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Rime inedite del 500 (XI-2)

Post n°838 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[12 Di Cesare Caporali]

Cesare Caporali in Parnaso così cantò l'ultima sera di Carnevale alla presenza d'Apollo.

Questo mondo è un bordeletto
Così succido e sì brutto,
Che, se ben lo squadro tutto,
Non v'è un palmo in lui di netto.
Dal Giappon sino a l'occaso
Scorre il senso con tal puzza
Ch'al fettor l'aria s'appuzza,
Si risente ognun ch'ha naso.
Chi direbbe che in Parnaso,
De le Muse albergo antico,
Non si trovi un che pudico
A' dì nostri serbi il petto?
Questo mondo, etc.
Ciascun grado e condizione
Si rivolge in questa pece
E di far ciò che non lece
Han per legge le persone.
Erra l'uom d'ogni stagione;
Ma sì cieco è il Carnovale
Che per bene apprende il male,
Per virtù quel ch'è difetto.
Questo mondo, etc.
Chi s'intruppa fra' veglioni,
Chi s'intende fra' veglini,
E tra smorti lumicini
Trova scusa per gli urtoni;
Altri lascia i balli e i suoni
Col desìo d'entrar a parte
Al giochetto delle carte
Siasi d'Ombre, o Cocconetto.
Questo mondo, etc.
Quivi l'occhio a poco, a poco
Col mirar cangia figura,
E la man corre all'usura
Ove a furti ha tempo e loco.
Troppo è ver che quando al gioco
S'accompagni vario sesso,
Se non sempre, segue spesso
Qualche error sotto il banchetto.
Questo mondo, etc.
A pietade, a riso, a sdegno,
A stupor muove le genti
Quel veder che i più prudenti
Questi giorni han meno ingegno;
Ognun sa con qual disegno
L'altra notte il vecchio Cato
Senza lume immascherato
S'appiattò dentro quel ghetto.
Questo mondo, etc.
Chi può dir quanto t'incresca
Al pensar qual diano esempio
I ministri del tuo tempio
Con livrea carnevalesca?
Come augel che voli all'esca
Tal costor corrono in frotta
A danzar quando più annotta
Delle Pieridi al balletto.
Questo mondo, etc.
Fin d'Augusto la sorella,
Io vo' dir madonna Ottavia,
Già canuta e tanto savia
Al teatro applaude anch'ella,
E la figlia sua più bella
Oggi appunto, come s'usa,
Guida seco alla confusa
Nel casino e sul palchetto.
Questo mondo, etc.
Ma sarebbe il men de' mali,
Se, passati i dì di Bacco,
Ad un viver sì vigliacco
Rinunziassero i mortali.
Il bell'è che a' sensi frali
Per nutrir tale appetito
L'uom per mesi ha stabilito
Ne' villaggi alzarsi il letto,
Questo mondo, etc.
Que' solazzi, que' conviti
Quelle ariette, quelle stanze,
Quelle tante mescolanze
Di non mogli e non mariti,
Que' sussurri, quegli inviti,
Con que' casi fatti a studio
D'onestà se sian preludio,
Febo, a te me ne rimetto.
Questo mondo, etc.
Cade Lesbia, e par che avegna
Il cader per accidente;
Ma lo fa perché repente
Corra Ortensio e la sostegna;
Con Alceo Clori si sdegna
E tra i lauri affretta il piede;
Ma s'accorge ch'ei la vede
Prima ch'entri nel boschetto.
Questo mondo, etc.
Tutto al solito cortese
Mena in villa una mendica
Oppillata, e la nutrica
Mecenate a proprie spese;
Ma la gente del paese
Ch'è salata e pare sciocca
Col parlarne a mezza bocca
Dà di ciò qualche sospetto.
Questo mondo, etc.
Ma di Pindo entro le mura
Ritorniamo a dar di vista,
E de cor, se non t'attrista,
Penetriam l'iniqua arsura.
Di colomba oggi ha figura
La lascivia, e sotto il volto
Di pietà si vede accolto
Questo mostro maledetto.
Questo mondo, etc.
Marco Bruto è curatore
Di tre povere orfanelle,
E minaccia chi di quelle
Ardirà tentar l'onore;
Ma il burchiello, che a sett'ore
Si appostò nel loro albergo,
