Chi il crederebbe? a suo favor gli dei.
Amor non, che per alma a furti avvezza
Sì bella donna egli non scalda e lega
Premio de' casti e fidi affetti miei.

[6 Di Ercole Cavalletto]

Del Cavalletto Humile accademico sopra il poema eroico di Torquato Tasso.

Se gli affetti d'Amor cantando scrivi,
Tasso, se l'onestà di donna bella
In quegli i furti, i fochi e le quadrella
Si veggon, gli atti in questa onesti e schivi.

Se fiume, o selve a noi mostri, o descrivi,
Se di turbato mar dubia procella
S'armati cavallier, pedoni, o in sella
Tutti a gli occhi mertai paiono vivi:

Ma se canti talor (tratto in disparte)
L'arme, e se muovi con la penna altieri,
Quinci Bellona e quindi irato Marte

Hanno tanto del vero i tuoi pensieri,
E pingi in guisa, e dai nome a le carte
Ch'altri non fia che d'agguagliarti speri.

[7 Di Torquato Tasso]

Sonetto sopra le confine poste tra Ferraresi et Bolognesi l'anno 1579.

S'empia cagion de' nostri antichi affanni
Tuo mio fervendo in quest'e in quella parte
Ne i confini accendea, Megera e Marte
Per meta e spazio indegno e dati danni,

Squarciato ne portava il petto e i panni
Il donno e il servo, e con la solit'arte
Il togato vendea menzogne e carte
Indarno consumando i mesi e gli anni.

Alfin giustizia e pace aprendo un giorno
Dopo tenebre tante almo e sereno
A bearne dal ciel duo nominaro,

L'uno d'alta virtude ed ostro adorno,
Di valor l'altro, e i termini fermaro
Al Tebro cari, al Po giocondi, al Reno.

[8 Di Torquato Tasso]

Quando il Po entrò in Ferrara del 1592.

Se quelle genti, o Po, timide rendi
Ch'han de' più forti di per tutto 'l grido
Anzi la lor' città, m'è ferreo nido
Ad ogni moto tuo sì forte offendi.

Chi non vede che 'l titol regio prendi
Tra tutti i fiumi che ben nel tuo lido
Trenta d'essi ti seguon per lor fido
Duce real ch'al mar con lor t'estendi.

Onde si vede ben l'alto valore
Tuo, che supera quel delle salse onde
U' fu l'intrepido Icaro sepolto,

Poiché Fetonte non senza pallore
Fulminato da Giove in le tue sponde
Lì caramente fu da te raccolto.

[9 Di Torquato Tasso]

Di Torquato Tasso

Questa terrena ed infiammata cura,
Padre del ciel, che 'l ver di nebbie adombra
Volgi in foco celeste, e spegni l'ombra
Che 'l tuo lume divin mi vela e fura.

Tu vedi ben di che letale e impura
Fiamma con un sol guardo Amor m'ingombra,
Scaccia dal cor l'empio tiranno e sgombra
Col tuo lume vital quest'empia arsura.

Che se tant'arse l'alma ai raggi suoi
Tra le nubi d'un volto ottuso e spenti
Che fia, se 'l vero sol la scorge e infiamma?

Signor, l'esca mortal de' sensi ardenti
Intepidisci e purga tu, che puoi
Trae d'immonda favilla eterna fiamma.

[10 Di Torquato Tasso]

Alla signora ...

Io son, Tiresia, del piacere altrui
E del vostro piacere giudice esperto,
Ch'ora son uomo, e donna un tempo fui,
E del giudicio ebbi il castigo e 'l merto.
Né cieco son, come rassembro a vui,
Però che ho l'occhio interno al vero aperto.
Questa è, Manso, mia figlia e cara scorta
E Giove è suo e 'l sacro augello il porta.
E conduciamo a le famose rive
Un gentil cavalier fra gli altri erranti,
Donne leggiadre, anzi terrene dive,
Per riprovar gli altrui superbi vanti,
Perché quanto il sol gira oggi non vive
Fede maggior tra valorosi amanti,
E Venere l'affida, e insieme il figlio
Ond'egli spera uscir d'ogni periglio.
Ha gigli e rose, e bei rubini ed oro,
E due stelle serene e mille raggi
Il bel volto purpureo e bianco viso
E la sua primavera è suo tesoro,
E gemme i vaghi fiori e i lieti maggi
Lucide fiamme son di paradiso;
Ma il più bel pregio è la virtù de l'alma
Ch'è di sé stessa a voi corona e palma.
La natura v'armò, bella guerriera,
E i guardi sono strali, e nodi i crini,
E le due chiare luci ambo facelle,
E in vostro campo e ne la prima schiera
L'onor, la gloria, e sono lor vicini
Gli alti costumi e le virtuti anch'elle
Et un diaspro intorno il cor v'ha cinto
E voi sete la duce, Amore il vinto.

