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Messaggi del 14/12/2014

Rime di Cino Rinuccini (16)

Post n°824 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME di M. CINO RINUCCINI fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

49

Oimè, lasso, che già fuor si smonda
Del miser corpo l’alma,
Con sì gran salma - ch’al tutto m’affonda

Più ch’altro provo e sento
Le cocenti faville,
Amor, ch’a’ tuoi suggetti fai sentire,
Onde sempre pavento
Che ’l dolor che distille,
Non sia cagione a me di reo morire.
Mostrale adunque del tempo il fuggire,
Sicch’io per lei non manchi,
Anzi che imbianchi - la sua treccia bionda.

50

S’i’ sono stato sempre sotto il giogo
Della tua signoria,
Perchè tormenti sì la vita mia?
    
Il fedel servo dal suo car signore
Spera quando che sia rimunerarsi;
Dunque, Amor, tu che vedi il mio dolore
E sai ben la cagion perch’io tutt’arsi,
Inclina i crudeli occhi ad umiliarsi,
Ne’ quai s’annida e cria
Tutto ’l conforto di mia vita ria.
   
51

Chi vuol veder quanto potè mai ’l cielo
Miri costei sotto il candido velo:
E vedrà sì vezzosa leggiadria
    
Con gentilezza et adorna biltate,
Che dirà; non fu mai, nè è, nè fia
Tal miracol, qual è in quest’etade.
    
Adunque, Amor, che sai mia fedeltate,
Ferisci lei col tuo dorato stelo.
   
52

Le varie rime ch’Amore ha dittate
Nell’alma trista che or signoreggia,
Chieggion perdon, se mai uom savio leggia,
Quanta è stata del cor la vanitate.

E a voi amanti, omai gridan pietate,
Perchè compatiendo Amor provveggia
Al mio stato, che non pur pareggia
Ma d’amar passa ogn’altro in veritate.
 
Fra questi van pensier tornami a mente
Mio viver corto, ed anco il sommo Sire,
Il qual ne vede qui dall’alto cielo;

Perch’io ’l priego col cor divotamente,
Ch’io sia contrito al fin del mio partire
Quando si squarcerà dall’alma il velo.


Qui finiscono Canzoni et Sonetti di Cino di Messer Francesco Rinuccini.

 
 
 

Terze Rime 20 (2)

Post n°823 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XX (seguito)

Della signora Veronica Franca

[Lamenta la durezza d'un uomo, che non la riama e che, mentr'ella di notte va a casa sua per trovarlo, è assente, forse presso un'amica più fortunata di lei. Spera tuttavia corrispondenza dall'animo gentile di lui; altrimenti ne morrà.]


Oimè! che, d'altra standosi nel letto,
me lascia raffreddar sola e scontenta,
colma d'affanni e piena di dispetto:
altra ei fa del suo amor lieta e contenta,
e del mio mal con lei fors'ancor ride,
che vanagloriosa ne diventa.
Quanto per me si lagrima e si stride,
dolce concento è de le lore orecchie,
da cui 'l mio amor negletto si deride.
Così convien che sempre m'apparecchie
a soffrir nuovi di fortuna colpi,
e che 'n novello strazio alfin m'invecchie.
Né però avien che del mio affanno incolpi
chi più devrei; ned in mercé mi valse,
quanto in ciò più credei, che più 'l discolpi.
Oimè, che troppo duro Amor m'assalse,
poi che, per farmi di miseria essempio,
m'insidia ancor con sue speranze false.
Da un canto il certo mio danno contempio;
e, perché 'l duol più nuoccia meno atteso,
di speme al van desio conforme m'empio.
Non fosse almen da voi medesmo offeso
l'affetto uman del gentil vostro seno,
ne l'essermi il soccorso, oimè, conteso.
D'ogni mia avversità mi duol via meno,
che di veder ch'a voi s'ascriva il fallo
di quanto in amar voi languisco e peno.
Ben sapete, crudel, che 'l mondo udrallo,
e con mia dolce ed amara vendetta
d'ogn'intorno la fama porterallo.
Né così vola fuor d'arco saetta,
com'al mio essempio mosse fuggiranno
d'amarvi a gara l'altre donne in fretta;
e, quanto del mio mal pietate avranno,
tanto, dal vostro orgoglio empio a schivarsi,
caute a l'esperienzia mia saranno.
Oh che pregiata e nobil virtù, farsi
anco amar in paese sconosciuto,
col benigno e pietoso altrui mostrarsi!
e quante volte è in tal caso avenuto
che de' meriti altrui senz'altro il grido
d'uom ignoto ave 'l cor arder potuto!
Ond'io, che di mie doti non mi fido,
pensando che voi sète uom degno e chiaro,
da me la speme in tutto non divido;
anzi, nel colmo del mio stato amaro
lusingando me stessa, attender voglio
al mio dolor da voi schermo e riparo,
poi che di grand'onor il mio cordoglio
esser vi può, se pronto a sovenirmi
sarete, mentre a voi di voi mi doglio:
se non, vedrete misera morirmi.

 
 
 

Terze Rime 20

Post n°822 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco - Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913
XX
Della signora Veronica Franca
[Lamenta la durezza d'un uomo, che non la riama e che, mentr'ella di notte va a casa sua per trovarlo, è assente, forse presso un'amica più fortunata di lei. Spera tuttavia corrispondenza dall'animo gentile di lui; altrimenti ne morrà.]