Scopre a tutti senza zergo
Del tutor qual sia l'affetto.
Questo mondo, etc.
Belisario orbato e lippo,
Se due soldi in grazia chiede,
Sente darsi per mercede:
Su, va in pace da Crisippo,
Ma se Laide d'Aristippo
Gira un guardo lagrimoso,
Ei di lei fatto pietoso
La conduce al gabinetto.
Questo mondo, etc.
Se i Platoni e gli Epitetti
Con esempi e dogmi rari
Ammaestran li scolari,
Si fan puri all'opre, ai detti;
Ma se avvien ch'Apicio detti
Continenze a Porzia, a Livia,
Chi scorretto è per lascivia
Come altrui farà corretto?
Questo mondo, etc.
Io mi rido poi di quelli,
Come sai, che a Frine accanto
Con un libro si dan vanto
Di cacciare i farfarelli.
Son fornaci i Mongibelli,
Di star presso han per consiglio,
Fin Zenone a tal periglio
D'avvampar sarìa costretto.
Questo mondo, etc.
Di Calliope nel giardino
L'altro giorno vidi assisa
Una donna alla divisa
Linda al par d'un armellino.
Quanto a lei più m'avvicino
Vedo ch'è Pantasilea,
Cui toccar Codro volea
Il moderno grembialetto.
Questo mondo, etc.
Con lasciva ipocrisia
Copre il cor l'umana schiatta,
Dentro impura, e fuori intatta,
Empia l'alma, e il volto pia.
Né facella così ria
Solo a' giovani arde il fianco;
Ma de' vecchi in sen non manco
Tale ardor trova ricetto.
Questo mondo, etc.
Sai che Seneca si sdegna
Contra il vizio e li fa guerra,
E cacciarlo fin sotterra
Agli antipodi s'ingegna;
Caste leggi a Giulia insegna,
Ma il trovarsi testa a testa
Sempre seco il manifesta
Per contrario al suo precetto.
Questo mondo, etc.
Se in tuo nome dico a Cotta
Che da sé licenzi Drusa,
Con bel modo se ne scusa
Ch'è nipote e sempliciotta.
Oh rei tempi! età corrotta,
Che le macchie occulta e cela
Sotto il vel di parentela
Del tuo sangue, o sangue infetto.
Questo mondo, etc.
Soprintende alla fortezza
D'Astrea un tal che Cippo ha nome
E la moglie, non so come,
Gli fa scala a tanta altezza,
Tratta acciar la mano avvezza
A trattar ignobil arte,
E chi nulla sa di Marte
Cinge spada, innalza elmetto.
Questo mondo, etc.
Del Boccaccio alla Fiammetta
Curiose guida la destra,
Quando a scriver l'ammaestra
Che ha per mal che sia soletta
A sonar la girometta;
Amfione Urania invita,
E l'insegna ove le dita
Dee posar su lo spinetto.
Questo mondo, etc.
A Calfurnia è tocco in sorte
Serva tal, che tra le piume
L'addormenta, e, spento il lume,
Col pie' scalzo scende in corte.
Non so dir se per le porte
Melibeo voglia introdotto,
So che a Titiro fa' motto
Che l'attende nel chiassetto.
Questo mondo, etc.
Muova Filli un piede solo,
Esca fuori, o torni in loggia,
Chiede il paggio e a lui s'appoggia,
E lo tien più che figliolo.
Da Talìa nello stanzuolo
Si traveste d'ormesino,
Perché faccia d'Amorino
Su la scena il Musichetto.
Questo mondo, etc.
Al candor qualch'ombra reca
Il ruzzar che fan confuse
Co' poeti e ninfe e muse
Al trastul di Mosca cieca.
Sento dir che Saffo greca
L'altra sera sorridea
Quand'Omero le stringea
Sopra gli occhi il fazzoletto.
Questo mondo, etc.
Amarillide e Sulpizia
Van cercando in man del terzo
Certo anello, e a quello scherzo
Se ne duol la pudicizia.
Ei lo fan senza malizia
Sì, ma ancor tra scherzi e giochi
Scocca strali, accende fuochi
Di Ciprigna il pargoletto.
Questo mondo, etc.
Non saprei se biasmo, o loda
Meritar debba colei
Che alla posta degli Achei
Taglia e cuce e dà la soda.
Fatte in grazia della moda
Le fascette al collo adatta
Cento volte, e la crovatta
Rimisura e il manichetto
Questo mondo, etc.
L'arcimedico Galeno