[11 Di Torquato Tasso]

All'illustrissimomo cardinale Albano.

Mente canuta assai prima del pelo,
Pieno di maestà, sereno aspetto,
Cui non perturba mai soverchio affetto,
Né ti nasconde il ver sotto alcun velo.

Santo amor de la fede e santo zelo,
Di morte sprezzator; costante petto,
Lingua che ben comparte alto concetto,
ALBAN, son doni a te dati dal cielo.

E s'uom s'avanza per umana cura
Tu gli accresci così, che Roma pote
Solo capirti, o fortunato vecchio,

E Roma in sé t'esalta, e 'n lei più note
Son tue virtuti, a cui far bella e pura
Io quest'alma vorrei, com'a mio specchio.

[12 Di Torquato Tasso]

In morte della signora Ginevra Teodola.

Gentilezza di sangue, animo adorno
D'ogni più grazïoso, alto costume,
Che spargeva per gli occhi un chiaro lume
Di sua bellezza et illustrava intorno.

Fer' dolce invidia un tempo e dolce scorno
A chi l'un pregio e l'altro aver presume
Sin che spiegasti al ciel l'eterne piume
Da la prigione ove facei soggiorno.

Ed or Forlì, che fece a l'alma bella
Il carcer vago, alle tue care membra
Orna piangendo la dolente tomba,

Ginevra, e de' tuoi merti ei si rimembra,
E l'orba madre tua nel pianto appella
Col nome stesso che per te rimbomba.

[13 Di Alessandro Bovio]

Del Bovio Sereno Academico sopra il poema heroico di Torquato Tasso.

Mentre ch'aspira a nove prede Amore
E spiega a l'aria il volo, e intorno gira
Sovra l'altiero Po si ferma, e mira
Quasi presago di novello onore.

Ivi s'asside e sparge arabo odore
A l'onde, ai campi, e 'l bel paese ammira,
E fra sé dice: Apollo ha qui la lira
Riposta e l'alto suo santo furore.

A queste voci mormorando l'acque
Risposer liete: È ben felice il loco
Ove tu sel, poi che di te l'onori.

Ma non felice men poi che 'l tuo foco
Canta il gran Tasso, che d'eterni onori
Cinse Goffredo. Amor sorrise e tacque.
 
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

La lapida sur portone

Post n°777 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La lapida sur portone
 
Io so' er padron de casa e avrebbe er dritto
De commannà', ma invece nossignora: 
Ma da 'sto giorno in poi, per dina-nora, 
A l'anquilini illustri nu' j'affitto.

Quanto vie' er municipio zitto zitto 
Me te schiaffa 'na lapida de fora, 
Perché da me c'è stata 'na pittora, 
E indovinece un po' quer che cià scritto?

"Qui ciabbitò la groria de le grorie, 
La pittora Guazzetti, brava assai,
Onesta donna... "  co' tant'artre storie.