Questa quella Veronica vi scrive,
che per voi, non qual già. libera e franca,
or d'infelice amor soggetta vive;
per voi rivolta da via dritta a manca,
uom ingrato, crudel, misera corre
dove 'l duol cresce e la speranza manca.
Con tutto questo non si sa disciôrre
dal vostro amor, né può, né desia,
e del suo mal la medicina aborre;
disposta o di trovar mente in voi pia,
o, del servirvi nell'acerba impresa,
giunger a morte intempestiva e ria.
èenza temer pericolo od offesa,
a la pioggia, al sereno, a l'aria oscura
vengo, da l'alma Citerea difesa,
per veder e toccar almen le mura
del traviato lontan vostro albergo,
per disperazion fatta sicura.
Per strada errando, gli occhi ai balconi ergo
de la camera vostra; e fuor del petto
sospiri e pianto d'ambo i lumi aspergo.
Di buio ciel sotto povero tetto,
de la sorte mi lagno empia e rubella,
e del mio mal, ch'a voi porge diletto.
senza veder con cui dolermi stella,
ne le tenebre fisi i lumi tengo,
che fùr duci d'Amor ne la via fella;
e, poi ch'al terren vostro uscio pervengo,
porgo i miei preghi a l'ostinate porte,
né di basciar il limitar m'astengo.
— Deh siatemi in amor benigne scorte;
apritemi 'l sentier del mio ben chiuso,
del notturno mio error per uso accorte.
Di letal sonno e tu, custode, infuso,
desto al latrar de' tuoi vigili cani,
non far il prego mio vano e deluso:
deh, pietoso ad aprirmi usa le mani,
così i ceppi servili aspri dal piede
del continuo ti stian sciolti e lontani! —
Ma ch'è quel, che da me, lassa, si chiede?
— Vattene in pace — il portinaio dice, —
ché le notti il signor qui non risiede;
ma, del suo amor a far lieta e felice
un'altra donna, con lei dorme e giace,
e tu invan qui ti consumi, infelice.
Vattene, sconsolata; e, s'aver pace
non puoi, pur con saldo animo sopporta
quel ch'al destino irrevocabil piace. —
Talor, per gran pietà di me, la porta
geme in suon roco, come quando è mossa,
nei cardini, a serrarsi o aprir, distorta;
ed io, quindi col piè debil rimossa,
ne le braccia di tal, che m'accompagna,
del viver cado poco men che scossa.
Il suo pianto dal mio non discompagna
quel mio fedel, ch'è meco, e d'un tenore
meco del mio martìr grida e si lagna.
Dure disagguaglianze in aspro amore,
poi ch'a chi m'odia corro dietro, e fuggo
da chi de l'amor mio languisce e more!
E così ad un me stessa ed altrui struggo,
e 'l sangue de le mie e l'altrui vene
col mio grave dolor consumo e suggo:
benché da l'altro canto le mie pene
forse consolan altra donna, e 'l pianto
con piacer del mio amante al cor perviene.
Ma chi puote esser mai spietato tanto,
che s'allegri, se pur non può dolersi,
lacero il sen vedermi in ogni canto?
Lassa, la notte e 'l dì far prose e versi
non cesso in varia forma, in vario stile,
sempre a un oggetto coi pensier conversi;
e s'ha quest'opre il mio signor a vile,
men mal è assai, che se 'n mia onta e in strazio
leggerle con colei ha preso stile.
Per me lieto non è di tempo spazio,
e di quel, dond'a me si niega il gusto,
altra si stanca, e fa 'l suo desir sazio.
Quant'è per me difficultoso, angusto
quel ch'ad altri è camin facile e piano !
Colpa d'Amor iniquitoso, ingiusto.
Ma da la crudeltà se 'l gir lontano
ad uom nobil s'aspetta veramente,
e l'aver facil alma in petto umano;
se, quanto altri è più chiaro e più splendente
per natura, per sangue e per fortuna,
chi l'ama ridamar deve egualmente;
voi 'n cui 'l ciel tutte le sue grazie aduna,
dovete aver pietà di me, che v'amo
sì che 'n questo non trovo eguale alcuna.
E, quanto più ne' miei sospir vi chiamo,
d'esser udita (a dir il vero) io merto,
e quanto più con voi conversar bramo.
Non è d'ingegno indizio oscuro e incerto,
c'ha gusto de le cose più eccellenti,
conoscer e stimar il vostro merto.
Deh sentite pietà de' miei tormenti,
se de le tigri non sète del sangue,
e se non vi nudrOr l'idre e i serpenti.
Ne la mia faccia pallida ed essangue
fede acquistate de la pena cruda,
onde 'l mio cor innamorato langue.
Né anch'io d'orsa, che 'n cieco antro si chiuda,
nacqui; né l'erbe stesa mi nudrOro,
come vil bestia, in su la terra ignuda;
ma tai del mio buon seme effetti uscOro,
ch'alcun non ha da recarsi ad oltraggio,
se del suo amor io lagrimo e sospiro.
Ciò dir basti parlando con uom saggio,
ché far con voi per questa strada acquisto
nel mio pensiero intenzion non aggio;
ma del mio stato ingiurioso e tristo
cerco indurvi a pietà con le preghiere,
e di sospir col largo pianto misto.
Ch'al segno de le doti vostre altiere
alcun raro in me pregio non arrive,
questo ogni ragion porta, ogni dovere;
ma quel, che dentro 'l petto Amor mi scrive
con lettre d'oro di sua man, leggete,
se 'l mio merto ha con voi radici vive.
L'obligo de l'amante vederete,
d'esser grato a l'amor simile al mio,
se con occhio sottil v'attenderete.
Ma né con questo voglio acquistarvi io:
solo a l'alta pietà del mio martìre
farvi per cortesia benigno e pio.
Il mio continuo e misero languire,
l'amorose querele, ond'io vi prego,
vi faccian del mio duol pietà sentire:
gran forza suol aver di donna prego
negli animi gentil, ch'ancor non ame;
ed io, d'amor accesa, a voi mi piego.
Prima che 'l duol di me si sazi e sbrame,
e mi riduca in cenere quest'ossa,
date ristoro a le mie ardenti brame;
porgete alcun rimedio a la percossa,
che d'aspra angoscia versa un largo fonte,
e mi spolpa, e mi snerva, e mi disossa;
scemate il grave innaccessibil monte
di quei, ch'amando voi, sostengo affanni,
con voglie in tutti i casi a soffrir pronte;
movetevi a pietà de' miei verdi anni,
onde, da la virtù vostra sospinta,
cado d'Amor nei volontari inganni.
Ed a morir per voi sono anco accinta,
se d'utile e d'onor esser vi puote
che per voi resti la mia vita estinta.
Grato suono a l'orecchie mie percuote,
che non sosterrà un uom sì valoroso,
d'effetto far le mie speranze vuote.
Da l'aspetto sì dolce ed amoroso
non debbo sospettar di morte o pena,
né d'altro incontro a me grave e noioso.
Ma chi, fuor d'uso, a ben sperar mi mena?
Lassa, e pur so che sorge 'l nembo e nasce
sovente in mezzo a l'aria più serena;
e così sotto un bel volto si pasce
spesso un cor empio degli altrui martìri,
qual che tra fior vedersi angue non lasce.
Ma, se 'n voi non han forza i miei sospiri,
a la nobiltà vostra, a la virtute
volgete con giudicio i lenti giri.
Non debbo disperar di mia salute,
s'ai costumi gentil vostri ho rispetto,
ed a le mie profonde aspre ferute;
ma poi di quel, che m'incontra, l'effetto
di tormento maggior, di maggior doglia
mi dà certezza ognor, non pur sospetto:
benché d'umil trionfo indegna spoglia
fia la mia vita, se, per troppo amarvi,
dal vostro orgoglio avien che mi si toglia.
Ma, s'al mio mal non puote altro piegarvi,
l'esser io tutta vostra mi conceda
ch'io possa almeno in tanto duol pregarvi:
forse fia che l'orecchie e 'l cor vi fieda
il mio cordoglio, assai minore espresso
di quel ch'al ver perfetto si richieda.
Tanto a me di vigor non è concesso,
ch'esprimer di quel colpo il dolor vaglia,
ch'io porto ne le mie viscere impresso:
in dir sì com'Amor empio m'assaglia,
sì come oscura la mia vita ei renda,
lo stil debile a l'opra non s'agguaglia.
Da voi 'l mio mal nel mio amor si comprenda,
ch'è tanto quanto amabile voi sète;
e pia la vostra man ver' me si stenda:
quella, in aiuto, man non mi si viete,
che 'l nodo seppe ordire al duro laccio
de la gravosa mia tenace rete;
e 'l volto, onde qual neve al sol mi sfaccio,
che m'invaghìo di sua bella figura,
soccorra a quel dolor, ch'amando taccio.
D'alta virtù la divina fattura,
che 'n voi s'annida come in dolce stanza,
il cui splendor m'accende oltra misura,
l'animo di piegarvi abbia possanza
sì che in tanto penar mi concediate
alcun sostegno di gentil speranza.
Non dico che di me v'innamoriate,
né che, com'io per voi son tutta fiamma,
d'un amor cambievole m'amiate:
del vostro foco ben picciola dramma
ristorar può quell'incendio crudele,
che, s'io cerco ammorzarlo, e più m'infiamma.
Amor, s'ho con voi merto, vi rivele;
e le parti, c'ho in me di voi non degne,
agli occhi vostri dolce offuschi e cele,
sì che, prima ch'a morte amando io vegne,
quella mercé da voi mi si conceda,
che sgombri 'l pianto ond'ho le luci pregne.
Lassa, che s'un nemico a l'altro chieda
al suo bisogno aiuto, ei gli vien dato,
ché la virtù convien che gli odii ecceda;
ed io creder devrò ch'aspro ed ingrato
esser mi debba il mio signor diletto,
perch'ei sia forse d'altra innamorato?

(continua)

 
 
 

Terze Rime 19

Post n°821 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XIX

Della signora Veronica Franca

[Ad un uomo di religione, pel quale provò in gioventù un amore non dichiarato, Veronica manifesta, ora ch'egli è giunto all'età matura, i suoi sentimenti, mutati in fervida amicizia, e lo prega di benevola e cordiale corrispondenza.]