Visitar sera e mattina
Ha per uso Messalina,
Che un tumor le cruccia il seno,
E non par contento a pieno
Se non spalma col buttiro
Di man propria quello sciro,
Che predice un mal' effetto.
Questo mondo, etc.
Corre fama che star sola
Già Penelope volesse,
Or la stanza ov'ella tesse
È de' Proci aperta scola,
Le raccoglie altri la spola,
Le rïempie altri il canello,
Ogni dì Fabbio e marcello
Fan la visita al Drapetto.
Questo mondo, etc.
Ier' piangea che non s'aprisse
Silvia il fondaco di Crasso,
Quando a lei rivolse il passo,
E per lei Claudio s'afflisse:
Non temer, quindi le disse,
Che quel serico lavoro
Che sì brami, or or t'imploro,
E in ciò dir fece un cennetto.
Questo mondo, etc.
D'Elicona il potestà,
Se ricopre quel ribaldo,
Se la lite, ingiusto Baldo,
A chi ha il torto vinta dà;
Questo e quel non tanto il fa
Per tesor, quanto che prega
Taide entrambi, e incanta e lega
L'uno e l'altro, con l'aspetto.
Questo mondo, etc.
So ben io le merendine
Che s'intimano sì spesso
Sotto gli olmi di Permesso,
Chi le guida, ed a che fine.
So ben io con le Sabine
Perché al fosso d'Ippocrene
Su le quattro se ne viene
Messer Romolo in farsetto.
Questo mondo, etc.
Rodopea solleva in testa
Quella sua mobil boscaglia,
Dimmi tu, Delio, a che vaglia
Su la fronte una tal cresta.
Forse vuol che intorno a questa
Frascherìa dispieghi l'ali
Qualche allocco, a fin che cali
Dalla frasca al trabocchetto?
Questo mondo, etc.
V'è di peggio. A che più tardi
Il castigo, o Febo, agli empi?
Vedi pur ne' propri tempi
Cenni, scherzi e risi e sguardi.
Ozïoso l'arco e i dardi
Non tener più fra le mani,
Fa tremar questi profani
Ch'han sì poco a te rispetto.
Questo mondo, etc.
Fa che resti fulminato
Chi ti fa cotanta ingiuria,
Un mercato di lussuria
Non sia Delfo a te sacrato;
Soffrirai de' Clodi a lato
Le Popee tra incensi e faci?
Dall'altar sarà che ad Aci
Galatea volga l'occhietto?
Questo mondo, etc.
Stian le vergini di Delo
Fisse in casa, o scorran Porto,
Ai delubri per diporto
Va la donna, e non per zelo,
Quando avvampa estivo il cielo
Non lasciar che all'aria oscura
Là di Focide alle mura
Si frequenti quel tempietto.
Questo mondo, etc.
Se portato per Libetro
È di Cibele il ritratto,
Senza legge, ecco ad un tratto
Tutto Pindo andarli dietro.
Mosso allor da un umor tetro
Fuor del seno il cor mi scoppia
Nel veder che lì s'accoppia
Spesso al pallio il guarneletto.
Questo mondo, etc.
Non è albergo in Lesbo dove
Non rinnovisi il ritorno
Di quel sempre lieto giorno
Quando nacque in Creta Giove;
Ivi a' nembi il popol piove,
O di fare appunto imita
Ciò che fa quando s'irrita
Nella gabbia l'augelletto.
Questo mondo, etc.
Vanno a gara le persone
Dove a doppio il son s'ascolta,
E la turba ov'è più folta
Fa maggior la confusione.
Per ritrarne divozione
Non si corre al dì festivo,
Non ha l'uom per fine il divo;
Ma la diva ha per oggetto.
Questo mondo, etc.
Uno scrupol mi rimane,
Che d'aprirtelo ho desìo;
Tu m'ascolta, o biondo dio,
Né lasciar mie preci vane;
Perché tanto e sera e mane
Alcibiade, e certi tali
Fan dimora alle Vestali?
Qual di ciò fai tu concetto?
Questo mondo, etc.
Ma qui taccio, o magno sire,
E noiarti io più non oso;
S'io peccai da curïoso,
Tu perdona a tanto ardire;
Altre cose avrei da dire,
Ma le serbo nel pensiero.
A tal'un ch'ha in odio il vero
Parrà troppo quel ch'ho detto.
Questo mondo, etc.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Rime inedite del 500 (XI-1)