Però ciamanca er mejo: a l'iscrizzione
S'è scordato de di' che la citai 
Perché non me pagava la piggione.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (1-29)

Post n°776 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXIX

Invidia, superbia e avarizia 
vedea moltiplicar tra’ miei figliuoli 
piú, quanto piú cresceva in lor divizia: 
per ch’io di gravi e di cocenti duoli, 
ch’apparver poi, giá m’ero indovina, 5 
come per vento il tempo stimar suoli. 
Ma prima che sentissi tal ruina, 
sopra ’l Rodano Mario i Galli e i Cibri 
distrusse e la lor gente feminina. 
E fenno contro a me, per viver libri, 10 
insieme compagnia Giugurta e Bocco, 
come tu puoi veder per molti libri. 
E, dopo piú miei danni, ch’io non tocco, 
Mario, vincendo, li fece tornare 
per forza in ver Numidia e nel Morocco. 15 
Vidi preso Giugurta incarcerare, 
che detto avea di me assai giá bene: 
ch’i’ a vender fosse, pur chi comperare. 
De’ due Metelli parlar mi convene, 
perché l’un di Sardigna triunfai, 20 
di Tracia l’altro, dopo molte pene. 
Niun de’ miei per suo valor giá mai 
con gente avea passato monte Toro, 
quando Servilio n’ebbe onore assai. 
Del monte Rodopeo ancora onoro 25 
Scribonio con ciascuno suo compagno, 
che di lá pria ne portâr gran tesoro. 
Ma tanto, lassa!, del mio mal mi lagno, 
al ricordo che la saga vestio, 
che gli occhi e ’l volto di lagrime bagno. 30 
Vero è ch’apresso, pensando com’io 
mi rimisi la toga, mi conforto 
e Cesar lodo qui con gran disio. 
De la gran guerra ancor memoria porto, 
la qual durò intorno di trent’anni 
con Mitridate, che dal figlio è morto. 
Chi ti potrebbe dire i molti danni, 
chi ti potrebbe dir la lunga spesa, 
chi ti potrebbe dire i gravi affanni, 
ch’allor soffersi per tanta contesa? 40 
Certo non so, ma per fermo ti conto 
ch’al fin l’onor fu mio di quell’impresa. 
I Luculli, che passaro Ellesponto, 
qui convien ch’a la mente ti riduca, 
perché ciascuno al mio onor fu pronto. 45 
E come il serpe esce fuor de la buca 
nel sol del Cancro, con la gola aperta, 
e l’occhio ha tal, che par carbon che luca, 
tal Saturnino uscio con la testa erta 
e gli occhi accesi al mal, fuor del mio seno, 50 
e mosse quel, ch’io fui presso a diserta. 
Otriaca fu Mario al suo veleno 
e a quello di ciascuno, che si mosse 
per seguitare il suo mal volto freno. 
Sempre la ’nfermitá, che sta ne l’osse, 55 
perché si cela è piú pericolosa 
che quella in che si veggion le percosse. 
E perché allor la mia era nascosa, 
dubitava sí forte de la vita, 
quanto giá mai di alcun’altra cosa. 60 
E pensa s’i’ dovea stare smarrita, 
ché per annunzio, credo, fuor del pane 
spicciò il sangue qual d’una ferita. 
E lassar l’uom fuggire al bosco il cane, 
la terra aprire e fuor gittar la fiamma 65 
veduto fu e altre cose strane. 
Silla crudel, dei qual mi credea mamma, 
per sua invidia con Mario prese briga, 
che diece anni durò e non men dramma. 
Ahi, lassa!, come ’l pianto il volto riga, 70 
quando ricordo il triunfar di Mario 
e quanto giá per me portò fatiga! 
E poi penso che sí, per lo contrario, 
la fortuna contro a Silla gli offese, 
che dal bene al suo mal non so divario. 75 
Dire non so quel duol, ch’allor discese 
sopra il mio sangue, né credo sia lingua 
che far potesse il gran danno palese. 
Passato questo e fatta un poco pingua, 
ordinò Catellina la gran giura, 80 
la qual Sallustio par che chiar distingua. 
Qui soffersi io gran pena e gran paura 
e se non fosson, piú sarebbe stata, 
Tullio e Caton, che preson di me cura. 
Cosí, come odi, una e altra fiata 85 
per li tre vizi, ch’io ti dissi dianzi, 
mi vidi lagrimosa e sconsolata. 
E però quale intende a grandi avanzi, 
o Signore o Comun, sempre convene 
partirli dal suo cuore innanzi innanzi. 90 
Or come sai che per natura avene 
che ’l dolce si conosce per l’amaro, 
la notte per lo dí e ’l mal dal bene, 
cosí per le virtú, che son contraro 
di questi vizi, avièn che l’uomo sale 95 
ispesse volte in luogo degno e caro. 
Quasi in quel tempo, ch’i’ stava sí male, 
in vèr levante mandai io Pompeo, 
d’animo forte, franco e liberale. 
Lá vinse il Turco, l’Armino e ’l Giudeo, 100 
quello d’Egitto e quel di Babilona, 
Albania e Siria e per mar ciascun reo. 
E tanto fece per la sua persona, 
che d’Asia e d’Europa prese e mise 
una gran parte sotto mia corona, 105 
e Tolomeo fe’ re, che poi l’uccise.