Quel che ascoso nel cor tenni gran tempo

con doglia tal, ch'a la lingua contese
narrar le mie ragioni a miglior tempo;
quelle dolci d'amor amare offese,
che di scovrirle tanto altri val meno,
quanto ha più di far ciò le voglie accese;
or, che la piaga s'è saldata al seno
col rivoltar degli anni, onde le cose
mutan di qua giù stato e vengon meno,
vengo a narrar, poi che, se ben noiose
a sentir fùro, ne la rimembranza
or mi si volgon liete e dilettose.
Così spesso di far altri ha in usanza,
dopo 'l corso periglio, e maggiormente
se d'uscirne fu scarsa la speranza.
Or sicura ho 'l pericolo a la mente,
quando da' be' vostr'occhi e dal bel volto
contra me spinse Amor la face ardente
ed a piagarmi in mille guise vòlto,
dal fiume ancor de la vostra eloquenza
il foco del mio incendio avea raccolto.
L'abito vago e la gentil presenza,
la grazia e le maniere al mondo sole,
e de le virtù chiare l'eccellenza,
fùr ne la vista mia lucido sole,
che m'abbagliár e m'arser di lontano,
sì ch'a tal segno andar Febo non suole.
Ben mi fec'io solecchio de la mano,
ma contra sì possente e fermo oggetto
ogni riparo mio fu frale e vano:
pur rimasi ferita in mezzo 'l petto,
sì che, perduto poscia ogni altro schermo,
arder del vostro amor fu 'l cor costretto:
e con l'animo in ciò costante e fermo
vi seguitai; ma mover non potea
il piede stretto d'assai nodi e infermo.
Tanta a me intorno guardia si facea,
che d'assai men dal cielo a Danae Giove
in pioggia d'oro in grembo non cadea.
Ma l'ali, che 'l pensier dispiega e move,
chi troncar mi poteo, se mi fu chiuso
al mio arbitrio l'andar co' piedi altrove?
Pronto lo spirto a voi venìa per uso,
né tardava il suo volo, per trovarsi
del grave pianto mio bagnato e infuso.
E bench'al mio bisogno aiuti scarsi
fosser questi, vivendo mi mantenni,
come in necessità spesso suol farsi;
e così sobria in mia fame divenni,
ch'assai men, che d'odor, nel mio digiuno
sol di memoria il cor pascer convenni.
Così, senza trovar conforto alcuno,
la soverchia d'Amor pena soffersi,
in stato miserabile importuno;
nel qual, ciò che i tormenti miei diversi
far non potêr, col tempo i miei pensieri
vari da quel ch'esser solean poi fêrsi.
Voi ve n'andaste a popoli stranieri,
ed io rimasi in preda di quel foco,
che senza voi miei dì fea tristi e neri;
ma, procedendo l'ore, a poco a poco
del bisogno convenni far virtute,
e dar ad altre cure entro a me loco.
Questa fu del mio mal vera salute:
così divenne alfin la mente sana
da le profonde mie gravi ferute:
il vostro andar in region lontana
saldò 'l colpo, benché la cicatrice
render non si potesse in tutto vana.
Forse stata sarei lieta e felice,
nel potervi goder a mio talento,
e forse in ciò sarei stata infelice.
La gran sovrabondanza del contento
potria la somma gioia aver cangiato
in noioso e gravissimo tormento;
e, se da me in disparte foste andato,
in tempo di mio tanto e di tal bene
infinito il mio duol sarebbe stato.
Così non vòlse 'l ciel liete e serene
far l'ore mie, per non ridurmi tosto
in prova di più acerbe e dure pene.
Ond'io di quanto fu da lui disposto
restar debbo contenta; e pur non posso
non desiar ch'avenisse l'opposto.
Da quel che sia 'l mio desiderio mosso
in questo stato, non so farne stima,
ché s'è da me quel primo amor rimosso.
Quanto cangiato in voi da quel di prima
veggo 'l bel volto! Oh in quanto breve corso
tutto rode qua giuso il tempo, e lima!
Di molta gente nel comun concorso
quante volte vi vidi e v'ascoltai,
e dal bel vostro sguardo ebbi soccorso!
E, se ben il mio amor non vi mostrai,
o che 'l faceste a caso, o per qual sia
altra cagion, benigno vi trovai;
per ch'ora in una, ed ora in altra via
di devoto parlar, con atto umano,
volgeste a me la fronte umile e pia;
e, nel contar il ben del ciel sovrano,
v'affisaste a guardarmi, e mi stendeste,
or larghe or giunte, l'una e l'altra mano:
ed altre cose simili faceste,
ond'io tolsi a sperar che del mio amore
cautamente pietoso v'accorgeste.
Quinci s'accrebbe forte il mio dolore
di non poter al gusto d'ambo noi
goder la vita in gioia ed in dolzore.
Mesi ed anni trascorsero da poi
ond'a me variar convenne stile,
com'ancor forse far convenne a voi.
Or vi miro non poco dissimìle
da quel che solevate esser davante,
de l'età vostra in sul fiorito aprile.
Oh che divino angelico sembiante,
quel vostro, atto a scaldar ogni cor era
d'agghiacciato e durissimo diamante!
Or, dopo così lieta primavera,
forma d'autunno, assai più che d'estate,
varia vestite assai da la primiera.
E, se ben in viril robusta etate,
l'oro de la lanugine in argento
rivolto, quasi vecchio vi mostrate;
benché punto nel viso non s'è spento
quel lume di beltà chiara e serena,
ch'abbaglia chi mirarvi ardisce intento.
Questa con la memoria mi rimena
del vostro aspetto a la prima figura,
ond'ebbi già. per voi sì crudel pena;
e, mentre 'l pensier mio stima e misura,
e pareggia l'effigie di quegli anni
con questa de l'età d'or più matura,
di fuor sento scaldarmi il petto e i panni,
senza che però 'l cor dentro si mova,
per la memoria de' passati affanni.
In questo l'alma un certo affetto prova,
ch'io non so qual ei sia; se non che vosco
l'esser e 'l ragionar mi piace e giova;
e, se 'l giudicio non ho sordo e losco,
quest'è de l'amicizia la presenza,
ch'al volto ed a la voce io la conosco.
Del mio passato amor da la potenza
queste faville in me sono rimaste,
più temperate e di minor fervenza:
da queste accesa, le mie voglie caste
in quella guisa propria di voi formo,
che 'l santo Amor a cinconscriver baste.
In amicizia il folle amor trasformo,
e, pensando a le vostre immense doti,
per imitarvi l'animo riformo;
e, se 'n ciò i miei pensier vi fosser noti,
i moderati onesti miei desiri
non lascereste andar d'effetto vuoti.
Per cui convien ch'ognor brami e desiri
de le vostre virtù gustar il frutto,
e, quando far nol posso, ne sospiri.
Ma, se convien a voi cangiar ridutto,
e peregrin da noi gir in disparte,
non mi negate il favor vostro in tutto.
Basta che se ne porti una gran parte
seco la mia fortuna: in quel che resta
supplite con gli inchiostri e con le carte.
Non vi sia la fatica in ciò molesta,
poi che l'alma affannata, più ch'altronde,
quinci gioiosa si può far di mesta.
Quando siate di là da le salse onde,
vi prego con scritture visitarmi
piene d'amor che grato corrisponde:
e, volendo più a pieno sodisfarmi,
questo potrete agevolmente farlo
con alcuna vostr'opera mandarmi.
E, quand'io non sia dea d'impetrarlo,
per alcun vanto espresso che 'n me sia,
da la vostra bontà voglio sperarlo;
da la vostra infinita cortesia,
benché convien a l'amor ch'io vi porto,
che da voi ricompensa mi si dia.
E, facendo altrimenti, avreste il torto:
ond'io, per non far debil mia ragione,
del dever v'ammonisco, e non v'essorto.
èi voglion certo amar quelle persone,
da le quai noi amati si sentimo:
così la buona civiltà dispone;
e tanto importa ad amar esser primo,
che, se l'amato a ridamar non vola,
macchia ogni sua virtù d'scuro limo.
Questo è, che mi confida e mi consola:
che cader non vorrete in cotal fallo,
ch'ogni ornamento a la virtute invola.
Come bel fiore in lucido cristallo,
traspar ne le vestigie vostre esterne
lo spirto, ch'altrui rado il ciel tal dàllo:
l'alma in voi nel sembiante si discerne,
che di vaghezza esterior contende
con le virtuti de la mente interne.
Ben chi è tal, se lo specchio inanzi prende,
dilettato dal ben che 'n lui fuor vede,
a far simile al volto il senno attende;
e, mentre move per tai scale il piede,
nel proporzionar tal di se stesso,
ogni condizion mortale eccede.
Beato voi, cui far questo è concesso,
cotanto alto già. sète salito,
che nullo avete sopra, e pochi presso!
Ben quindi fate ognor cortese invito,
le man porgendo altrui, perché su monti,
di zelo pien di carità infinito;
ma tutti non han piè veloci e pronti,
sì come voi, in così ardua strada,
e voi 'l sapete, senza ch'io 'l racconti.
Ma però nulla in suo valor digrada
la vostra dignità, se in ciò s'abbassa,
per sostener chi v'ama, che non cada.
Io, sol nel primo entrar già. vinta e lassa,
il vostro aiuto di lontan sospiro
con occhi lagrimosi e fronte bassa:
volgete il guardo a me con dolce giro,
ed a la mia devozione atteso,
degnatemi d'alcun vostro sospiro.
Ciò ne la vostra assenza a me conteso
prego non sia, e del vostro ozio ancora
alcuno spazio a scrivermi sia speso:
alcuna rara e minima dimora
in quest'uso per me da voi si spenda,
poi ch'a servirvi io son pronta ad ogni ora.
Dal mio canto non fia mai che sospenda
il suo corso la penna, e che con l'alma
a compiacervi tutta non intenda.
E, se non vi sarà gravosa salma
il legger le mie lettere, vedrete
che di scrivervi spesso avrò la palma:
questa con vostra man voi mi darete,
e de l'amor in amicizia vòlto,
dagli andamenti miei, v'accorgerete.
Non tengo ad altro il mio pensier rivolto,
se non a farvi di mia fede certo,
e mostrarvi 'l mio cor simile al volto,
senza richieder da voi altro in merto,
se non che 'n grado il mio affetto accettiate,
a voi da me pien d'osservanzia offerto:
e che innanzi al partir mi concediate
ch'io vi parli e v'inchini; e, quando poi
siate altrove, di me vi ricordiate,
perch'io 'l farò con usura con voi.
Del visitarne scrivendo, non parlo,
scambievolemente intra di noi,
ché ben son certa che verrete a farlo,
questo officio gentil meco pigliando,
che 'n alcun modo io non son per lasciarlo.

Né altro: di buon cor mi raccomando.

 
 
 

Dialetto Borghese

DIALETTO BORGHESE

I

La presentazione

- Permette sora  Pia che glie presenti
Il signor De Bolè... - Tanto piacere...
Piacere è il mio, se mettino a sedere...
- Per carità, nun facci complimenti. 

- De Bolè? Dica un po'? ma so' parenti 
De quello ch'hanno fatto cavagliere? 
- No, aoma io ci ho soltanto un zio droghiere 
Che tiene la bottega a li Serpenti. 

- E lei che fa de bello? - E ch'ho da fare?...
- Ho inteso dire dalle figlie mie 
Che scrive li sonetti.,. - Ma glie pare... 

- Sì, mi ricordo al Pincio, una matina... 
- Ah! è vero: feci certe porcherie 
Dietro al ventaglio d'una signorina...

II. 

La lingua francese. 

- Lei la lingua francese l'ha studiata? 
- Un po'... Ah! el francese è una parlata scicche: 
Lei infatti guardi le persone ricche 
Che ci hanno tutti quanti 'sta parlata... 

- Ecco, io a parlà' me trovo un po' imbrogliata 
- Purquà? - Purquà me manche la praticche,.. 
- Il fottudiè de più la grammaticche,,. 
- Me muà... lo vede? Già me so' sbagliata. 

- Nel francese, se sa, ce so' l'accenti: 
Studi più meglio li vocabolari, 
E dopo parli senza complimenti.... 

- Che serve? Io me vergogno... - Ma bisogna 
Parlà' come fo io, franco... - Magari!
Io invidio a lei che non se ne vergogna!

III

Li complimenti

Me scuserà che sto cosi sciattata, 
Signora mia, non aspettavo gente : 
Lei tutta scicche, nu' glie dico gnente,., 
Come sta bene! Come s'è ingrassata!... 

Chi? Caterina? Sta da mia cognata... 
Lugrezia? E' andata a messa indegnamente... 
Quando vengon'a casa chi le sente?! 
A sapello l'avrebbero aspettata! 

Se ne va? Me saluti la sorella... 
Grazie. Sarà servita, Sissignora, 
Cercherò de venirce. Arivedella. 

Oh! S'è rotta le cianche, si' ammaita!
Caterina, Lugrezia, uscite fora, 
Che 'sta scoccia-stivali se n'è ita!

IV.

Er gatto de Lisetta. 

Ma eh! quant'è caro!? Povera bestiola,
Io me lo magno a furia de baciallo. 
Pss pss, micio, viè' qua, brutto vassallo : 
Guardate: nu' glie manca la parola? 