Post n°837 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XI

[1 Di Cesare Caporali]

Sotto finti d'Amor dolci sembianti
La mia novella Circe oggi s'asconde,
Quasi scoglio coperto in mezzo a l'onde
Io la vidi pur or. Fuggite amanti,
Né v'inganni il mirar gl'abiti santi,
Gli occhi leggiadri e le sue trecce bionde,
Ch'in tronco, in sasso, in fera, in erba e in fronde
Son per mutar altrui magici incanti,
Et io, benché infelice, esempio umìle
Pur ne posso parlar, ch'in verde mirto
Già fui converso, ed or m'ha volto in pietra.
Ove, se pur col tacito focile
Battendo Amor qualche favilla impetra,
Sappia il mondo che dentro arde il mio spirto.

[2 Di Cesare Caporali]

Chiedendo un bacio a la mia cara Aminta
Fra sé stessa ne fu gran pezzo in forse,
Poi d'onesto rossor la faccia tinta,
La dolce bocca per baciar mi porse.
Da quel piacer allor l'anima vinta,
Lassando il petto inver' le labbia corse,
Né qui fermossi; ma di nuovo spinta
Da le mie labbia a le sue labbia corse.
Così restai senz' alma, et hor sospeso,
Mi tiene in vita quel soave umore
Ch'ella mi die' d'un novo spirto acceso.
Mandat'ho già per cercar l'alma e 'l core,
Né torna; anch'io, se vo, restarò preso.
Che debb'io far, che mi consigli, Amore?

[3 Di Cesare Caporali]

Cercando va per quest' e quel sentiero
Vener' il figlio, ed io, lasso e dolente
Nel core il tengo ascoso, onde la mente
Tutto in dubio rivolge il suo pensiero.
Ché la madre è superba e il figlio altiero,
E l'uno e l'altro in me puote egualmente,
Se più l'ascondo, già son tutto ardente;
Se l'appaleso, diverrà più fiero.
Oltre ch'io so che castigare Amore
Ella non vuol, né 'l cerca a tale effetto;
Ma sol perché ne dia piant' e dolore.
Dunque sta pur nascosto entro il mio petto,
Ma tempra alquanto il grave e troppo ardore
Ché più sicur'aver non puoi ricetto.

[4 Di Cesare Caporali]

Dopo tante percosse e tant'offese
Spogliati i tempii, accesa e ruinata
E tante volte e di sì stran paese
A tanta gente in preda abbandonata,
Misera Roma, e poi che l'arme hai stese
Nel tuo bel petto, ognor cerca l'entrata
Il proprio figlio, quai schermi o difese
Ti renderan mai più lieta o beata.
Già regina del mondo, hor quella, hor questa
Gente ti die' tributo e fessi amica
Or di quei primi figli è spento il seme.
Il Tebro il sa, ch'alla memoria antica
Di quei gran Scipii spesso alza la testa
E con fronte di toro irato freme.

[5 Di Cesare Caporali]