 
 
 

La strega

Post n°775 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La strega

- Pe' fà le carte quanto t'ho da dà?
- 'Na lire. - Ecco la lira: ma però
Bada che m'hai da dì la verità.
- Me fo be' maravia ve la dirò.

Voi ciavete 'n amico che ve vò'
Imbrojà ne l'affari. - Nun po' sta'
'Na quar vorta l'affari nu' li fo.
- Vostra moje v'inganna. - Ma va' là:

So' vedovo dar tempo der cuccù!
- V'arimmojate. - Levete de qui,
Ce so' cascato e nun ce casco più!

- Vedo 'i 'sta carta un certo nun so che...
Ve so stati arubbati... - Oh questo sì:
Li venti sordi che t'ho dato a te.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

La Bella Mano (051-060)

Post n°774 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LI

Soccorri, o mio conforto et vera pace,
Soccorri, ch'io son giunto dal martire:
La doglia è sì nel colmo, che più gire
Nanzi non puote omai, se non mi sface.

O d'ogni mia salute sol verace
Porto, ove a forza mi convien fuggire,
Se campar voglio vita, che al perire
Giunta la veggio, sì come altrui piace.

Ma se di tanto mal pietà giamai
Aver da te si debbe, a che pur guardi?
Provedi alla virtù, che è stanca et lassa.

A che, dolce mia fiamma, a che pur tardi?
Le lagrime m'abondan tanto omai,
Che il troppo pianto a me pianger non lassa.

LII

Giorgio, se amore altro non è che fede,
Accesa in speme d'un desir perfetto,
Crescer dee tanto l'amoroso affetto
Quanto l'un degli amanti all'altro crede.

Or dunque se è così, donde procede
Che senza gelosia non è diletto?
Come la fe' s'accorda co 'l sospetto
Nell'aspettata spene di mercede?

Come esser può che d'un sì fiero errore
Nasca sì dolce assentio di martiri,
Di fede quindi et quindi di paura?

Et di cagion così contrarie al cuore
La dilettosa febbre ne s'aggiri,
Che fredda et calda gli animi ne fura?

LIII

Ben sei, crudel, contenta omai che vedi
Come io so' avolto nel tenace visco:
Arde il mio petto, e il viso impallidisco,
E il core, ove scolpita ognior mi sedi.

Ben sei, crudel, contenta: et che più chiedi,
Se pur dinanzi a te venir n'ardisco:
Vedendo l'ombra lasso io non m'arrisco
Passar su l'orme dei tuoi santi piedi.

Fera selvagia di te stessa vaga,
Ecco la carne et l'ossa, ecco, la vita
Nelle man strette, come vuoi, tu porti.

Rinfresca nel cor mio l'antica piaga,
Sì che una volta avanzi la ferita,
Che prova ciascun giorno mille morti.

LIV

Se fusse mio destino, o gran valore
Di mie crudeli stelle, o qualche inganno,
Che i tuoi begli occhi sì trattato m'hanno,
Non so, ma sia chi può, sel vuole Amore.

Usa mia libertà come signore
Grato nel servo, non come tiranno;
Vinca tua crudeltade il lungo affanno,
Miei prieghi, e i miei lamenti, e il gran dolore.

Né prender tal vaghezza di mia doglia,
Che non ti fia più caro il piacer mio;
Che tuo sia il danno, quando Amor m'uccida:

A me fia gratia, che di qui mi scioglia,
Se ben morendo, more quel disio,
Che ciascun giorno a più dolor mi guida.