Lui quanno che la sera esco da scòla 
Me vie' incontro da sé senza chiamallo: 
Quann'ha freddo, la notte, pe' sta' callo. 
Me s'intrufola sott'a le lenzola: 

Guardà', guardà', si come se strufina: 
Che vòi? la trippa? Sì, bello der core. 
Adesso te la dà la padroncina. 

Io che serve? 'sto povero miciotto 
Glie vojo un bene, un bene, che, si more...
Lo scortico e ce faccio un manicotto.

V.

La svista

- Tenga el cappello, mica stiamo in chiesa... 
No grazie, non lo fo per complimento... 
Posi el bastone.... uh! che bel pomo! E' argento? 
Lo pigli in mano, sente quanto pesa?!... 

Questo è el salotto de ricevimento? 
Gli piace? - Ah! è scicche, ma chi sa che spesa!
...?? 'sta figuretta giapponesa 
...?? ccicata su' sto paravento!

Guardi 'ste tazze... - So porcellanate? 
...?? queste qui davero che so' rare:
nto so' belle! E dove l'ha comprate?

Le prese mio marito non so dove...
Dico, saranno antiche?.,. - E che glie pare!

... robba del quarantanove...

Trilussa
Tratte da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (2-09)

Post n°819 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO IX

Morto questo signor, del qual ti dico, 
Antonio Caracalla, suo figliuolo, 
(non figliuol dovrei dir, ma suo nimico) 
sette anni mi tenne in tanto duolo, 
ch’io dicea fra me: – Domiziano 5 
tornato è qui dal tenebroso stuolo –. 
Lussurioso, crudele e villano, 
avaro, malizioso e in ogni cosa 
pessimo il vidi e di volere strano. 
La sua noverca Iulia si fe’ sposa. 10 
Quando fu morto, tal piacer mi fue, 
quanto mi fosse d’alcun’altra cosa. 
Macrin fu poi, del qual l’opere sue 
un anno vidi, ché ’l figliuolo e ’l padre 
invidia uccise e qui non dico piue. 15 
Seguio un altro Antonio e se bugiadre 
non fur le lingue, tal fu e senza legge, 
che morto il vidi insieme con la madre. 
Qui dèi veder che l’uom che molto legge 
che spesso truova cosa di che gode 20 
e onde si raffrena e si corregge. 
Cosí aviène che chi ascolta e ode 
dai buon di belli asempri ed ello è tale 
che li sappia tener, ch’assai gli è prode. 
Tu odi ben sí come mal per male 
ispesse volte ricevean costoro, 
ch’eran signor d’ogni cosa mortale. 
Onde non creder né esser sí soro, 
che del bene e del mal Chi tutto vede 
a la fine non renda il suo ristoro. 30 
Costui, ch’io dico, ebbe assai men fede 
da la cintola in giú, che Macometto, 
secondo che udio e che si crede. 
E tanto fe’, che Dio l’ebbe in dispetto. 
Forse tre anni tenne la mia seggia, 35 
ché morto fu cosí com’io t’ho detto. 
Ormai è buon ch’a mia materia reggia 
e d’Alessandro ragionar la vita; 
se dritto seguir deggio l’altra greggia. 
Dico la Persia, che s’era partita 40 
de la mia signoria, io disdegnosa 
condannata l’avea ed isbandita. 
Costui, essendo Augusto, mai non posa 
in fin ch’egli ebbe con la mano ardita 
fatto vendetta di ciascuna cosa. 45 
Tredici anni fe’ meco la sua vita; 
da’ suoi fu morto in Gallia, si disse, 
di che rimasi trista e sbigottita. 
In questo tempo Origenes visse, 
che sei milia volumi fece e piue, 50 
senza le molte pistole che scrisse: 
e qual ne la scienza, cotal fue 
ne la sua vita: Ieronimo il prova, 
che lesse giá tutte le cose sue. 
Quel, che or dico, dire non mi giova: 55 
Massimiano senza il mio Consiglio 
tolse la signoria ch’era a dar nova. 
E mise la Fé nostra in tal periglio 
e per sí fatto modo la percosse, 
ch’io la vidi tremar da’ piedi al ciglio. 60 
E poi che ad acquistare il mio si mosse, 
con piú province Germania conquise, 
le quali in contro a me s’erano smosse. 
E come da costoro si divise 
e tornava di qua, trovò Pupino 65 
che col figliuolo in Aquilea l’uccise. 
Cotal qual odi fu il suo destino: 
tre anni posso dir che visse meco, 
ma ’l piú del tempo si vide in cammino. 
Ora Gordiano a la mente ti reco, 70 
che per signore apresso mi fu dato: 
sei anni tenne il mio e vissi seco. 
Costui, vinta la Persia, ov’era stato, 
con la milizia sua, pien di conforto, 
tornava a me per esser triunfato, 75 
quando da’ suoi udii ch’egli era morto. 
Ahi, cupidigia, quanti fatti n’hai, 
nel mondo, di signor morire a torto! 
Dopo costui, di cui mi dolse assai, 
a Filippo fu dato il mio tra mano, 80 
che per signor sette anni me ’l trovai. 
E nota che fu il primo cristiano 
imperatore e Ponzio fu colui 
che ’l battezzò con la sua santa mano. 
E sappi ancor ch’al tempo di costui 85 
fu l’ultimo anno che compio il millesimo, 
dico dal dí che isposata fui. 
E, se ben mi ricordo ancora ed esimo, 
tanta letizia se ne fece, ch’io 
a pena dir te ne potrei il centesimo. 90
E cosí stava allora il comun mio.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (15)

Post n°818 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

45

Tutta salute vede
Chi vede questa Dea, che dal ciel viene,
Per cui libertà a me perder conviene.

Leggiadria, gentilezza ed onestate
Seggono in lei com’ in lor proprio sito,
Con perfetta beltà: e chi la mira
Empie sì l’alma pur d’ogni bontate,
Che con vil cosa non può star unito,
Ma ’n dolcezza d’Amor sempre sospira.

Dunque l’alma che tira
Da lei ciò che quaggiù si può di bene,
Ringrazia la sua fe ch’a lei mantiene.

46

O gran signore appellato Cupido
Che Febo signoreggi, Marte e Iove
Ed ogni intelligenza che ’l ciel move;

Intelletto, virtù arte e scïenza
Prendon principio dal dorato telo,
E da Venere tua e dal suo cielo;

Te ringrazio, a cui poi servo fu’
Sentito ho ben, che mai non sentì più.

47

Qual maraviglia è questa,
Che tante volte in voi l’alma non guarda
Che di nuove bellezze il cor non arda?
    
O pargoletta scesa
Quaggiù nel mondo su dal terzo cielo
Per mostrar qui tua bellezza infinita,

Ragguarda quanta offesa
A se fa, chi e capei canuti al velo
Serba, non cognoscendo la sua vita.
    
Dipoi la sbigottita
Navicella del servo ch’è ’n tempesta,
Rimira, e la sua fe ch’a te è presta.

48

Che giova innamorar degli occhi vaghi
Di questa donna altera,
Che com più l’amo più diventa fera?

Ella si sta, signor, fuor di tua corte,
E di te beffa e di tua signoria,
E me per crudeltà conduce a morte.
Omè sosterra’ tu che questo sia?

Sua la vergogna e mio il danno fia;
Deh! fa ch’entri in tua schiera,
E se conosca il tempo innanzi sera.

 
 
 

Fabbruzzo da Perugia

Post n°817 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sonetto di Fabbruzzo da Perugia
Secondo la lingua e ortografia antica.

Homo no prese ancor si sazaménte
Nessuno a far che talora devene
Che l'usanza che corre fra la zente
No l tegna fole se li mes ne vene.

E quel ch'al Mondo fa più folemente
Coglali ben che per veruna vene
Secondo l usu sera cognoscente
Ch e tenuto sazo cui prende bene.

Pero en ver la zente e grand erranza
Che la ventura fal sol parer sazo
E zascuno che plaze al so volere.

E no guarda razon no mesuranza
Anzi fa bene cui devria dal mazo
E mal a chi bene devria avere.

Fabbruzzo da Perugia

Lo stesso colla moderna Ortografia, parole, e frasi di Giacinto Vincioli (Fece il Vincioli una Raccolta di poesie di Poeti Perugini, nella quale qualche componimento antico si trova, che manca in quelle fatte dal Giunta e dal Corbinelli).

Uomo non prese ancor sì saggiamente
Nessuno a far quel che talor conviene,
Che l'usanza, che corre fra la gente,
Nol tenga folle se men ben n'ottiene.

E quel che al Mondo opra più follemente,
Se ben gli avvien, che da fonte proviene,
Secondo l' uso si dirà prudente,
Che savio è detto chi l'incontra bene.

Però inver tra la gente è grand'errore,
Che la ventura sol fa parer tale,
E quel fol che più piace al suo volere.

E non guarda ragion, tempo, o favore,
Anzi fa bene a chi dovria far male,
E male a chi dovrebbe il bene avere.

Tratto da: "Scelta Di Poesie Italiane De' Piu Celebri Autori D'Ogni Secolo, Volume 1", di Antonio Benedetto Bassi - Lambert, e Baudouin, 1783, pag. 123

Le altre uniche menzioni che ho trovate di Fabbruzzo da Perugia sono in Giosuè Carducci: Intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV ritrovate nei memoriali dell'archivio notarile di Bologna.

Altre notizie le ho poi trovate in "I primi bolognesi che scrissero versi italiani", un volumetto di sole 51 pagine, di Salvatore Muzzi, Edito nel 1863 da Speirani, pagine 19-22, ove viene data una diversa "traduzione" del sonetto sopra riportato.