LV

Io piango spesso, et meco Amor talvolta,
Che perde tante imprese et tanti assalti,
Seguendo ognor per aspri luoghi et alti
La fera, che sì ardita in lui si è volta.

Veggiola ad ora ad or sì pronta et sciolta,
Che avanza il mio Signore a sì gran salti;
E il cor d'un marmo, e gli occhi ha di duoi smalti
Che i suoi lamenti e i miei sì poco ascolta.

Talora al trapassar d'un verde colle
L'occhio la perde, et poi veggio posarla,
Sì che or la giungo, or subito m'avanza:

Et quanto più dagli occhi miei si tolle,
Tanto più il gran disio di seguitarla,
Et di voltarla cresce la speranza.

LVI

Prima vedrem di sdegno un cor gentile
Al tutto scemo, e 'l sol corcar là, donde
Ne mena il novo giorno, et fiori et fronde
Morranno per le piagge a mezo aprile.

Ch'ognior non segua l'angoscioso stile
Et brame l'ombra delle trecce bionde,
Ove per consumarme amor nasconde
Il foco et l'esca, e 'l sordo suo fucile,

Et che 'l cor duro et la gelata mente
De chi in un punto mi fa vivo et morto,
Non sia tal sempre in me quale esser suole:

Così mia pace et mia speranza ha[n] spente
Questa malvagia, onde adtendea conforto,
Malvagia a chi il mio mal sì poco dole.

LVII

Prima vedrem le stelle a mezo il giorno,
Et poi levarsi innanzi l'alba il sole,
Vedremo di fioretti et de viole
Quando più forte inverna, il mondo adorno:

La luna pieno l'uno et l'altro corno
Avrà nel tempo, quando scemar vole,
Natura resterà da quel che sole,
E i Cieli ad uno ad uno d'andar dattorno,

Che questa fera, che al fuggir m'avanza
Impari aver pietà del pianger mio,
Ch'è fatta sorda alli miei giusti prieghi,

Né ch'io per tutto ciò quel gran disio
Dal cor divelli, et scacci la speranza
Che par ch'ogni mia pace et ben me nieghi.

LVIII

Né valle, che di miei sospir sì ardenti
Calda non sia: né sì riposto loco,
Né sì chiuso sentiero, ove quel roco
Mio sempre mormorar già non si senti:

Né sì selvaggie, né sì aspre genti
Veggio, a cui sia celato il mio gran foco:
Né parte al mondo, dove assai o poco
Pietà non s'aggia de miei duri stenti,

Et questa sorda, che ben mille volte
Versar mi vede lacrime sì calde
Del fonte, che per gli occhi miei risorga,

O che s'infinga, o tema, o non m'ascolte,
O che di me pietà mai non la scalde,
Par che di tanto mal non se n' accorga.

LIX

Arder la notte, et agghiacciare al sole,
Et trar sospir dal fondo del mio petto,
Et versar sempre lacrime a diletto,
Interrompendo il pianto con parole;

Tener mia voglia ardente ognior qual sole,
Cercando morte co 'l maggior mio affetto,
Aver me stesso più ch'altri a dispetto,
Seguire il mal disio come Amor vole,

Questo è il mio stato et fu, dolce mia pena,
Caro mio stento, et fiamma mia gentile
Dal giorno che mal vidi gli occhi vostri.

Onde procede il duol, che al fin mi mena,
O dura et rigida alma in atto umile,
Che a torto sì crudel ver me ti mostri.

LX

O Dio, ch'al vento perdo le parole,
Et cerco l'orso umiliar co 'l pianto,
Misero, con la morte allato incanto
L'aspido sordo che ascoltar non vuole,

Al raggio d'un sfrenato et vivo sole
Mi specchio: et di Sirena il dolce canto
Mia vita ha tratto in fondo, et so ben quanto
Poco a costei del mio perir gli duole!

Et vo seguendo ognior Diana in traccia
Di selva in selva, et d'uno in altro poggio.
A cui dei miei sospir nulla gli cale,

Per far pietoso il sasso, ove io m'appoggio,
Che più m'infiamma, quando lui più agghiaccia
D'un foco, che il cor m'arde, et non fa male.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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