 
 
 

Lasagne ar Biondo Tevere

Foto di valerio.sampieri

Lasagne ar Biondo Tevere

'Sto piatto è proprio 'na consolazione;
'gni gracioletto rissomja a 'na fravola
che appena messo in bocca ve se sfravola
come si fusse panna ar zabbaione.

E nun dico 'n'esagerazione,
ma 'gni quarvorta me lo vedo a tavola
divento come l'orco de la favola,
che se divora tutto in un boccone.

Cocete assieme, dentro a un tigamino,
un trito de presciutto e de vitella,
noce moscata, buro, dado e vino.

Lessate in acqua e latte le lasagne,
condite co' reggiano e mozzarella
e da la gioia ve verà da piagne.

Aldo Fabrizi

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (14)

Post n°815 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

41

Quel pauroso spirto che procede
D’Amore, e sempre seco morte mena,
Mi par che v’abbi avvolto la catena
Al collo, per fuor trarvi di merzede.

Nè la trist’alma va con altro piede,
Poich’ha così perduta ogn’altra lena,
Che tremar fammi tanto a vena a vena;
Con tanta forza crudeltà vi fiede.
 
Ma il rimedio di sì stremo punto
È la speranza ch’altri in vita tiene,
Con pazïenza pregando il signore

Che regna tra li Dei, che ’l già consunto
Animo stanco e pien di tutte pene,
Conforti con un bel guardo d’amore.



42

Non argento, oro o pietre prezïose,
O regno, o imperio, o alcun principato,
Veste o vivande han mai fatto beato
L’animo ch’ha suggette queste cose.

E però lodo tua vita, che ascose
Sè dall’errante mondo, ond’hai acquistato
Già del saper gran parte, poich’hai dato
Principio buono ove tu’ alma pose.
 
Nè in saper virtù, ma operando
Con essa abituato e contemplare
Col sapere acquistato, o caro frate,

È il tesoro, che qui felicitare
Fa l’alma, sì che credendo e sperando
Nel fin voliamo a vera claritate



43

Ben conosch’io la nostra fragil vita,
E come tosto dee ’l tempo fuggire;
Ben conosch’io che altro che martìre
Non è dove sta l’alma sbigottita;

Ben conosch’io che a quanto Amor m’invita
È piacevole incarco e rio fallire;
Ben conosch’io che chi sa ben morire
Lieto s’invia alla bontà infinita.

Che fai dunque, alma mia; non ti vergogni?
Ov’è lo proprio natural rimorso
Di conoscenza che ’n ragion ne tira?

Lascia le ciance omai, e’ brievi sogni
Del cieco mondo, e lor fallace corso;
Pensa che ’l sommo Ben sempre ti mira.



44

Chi guarderà mia donna attento e fiso
Vedrà ch’ell’è dell’altre somma Idea,
E dirà che natura non potea
Formar sì vago lume e dolce riso.

Ma chi sempre governa il paradiso
Tal la produsse, perch’ogn’uomo stea
Attento a rimirar quanto e’ potea,
Quand’ei formò ’l leggiadro suo bel viso.

Nè le mancò se non ch’ella è mortale,
E ciò fe per a tempo a sè ritrarla,
Per adornarne il ciel, dov’e’ si posa.

Però umìl priego lui che quando il frale
Velo deciderà per liberarla,
Che allor segu’io così mirabil cosa.

 
 
 

Terze Rime 17-18

Post n°814 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XVII

Della signora Veronica Franca

[Sfogo di gelosia contro un suo amante, che ha lodato un'altra donna; ma, poiché ancor gli vuole bene, lo invita a venir presto da lei e gli perdona.]


Questa la tua Veronica ti scrive,

signor ingrato e disleale amante,
di cui sempre in sospetto ella ne vive.
A te, perfido, noto è bene in quante
maniere del mio amor ti feci certo,
da me non mai espresse altrui davante.
Non niego già. che 'n te non sia gran merto
di senno, di valor, di gentilezza,
e d'arti ingenue, onde sei tanto esperto;
ma la mia grazia ancor, la mia bellezza,
quello che 'n se medesma ella si sia,
da molti spirti nobili s'apprezza.
Forse ch'è buona in ciò la sorte mia;
e forse ch'io non son priva di quello,
ch'ad arder l'alme volontarie invia:
almen non ho d'ogni pietà rubello
il rigido pensier; n', qual tu, il core
in ogni parte insidioso e fello.
E pur contra ragion ti porto amore:
quel che tu meco far devresti al dritto,
teco 'l fo a torto, e so ch'è a farlo errore.
Tu non m'avresti in tanti giorni scritto,
che star t'avvenne di parlarmi privo,
mostrando esser di ciò mesto ed afflitto,
com'io cortesemente ora ti scrivo;
e, se ben certo m'offendesti troppo,
teco legata in dolce nodo vivo,
il qual mentre sciôr tento, e più l'ingroppo,
e, sì come d'Amor diposto fue,
non trovo in via d'amarti alcun intoppo.
Ma pur furono ingrate l'opre tue,
poi che pensar ad altra donna osasti,
e limar versi de le lodi sue:
farlo celatamente ti pensasti,
ma io ti sopragiunsi a l'improviso,
quando manco di me tu dubitasti.
Ben ti vidi perciò turbar nel viso,
e per la forza de la conscienza
ne rimanesti timido e conquiso,
sì che gli occhi d'alzar in mia presenza
non ti bastò l'errante animo allora.
Ahi teco estrema fu mia pazienza!
Chiudesti 'l libro tu senza dimora,
ed io gli occhi devea con mie man trarti:
misera chi di tale s'innamora!
Io non ho perdonato per amarti
ad alcuna fatica, ad alcun danno,
sperando intieramente d'acquistarti:
e tu, falso, adoprando occulto inganno
per cogliermi al tuo laccio, or che mi tieni,
mi dài, d'amor in ricompensa, affanno,
Ben son di vezzi e di lusinghe pieni
i tuoi detti eloquenti, e con pia vista
sempre a strazio maggior, empio, mi meni.
D'odio e d'amor gran passion or mista
m'ingombra l'alma, e 'l torbido pensiero
agitando contamina e contrista:
e 'n te dal ciel quella vendetta spero,
ch'io non vorrei; ed infelicemente
d'alto sdegno e d'amor languisco e pèro.
Contra gli error si deve esser clemente,
che dimostrati a quel che gli commise,
sì com'è ragionevole, si pente.
Quel libro d'altrui lodi in sen si mise
questo importuno, acciò ch'io nol vedessi:
ahi contrarie in amor voglie divise!
D'ira tutta infiammata allor non cessi,
fin che di sen per forza non glien tolsi,
e quel, che v'era scritto entro, non lessi.
Quanto 'l caso chiedea, teco mi dolsi,
amante ingrato; e 'l libro stretto in mano,
altrove il piè da te fuggendo volsi,
bench'ir non ti potei tanto lontano,
ch'al lato non mi fosti, e non facesti
tue scuse, e 'l libro mi chiedesti invano.
Dimandereiti or ben quel che vedesti,
da farti pur alzar gli occhi a colei;
ma tu senz'esser chiesto mel dicesti:
piena dentro e di fuor di vizi rei,
forse perch'io di tal non sospettassi,
la ponesti davanti agli occhi miei:
agli occhi miei, che 'n tutto schivi e cassi
d'ogni altro lume, tengon te per sole,
benché spesso in gran tenebre gli lassi.
Dubito se fùr vere le parole
che dicesti; né so di che, ma temo,
e dentro sospettando il cor si dole.
Di gelosia non ho 'l pensier mai scemo,
tal ch'avampando in freddo verno al ghiaccio,
nel mezzo de le fiamme aggelo e tremo;
e, quanto più di liberar procaccio
l'alma dal duolo, in maggior duol la invoglio,
e 'l mio mal dentro 'l grido e teco 'l taccio.
Pur romper il silenzio or teco voglio;
e, perché t'amo e perch'altri il comanda,
teco fo quel, che con altrui non soglio:
la buonasera in nome suo ti manda
per me 'l buono e cortese Lomellini,
e ti saluta e ti si raccomanda.
Tu hai, non so perché, buoni vicini,
che ti lodano e impètranoti il bene,
se ben per torta strada tu camini.
A questi d'obedir a me conviene,
e, in quel ch'imposto m'han significarti,
questi versi di scriverti m'avviene.
Di costor gran cagion hai di lodarti,
bench'io convengo ancor per viva forza,
crudel, protervo e sempre ingrato, amarti.
Contra mia voglia scriverti mi sforza
Amor, che tutto il conceputo sdegno
cangia in dolce desio, non pur l'ammorza:
spinta da lui, mandarti ora convegno
queste mie carte, accioché tu le legga;
anzi sempre con l'alma a te ne vegno.
Ma, perché in corpo ancor ti parli e vegga,
ch'a bocca la risposta tu mi porte
forz'è che con instanzia ti richiegga,
e che tu venghi in spazio d'ore corte.

XVIII

Della signora Veronica Franca

[Prega un amico cortese di correggerle i versi d'un'epistola da lei scritta per far la pace con l'amante.]


Molto illustre signor, quel che iersera
ne recai mio capitolo a mostrarvi,
scritto di mia invenzion non era;
ma non per tanto di ringraziarvi
non cesso, ch'avvertita voi m'abbiate
che, ch'io nol mandi a quell'amico, parvi;
e vi so grado che mi consigliate
di quello c'ho da far, quando a voi vengo
perché i miei versi voi mi correggiate.
Grand'obligazione al cielo tengo
ch'un vostro pari in protezzion m'abbia,
e più da voi di quel ch'io merto ottengo.
La gelosia, che dentro 'l cor m'arrabbia,
mi fece scriver quello ch'io non dissi;
ma fu del mio signor martello e rabbia.
Egli pria mi narrò quello ch'io scrissi,
e molte cose mi soggiunse appresso,
perché di lui 'n sospetto non venissi.
Non so quel che sia in fatto, ma confesso
ch'io mi sento morir da passione
di non averlo a ciascun'ora presso:
e questi versi scritti a tal cagione,
con scusa di mandargli quei saluti
di iersera, inviarli il cor dispone.
Prego la mercé vostra che m'aiuti
in racconciarli, e in far ch'a me ne venga
il mio amante e lo sdegno in pietà muti:
gli altri versi di ieri ella si tenga,
ch'io farò poi di lor quel ch'a lei piace;
e, pur ch'umil l'amante mio divenga,
d'ogni altra avversità mi darò pace.

 
 
 

In pizzo ar tetto

Post n°813 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

In pizzo ar tetto

In cima in cima ar tetto, indove vanno
A facce er nido tante rondinelle,
Ce so' du' finestrelle, tutto l'anno
Incorniciate da le campanelle.

In mezzo a ognuna de 'ste finestrelle
Tra li vasi de fiori che ce stanno,
C'è 'na furcina co' le cordicelle
Dove c'è sempre steso quarche panno.

Prima, da 'ste finestre sott'ar tetto,
Nina cantava: Me so innamorata...
Mentre stenneva quarche fazzoletto.

Ma mò' ha cambiato musica, e parole:
Adesso canta: A tu chi m'hai lassata!...
E stenne fasciatori e bavarole.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (13)

Post n°812 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

37

La fe ch’ha posto dentro il mio signore
È tal, che come vuol governa e piglia
La signoria di me; poi m’assottiglia
Le membra sì, che ’l lor vivo colore

Non portan più, ma tant’è ’l fiero ardore
Che ciascun spiritel d’amor bisbiglia,
E priega morte, cui catun somiglia
Ch’in un punto finisca tal dolore.
 
Onde, Ruberto mio, con mente pura
Priega colui ch’ha potenza infinita,
Che d’esto vivo inferno i’ esca fuori;

Sicchè l’alma che trema di paura,
Non si disperi all’ultima partita,
Tal ch’io ne perda il cielo co’ suo’ onori.

38

Saggio è colui che bene spende il tempo,
E saggio è quel che leggiadro ad Amore
Onestamente serve, sicchè Amore
Seguir gli fa virtù ’n giovinil tempo;

E poi quando ne viene il vecchio tempo,
Va diponendo la forza d’Amore,
E veste l’alma sua d’un altro Amore,
Per maritarsi a Dio in cotal tempo.
 
Ma più saggio è colui che sua giornata
Corregge sì, ch’altro non cerca il core
Che bramar sempre aver l’alma beata.

Ond’io v’ho per più saggio, e tal giornata
Vi secondi Jesù, chè ’l vostro core
Nel fin si posi in la vita beata,

39

S’io potessi eternar tanto il mio nome,
Quanto la vostra chiara penna sona,
E se della laurea corona
Degne potessi far le indegne chiome;

E se d’Apollo le gravose some
Portar sapessi ove sempre mi sprona,
Versar farei gran fiume d’Elicona,
Cogliendo del bell’orto il dolce pome;
 
Per satisfare a voi con dir non grosso
Della Canzon sì bella e sì sottile;
Ma perchè indegno son non mi son mosso

A traslatar Canzon tanto gentile
Sì pel fattor, sì pel rimar; nè posso,
Nè tentar debbo, il mai non vinto stile.

40

Donna gentile, il lauro trionfante,
Ch’è d’arme e di scienza il sommo onore,
Se vincisse mie tempie, il tuo valore
Descriver non potrei nè l’opre sante,

Che fanno meco il mondo sì ammirante;
Ma pregar vo’ qual è de’ vizi fore,
Che contempli tua vita e ’l tuo splendore,
Ch’han fatte già al cielo invidie tante.

Dipoi n’andremo alle Muse, che state
Per l’altrui colpa, e per le cose felle
Sono in Parnaso gran tempo serrate;

Perchè indegno son io, e invocherelle
Che con li lor poeti stieno armate
A cantar sol di te, ch’al mondo tielle.

 
 
 

Il Dittamondo 2, Indice

Post n°811 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Indice del Libro Secondo de "Il Dittamondo" di Fazio degli Uberti.

Libro 2

Cap. 01   Cap. 02   Cap. 03   Cap. 04   Cap. 05   Cap. 06  
Cap. 07   Cap. 08   Cap. 09   Cap. 10   Cap. 11   Cap. 12  
Cap. 13   Cap. 14   Cap. 15   Cap. 16   Cap. 17   Cap. 18  
Cap. 19   Cap. 20   Cap. 21   Cap. 22   Cap. 23   Cap. 24  
Cap. 25   Cap. 26   Cap. 27   Cap. 28   Cap. 29   Cap. 30  
Cap. 31

 
 
 

Il Dittamondo (2-08)

Post n°810 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO VIII

Secondo ch’io li vidi piú e meno 
degni di fama questi miei signori, 
di lor parlar rallargo e stringo il freno, 
sí come sai che fanno i dipintori 
che, secondo ch’è degna la figura, 5 
e piú e men l’adornan di colori. 
Da diciotto anni signor meco dura 
Marco Antonio Vero, ch’a Verona 
trasmutò nome e fece fosse e mura. 
Commodo tenne poi la mia persona; 10 
e, benché fosse molto ardito e franco, 
di lui piú e piú falli si ragiona. 
Costui del nome suo volse fosse anco, 
sí come Iulio, un de’ mesi nomato, 
benché ’l potere a ciò li venne manco. 15 
Filippo, in questo tempo, fu mandato 
da Roma in Egitto per prefetto, 
che molto fu onesto e temperato. 
Una figlia ebbe costui, ch’io t’ho detto: 
Eugenia, che ne l’amore di Cristo 20 
ardea tutta dentro dal suo petto. 
Questa, per acquistare il Sommo Acquisto, 
fuggí dal padre e battesimo tolse 
in atto d’uomo e per tale era visto. 
Con altri due un monistero sciolse 25 
di monaci devoti molto a Dio, 
coi quali abito prese e viver volse. 
Essendo in tanto santo e bel disio, 
Melancia, che di costei s’accorse, 
accusò lei e ’l monister per rio. 30 
L’accusa innanzi dal prefetto porse 
e, tormentando i monaci e la figlia, 
il padre il vero di Eugenia scorse. 
Per la letizia e per la maraviglia, 
Filippo apresso si fe’ battezzare 35 
e non pur sé, ma tutta la famiglia. 
Subitamente discese per l’a’re 
una folgor che Melancia arse tutta 
e tal miracol fu ben da notare. 
Ahi quanto ben sarebbe che tal frutta 40 
spesse volte gustassono coloro, 
che van cercando ogni novella brutta! 
Ma qui torno a colui che ’l mio tesoro 
guardava allora, che, senza dí o mesi, 
fe’ tredici anni con meco dimoro. 45 
La fine sua è ben ch’io ti palesi, 
a ciò che i reggitor, che son villani, 
prendano asempro di farsi cortesi. 
Sí crudo il vidi a’ suoi e agli strani, 
che ne fu morto e qui de la sua donna, 
senza piú dir, lavar mi vo’ le mani. 
E, poi che morte il corpo suo assonna, 
Elio fu eletto e ordinato 
per mio sostegno e prima colonna. 
A costui certo proferse il senato 55 
di voler fare la sua donna Augusta 
e che ’l figliuol fosse Cesar chiamato. 
Ond’ello, con parola onesta e giusta, 
negò l’onor, dicendo: – Basta assai 
la grazia, che da voi per me si gusta –. 60 
Da diciotto anni il suo valor provai; 
odi se fu a la giustizia intero, 
che né tesor né amor nol mosse mai. 
Giulian l’uccise e poi venne Severo 
vertudioso tanto e d’alto ingegno, 65 
che di vil nazion giunse a lo ’mpero. 
Qui pensa se di tale onor fu degno, 
ch’io ’l vidi a dimandar tanto discreto 
e liberale al dar, ch’io me ne segno. 
Al tempo suo, il viver mio fu lieto, 70 
come colui che l’Africa ridusse 
per forza tutta sotto il mio decreto. 
Arabia, Partia ed Agario condusse 
e gran parte del mondo al mio dimino: 
miracol parve che suo fatto fusse. 75 
Assai intese ben greco e latino 
e fu in filosofia veracemente 
ed in altre scienze accorto e fino. 
Sol questo fece, di che son dolente: 
che fu il quinto che i cristian percosse, 80 
secondo che ancor m’è ne la mente. 
Diciassette anni piacque al ciel che fosse 
meco costui e, quando men mi venne, 
pensa che dentro al cuor molto mi cosse: 
ché con tanto valor m’accrebbe e tenne, 85 
ch’io dicea fra me: – Bene ha costui 
a l’aquila mia rimesse le penne –. 
E, secondo che udia contare altrui, 
maraviglia facea in Inghilterra, 
al punto ch’io rimasi senza lui 90
e che la morte le sue luci serra.

 
 
 

Terze Rime 16

Post n°809 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XVI

Della signora Veronica Franca

[Ad un malèdico, che l'ha con suoi versi oltraggiata, risponde a lungo, e ribatte le ingiurie, che colpivano la condizione di lei.]

D'ardito cavalier non è prodezza
(concedami che 'l vero a questa volta
io possa dir, la vostra gentilezza),
da cavalier non è, ch'abbia raccolta
ne l'animo suo invitto alta virtute,
e che a l'onor la mente abbia rivolta,
con armi insidiose e non vedute,
a chi più disarmato men sospetta,
dar gravi colpi di mortal ferute.
Men ch'agli altri ciò far poi se gli aspetta
contra le donne, da natura fatte
per l'uso, che più d'altro a l'uom diletta:
imbecilli di corpo, ed in nulla atte
non pur a offender gli altri, ma se stesse
dal difendere col cor timido astratte.
Questo doveva far che s'astenesse
la vostra man da quell'aspre percosse,
ch'al mio feminil petto ignudo impresse.
Io non saprei già. dir onde ciò fosse,
se non che fuor del lato mi traeste
l'armi vostre del sangue asperse e rosse.
èpogliata e sola e incauta mi coglieste,
debil d'animo, e in armi non esperta,
e robusto ed armato m'offendeste;
tanto ch'io stei per lungo spazio incerta
di mia salute; e fu da me tra tanto
passion infinita al cor sofferta.
Pur finalmente s'è stagnato il pianto,
e quella piaga acerba s'è saldata,
che da l'un mi passava a l'altro canto.
Quasi da pigro sonno or poi svegliata,
dal cansato periglio animo presi,
benché femina a molli opere nata;
e in man col ferro a essercitarmi appresi,
tanto ch'aver le donne agil natura,
non men che l'uomo, in armeggiando intesi:
perché 'n ciò posto ogni mia industria e cura,
mercé del ciel, mi veggo giunta a tale,
che più d'offese altrui non ho paura.
E, se voi dianzi mi trattaste male,
fu gran vostro diffetto, ed io dal danno
grave n'ho tratto un ben, che molto vale.
Così nei casi avversi i savi fanno,
che 'l lor utile espresso alfin cavare
da quel, che nuoce da principio, sanno;
e così ancor le medicine amare
rendon salute; e 'l ferro e 'l foco s'usa
le putrefatte piaghe a ben curare:
benché non serve a voi questa per scusa,
che m'offendeste non già. per giovarmi,
e 'l fatto stesso parla e sì v'accusa.
Ed io, poi che 'l ciel vòlse liberarmi
da sì mortal periglio, ho sempre atteso
a l'essercizio nobile de l'armi,
sì ch'or, animo e forze avendo preso,
di provocarvi a rissa in campo ardisco,
con cor non poco a la vendetta acceso.
Non so se voi stimiate lieve risco
entrar con una donna in campo armato;
ma io, benché ingannata, v'avvertisco
che 'l mettersi con donne è da l'un lato
biasmo ad uom forte, ma da l'altro è poi
caso d'alta importanza riputato.
Quando armate ed esperte ancor siam noi,
render buon conto a ciascun uom potemo,
ché mani e piedi e core avem qual voi;
e, se ben molli e delicate semo,
ancor tal uom, ch'è delicato, è forte;
e tal, ruvido ed aspro, è d'ardir scemo.
Di ciò non se ne son le donne accorte;
che, se si risolvessero di farlo,
con voi pugnar porìan fino a la morte.
E per farvi veder che 'l vero parlo,
tra tante donne incominciar voglio io,
porgendo essempio a lor di seguitarlo.
A voi, che contra tutte sète rio,
con qual'armi volete in man mi volgo,
con speme d'atterrarvi e con desio;
e le donne a difender tutte tolgo
contra di voi, che di lor sète schivo,
sì ch'a ragion io sola non mi dolgo.
Certo d'un gran piacer voi sète privo,
a non gustar di noi la gran dolcezza;
ed al mal uso in ciò la colpa ascrivo.
Data è dal ciel la feminil bellezza,
perch'ella sia felicitate in terra
di qualunque uom conosce gentilezza.
Ma dove 'l mio pensier trascorre ed erra
a ragionar de le cose d'amore,
or ch'io sono in procinto di far guerra?
Torno al mio intento, ond'era uscita fuore,
e vi disfido a singolar battaglia:
cingetevi pur d'armi e di valore,
vi mostrerò quanto al vostro prevaglia
il sesso femminil: pigliate quali
volete armi, e di voi stesso vi caglia,
ch'io vi risponderò di colpi tali,
il campo a voi lasciando elegger anco,
ch'a questi forse non sentiste eguali.
Mal difender da me potrete il fianco,
e stran vi parrà forse, a offenderne uso,
da me vedervi oppresso in terra stanco:
così talor quell'uom resta deluso,
ch'ingiuria gli altri fuor d'ogni ragione,
non so se per natura, o per mal uso.
Vostra di questa rissa è la cagione,
ed a me per difesa e per vendetta
carico d'oppugnarvi ora s'impone.
Prendete pur de l'armi omai l'eletta,
ch'io non posso soffrir lunga dimora,
da lo sdegno de l'animo costretta.
La spada, che 'n man vostra rade e fora,
de la lingua volgar veneziana,
s'a voi piace d'usar, piace a me ancora:
e, se volete entrar ne la toscana,
scegliete voi la seria o la burlesca,
ché l'una e l'altra è a me facile e piana.
Io ho veduto in lingua selvaghesca
certa fattura vostra molto bella,
simile a la maniera pedantesca:
se voi volete usar o questa o quella,
ed aventar, come ne l'altre fate,
di queste in biasmo nostro le quadrella,
qual di lor più vi piace, e voi pigliate,
ché di tutte ad un modo io mi contento,
avendole perciò tutte imparate.
Per contrastar con voi con ardimento,
in tutte queste ho molta industria speso:
se bene o male, io stessa mi contento;
e ciò sarà dagli altri ancora inteso,
e 'l saperete voi, che forse vinto
cadrete, e non vorreste avermi offeso.
Ma, prima che si venga in tal procinto,
quasi per far al gioco una levata,
non col ferro tagliente ancora accinto,
de la vostra canzone, a me mandata,
il principio vorrei mi dichiaraste,
poi che l'opera a me vien indrizzata.
«Verunica» e 'l restante mi chiamaste,
alludendo a Veronica mio nome,
ed al vostro discorso mi biasmaste;
ma al mio dizzionario io non so come
«unica» alcuna cosa propriamente
in mala parte ed in biasmar si nome.
Forse che si direbbe impropriamente,
ma l'anfibologia non quadra in cosa
qual mostrar voi volete espressamente.
Quella, di cui la fama è gloriosa,
e che 'n bellezza od in valor eccelle,
senza par di gran lunga virtuosa,
«unica» a gran ragion vien che s'appelle;
e l'arte, a l'ironia non sottoposto,
scelto tra gli altri, un tal vocabol dielle.
L'unico in lode e in pregio vien esposto
da chi s'intende; e chi parla altrimenti
dal senso del parlar sen va discosto.
Questo non è, signor, fallo d'accenti,
quello, in che s'inveisce, nominare
col titol de le cose più eccellenti.
O voi non mi voleste biasimare,
o in questo dir menzogna non sapeste.
Non parlo del dir bene e del lodare,
ché questo so che far non intendeste;
ma senz'esser offeso da me stato,
quel che vi corse a l'animo scriveste,
altrui volendo in ciò forse esser grato;
benché me non ingiuria, ma se stesso,
s'altri mi dice mal, non provocato.
E 'l voler oscurar il vero espresso
con le torbide macchie degli inchiostri
in buona civiltà non è permesso;
e spesso avien che 'l mal talento uom mostri,
giovando in quello onde più nuocer crede:
essempi in me più d'una volta mostri,
sì come in questo caso ancor si vede,
che voi, non v'accorgendo, mi lodate
di quel ch'al bene ed a la virtù chiede.
E, se ben «meretrice» mi chiamate,
o volete inferir ch'io non vi sono,
o che ve n'en tra tali di lodate.
Quanto le meretrici hanno di buono,
quanto di grazioso e di gentile,
esprime in me del parlar vostro il suono.
èe questo intese il vostro arguto stile,
di non farne romor io son contenta,
e d'inchinarmi a voi devota, umìle;
ma, perch'al fin de la scrittura, intenta
stando, che voi mi biasimate trovo,
e ciò si tocca e non pur s'argomenta,
da questa intenzion io mi rimovo,
e in ogni modo question far voglio,
e partorir lo sdegno ch'entro covo.
Apparecchiate pur l'inchiostro e 'l foglio,
e fatemi saper senz'altro indugio
quali armi per combatter in man toglio.
Voi non avrete incontro a me rifugio,
ch'a tutte prove sono apparecchiata,
e impazientemente a l'opra indugio:
o la favella giornalmente usata,
o qual vi piace idioma prendete,
ché 'n tutti quanti sono essercitata;
e, se voi poi non mi risponderete,
di me dirò che gran paura abbiate,
se ben così valente vi tenete.
Ma, perché alquanto manco dubitiate,
son contenta di far con voi la pace,
pur ch'una volta meco vi proviate:
fate voi quel, che più vi giova e piace.

 
 
 

Terze Rime 15

Post n°808 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XV

Della signora Veronica Franca

[Si scusa con un amico per non essere andata a trovarlo: la partenza dell'amante così l'ha turbata e sconvolta, che non se n'è sentita la forza, benché n'avesse desiderio; ma, s'egli insiste, andrà da lui, che stima, pur non essendone innamorata.]

S
ignor, ha molti giorni, ch'io non fui
(come doveva) a farvi riverenza:

di che biasmata son forse d'altrui;

ma, se da far se n'ha giusta sentenza,
le mie ragioni ascoltar pria si denno
da me scritte, o formate a la presenza:
che, quanto dritte ed accettabili enno,
non voglio ch'altri s'impedisca, e solo
giudicar lascerò dal vostro senno.
Con questo in tanti mali mi consolo,
che non sète men savio che cortese,
e che pietà sentite del mio duolo;
sì che, s'alcun di questo mi riprese,
ch'a voi d'alquanto tempo io non sia stata,
prodotte avrete voi le mie difese.
Io so pur troppo che da la brigata
far mal giudizio de le cose s'usa,
senza aver la ragion prima ascoltata.
èignor, non solo io son degna di scusa,
ma che ciascun, c'ha gentil cor, m'ascolti
di tristo pianto con la faccia infusa.
Non posso non tener sempre rivolti
i sentimenti e l'animo e l'ingegno
ai gravosi martìr dentro a me accolti,
sì ch'ora, ch'a scusarmi con voi vegno,
entra la lingua a dir del mio dolore,
e di lui ragionar sempre convegno;
benché quest'è mia scusa, che l'amore,
ch'io porto ad uom gentile a maraviglia,
mi confonde la vita e toglie il core;
anzi pur dal girar de le sue ciglia
la mia vita depende e la mia morte,
e quindi gioia e duol l'anima piglia.
Permesso alfine ha la mia iniqua sorte
che 'n preda del suo amor m'abbandonassi,
di che fien l'ore del mio viver corte:
ed ei, crudel, da me volgendo i passi,
quando più bramo la sua compagnia,
fuor de la nostra comun patria vassi:
senza curar de la miseria mia,
a far l'instanti ferie altrove è gito,
ma d'avantaggio andò sei giorni pria;
di ch'è rimaso in me duolo infinito,
e 'l core e l'alma e 'l meglio di me tutto,
col mio amante, da me s'è dipartito.
Corpo dal pianto e dal dolor distrutto,
ne l'allegrezza senza sentimento,
rimasta son del languir preda in tutto
quinci 'l passo impedito, e non pur lento,
ebbi a venir in quella vostra stanza,
secondo 'l mio devere e 'l mio talento,
peroché i membri avea senza possanza,
priva d'alma; e, se in me di lei punto era,
dietro 'l mio ben n'andava per usanza.
Così passava il dì fino a la sera,
e le notti più lunghe eran di quelle,
ch'ad Alcmena Giunon fe' provar fiera:
sovra le piume al mio posar rubelle,
non ritrovando requie nel martìre,
d'Amor, di lui doleami, e de le stelle.
ètandomi senza lui volea morire:
spesso levai, e ricorsi agli inchiostri,
né confusa sapea che poi mi dire.
Ben prego sempre Amor, che gli dimostri
le mie miserie e 'l suo gran fallo espresso,
oltre a tanti da me segni fuor mostri.
Certo da un canto e lungamente e spesso
egli m'ha scritto in questa sua partita,
ed ancor più di quel che m'ha promesso:
col suo cortese scrivermi la vita
senza dubbio m'ha reso, ed io 'l ringrazio
con un pensier ch'a sperar ben m'invita.
Da l'altra parte intento a lo mio strazio,
Poiché senza di sé mi lascia, io 'l veggo,
e ch'ei sta senza me sì lungo spazio.
Le sue lettre mandatemi ognor leggo,
e tenendole innanzi a lor rispondo,
e parte a la mia doglia in ciò proveggo.
Alti sospir dal cor m'escon profondo,
nel legger le sue carte, e in far risposte
piene di quel languir, che in petto ascondo.
In ciò fùr tutte dispensate e poste
l'ore; e del mio signor basciava in loco
le sue grate e dolcissime proposte.
Peggio che morta, in suon tremante e fioco
sempre chiamarlo lagrimando assente,
il mio sol rifugio era e 'l mio gioco:
desiandol meco aver presente,
altrui noiosa, a me stessa molesta,
lassa languia del corpo e de la mente.
Come doveva over potea, con questa
oppressa dal martìr gravosa spoglia,
venir da voi, meschina, inferma e mesta,
a crescer con la mia la vostra doglia
e, in cambio di parlar con buon discorso,
aver di pianger, più che d'altro, voglia?
In quel vostro sì celebre concorso
d'uomini dotti e di giudicio eletto,
da cui vien ragionato e ben discorso,
come, senza poter formar un detto,
dovev'io ne la scola circostante
uom tal visitar egro infermo in letto?
Furono appresso le giornate sante,
ch'a questo officio m'impedOr la via;
benché la cagion prima fu 'l mio amante,
a cui sempre pensar mi convenia,
e legger, e risponder, in ciò tutta
spendendo la già. morta vita mia.
Ed ora a stato tal io son ridutta,
che, s'ei doman non torna, com'io spero,
fia la mia carne in cenere distrutta.
Di rivederlo ognor bramosa pèro,
bench'ei tosto verrà, com'io son certa,
per quel ch'ei sempre m'ha narrato il vero:
de la promessa fé di lui s'accerta
con altre esperienzie la mia spene,
né qual dianzi ha da me doglia è sofferta.
Egli verrà, l'abbraccerò 'l mio bene:
stella benigna, ch'a me 'l guida, e ria
quella, ond'ei senza me, star sol sostiene.
Mi resta un poco di malenconia,
ch'egro è 'l mio colonello, ed io non posso
mancargli per amor e cortesia;
sì che, gran parte d'altro affar rimosso,
attendo a governarlo in stato tale,
ch'ei fôra senza me di vita scosso,
Per troppo amarmi ei giura di star male,
convenendo da me dipartir tosto,
e verso Creta andar quasi con l'ale.
Di ciò nel cor grand'affanno ei s'ha posto,
ed io non cesso ad ogni mio potere
di consolarlo a ciascun buon proposto.
Vorreil, dal suo mal libero vedere,
perché tanto da lui mi sento amata,
e perch'ei langue fuor d'ogni dovere;
e, come donna in questa patria nata,
vorrei ch'ov'ha di lui bisogno andasse,
e ch'opra a lei prestasse utile e grata:
le virtù del suo corpo afflitte e lasse,
per ch'ei ne gisse ov'altri in Creta il chiama,
grato mi fôra ch'ei ricuperasse
Del suo nobil valor la chiara fama
fa che quivi ciascun l'ama e 'l desia,
e come esperto in guerreggiar il brama.
Dategli, venti, facile la via,
e, perché fuor d'ogni molestia ei vada,
la dea d'amor propizia in mar gli sia;
sì che con l'onorata invitta spada
a la sua illustre immortal gloria ei faccia
con l'inimico sangue aperta strada.
Ciò fia ch'al mio voler ben sodisfaccia,
poi che, rimosso questo impedimento,
il mio amor sempre avrò ne le mie braccia.
E, se costui perciò parte scontento,
ch'ad altro ho 'l core e l'anima donato,
rimediar non posso al suo tormento.
E che poss'io? Che s'egli è innamorato,
io similmente il mio signor dolce amo,
e 'l mio arbitrio di lui tutt'ho in man dato
A lui servir e compiacer sol bramo,
valoroso, gentil, modesto e buono;
e fortunata del suo amor mi chiamo.
Lassa! che, mentre di lui sol ragiono,
né presente l'amato aspetto veggio,
da novo aspro martìr oppressa sono;
e pietra morta in viva pietra seggio
sopra del mio balcone, afflitta e smorta,
poi che 'l mio ben lontano esser m'aveggio.
A questa, che da me scusa v'è pòrta,
di non esser venuta a visitarvi,
priva di vita senza la mia scorta,
piacciavi, s'ella è buona, d'appigliarvi,
considerando ben voi questa parte,
senz'a quel ch'altri dice riportarvi.
E, se le mie ragion confuse e sparte
senz'argomenti e senza stil v'ho addutto,
a dir la verità non richiede arte.
Bench'io non son senza un salvocondutto,
e senza da voi esserne invitata,
per tornar così presto a quel ridutto,
basta che, quando vi sarò chiamata,
lascerò ogni altra cosa per venirvi;
né questo è poco a donna innamorata.
E stimerò che sia vero obedirvi
star pronta a quel che mi comanderete,
non venendo non chiesta ad impedirvi.
èe con vostro cugin ne parlerete,
son certa ch'egli mi darà ragione,
e voi medesmo ve n'accorgerete.
Gli altri amici son poi buone persone,
e senza costo voglion de l'altrui,
s'altri con loro a traficar si pone.
Forse che, quanto tarda a scriver fui,
tanto son lunga in questa mia scrittura,
senza pensar chi la manda ed a cui.
Ma io son così larga di natura,
tal che tutta ricevo entro a me stessa
la virtù vostra e la viva figura:
questa mi siede in mezzo l'alma impressa,
come di mio signor effigie degna,
ch'onorar il cor mio giamai non cessa.
Così vostra mercé per sua mi tegna,
e per me inchini quella compagnia,
sin ch'a far questo a la presenzia io vegna;
benc'ho mutato in parte fantasia,
e in ciò ch'io mi ritoglio, o ch'io mi dono,
non sarà quel, che tal crede che sia.
Questo dico, perché dar in man buono,
venendo, non vorrei di chi perduta
mi tenne del suo amor, che non ne sono:
così la sorte ora offende, ora aiuta.

 
 
 

Dar botteghino

Post n°807 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Dar botteghino

- Sor botteghino mio, me so' insognata
Un mostro nero, bruno, puzzolente,
Che me sartava addosso, e lì presente
C'era mi' nonna e c'era mi' cugnata.

Io tutt' impavurita e spaventata
Cercavo de scappà', ma in quèr tramente
M'è preso, sarvugnuno, un accidente,
M'è amancata 'na cianca e so' cascata.

Er mostro m'ha aggranfiato co' 'n artijo,
E m'ha portato in mezzo a l'antri mostri.
Vojo gioca'; che nummeri ce pijo?

- 50 er mostro che ve porta via,
47 li parenti vostri,
32 l'accidente che ve pia.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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