Duetto d'amore

Perch'aggio inteso, Amore,
Che tu ti vai vantando
Havermi fatto una superchiaria,
Hieri in presentia della donna mia,
Dico che se pensando
Andrai la verità circa il mio onore,
T'accorgerai che caschi in grande errore;
E che, s'altro furore
Ti commosse a parlar di me, parola,
Tu menti per la gola.
Perciò che se colei,
Che del mio mal si pasce,
Volgendo altrove i suoi bei raggi ardenti
Piangere e sospirar mi fa sovente,
Di questo già non nasce
Che per te siano a scherno i giorni miei
Al mondo; ma la colpa è sol di lei.
Dunque, se tu non sei
Più, come vuol' a me, crudo avversario,
Taciti, temerario.
Le sue dorate chiome
E i begli occhi lucenti,
Che m'arsero e ligar con varii nodi
Posson tormi a me stesso in mille modi
L'abito e i portamenti,
In cui vedem' quanto conforme e come
Sia tutto il rest'all'angelico nome,
D'ingiurïose some
Potran sempre gravarmi e tormi assai;
Tu già nulla, né mai.
Ma forse occasione
Tieni, cercando meco
Per introdurci insomma ad altro effetto;
Ma depon l'ali del fuggir sospetto,
Leva dal veder cieco
La benda, o un'altra a me simil ne pone;
A te tocca del campo l'elezione.
Allora il paragone
Ben si potrà veder che in uom che viva
Non hai prerogativa.
Tu quel che vali e puoi
Tutt'in parole e 'n riso,
In costumi, in sembianti, in guerra e 'n pace,
Di vaga e bella donna alberga e giace;
Ma qualora diviso
Da questi il tuo poter tu mostri a noi,
Vane le fiamme sono e i lacci tuoi,
Chiamami ove tu vuoi,
Purch'in difesa tua teco non sia
L'empia nimica mia.
E vedrai dove incorre
Chiunque non si misura,
E la lingua ha veloce e le man pigre.
Intanto l'ocean, l'Eufrate e 'l Tigre
Sapran per avventura
Come d'obbligazion m'intendo sciorre
S'in termin' ch'una volta il sol discorre
Il ciel l'impresa a torre
Non vieni, o mandi un per te in armi e presto,
Ond'abbia il mentitor condegno merto.
E per farne altrui certo
Io Furore intervenni a tal protesto
E a quanto si convien presente e desto;
Ed in fede di questo
Io Sdegno, ch'ogni ben volgo sossopra,
Affermo di mia man quanto di sopra:
Di marzo il giorno sesto,
Dove albergano insiem Ira ed Orgoglio
Con punta di pugnal fu scritto il foglio.

[6 Di Cesare Caporali]

Armata di quel fuoco e di quel ghiaccio,
Che fu discorde in sé nostra natura,
Con la sua falce adunca, in vest'oscura,
Morte già per ferirmi alzava il braccio.
Quando s'accorse il mio corporeo impaccio
Esser senz'alma, che già lieve e pura
Nel vostro sol, ch'ogni altro sol oscura,
La strinse Amor d'indissolubil laccio.
Ch'io viva oggi in altrui, né seppi ell'ove,
Colma di ira e stupor, quell'empia e ria
Tosto rivolse i fieri passi altrove.
Cura dunque di me, donna, in voi sia
Vivendo sana, se di me vi move,
Di conservar la vostra vita e mia.

[7 Di Cesare Caporali]

Sopra l'uccellare al frascato.

Quando scuopre Ciprigna i suoi crin belli
Ne l'orïente, e ne promette 'l giorno
Prend'io le reti e i prigionieri augelli
Per fare a' novi augelli oltraggio e scorno.
Fo quasi siepe di più rami e a quelli
Tendo l'inganno, e lor pongo d'intorno,
Che col fallace canto i più rubelli
Scender dal ciel fanno al mortal soggiorno.
Non longi entro alle fronde io mi raccolgo,
Fo tirando uno stame, un cenno infido
Ch'a terra invita quei ch'in aria stanno.
Vengon poi: tiro un fune, entro li accolgo,
Corro, e qual suol di noi l'empio tiranno,
Parte ne fo pregion, parte n'uccido.

[8 Di Cesare Caporali]

Sopra l'uccellar al boschetto.

Poco anzi che col volto e colle brine
Porti l'aurora a noi la luce e 'l fresco
Cingo d'inganni picciol bosco e 'nvesco
Poi mi prescrivo angusto entro confine.
E da parti lontane e da vicine
Semplici augei con falso metro adesco,
E frodi spesso con l'augel rinfresco
Di Palla, che di Febo ha in odio il crine.
Mostro l'augel notturno a un augel mio
Prigioniero, ed ei canta e par che chiami
Tal che sia per lo ciel l'aria battendo.
Quei non sì tosto ha il pie' sui mortai rami,
Che i vanni incauto invesca e cade, ond'io
Lo piglio e ancido, e nuova preda attendo.

[9 Di Cesare Caporali]

Già non d'Africa vint'o soggiogata
Né di Yuba, o Farnace, od altri eroi
Giran pomposi i temerari tuoi
Trionfi, or per via sacra, or per via lata.
Ma quando ben vincessi, o che lodata
Vittoria, o che dirìan gl'Indi e gli Eoi?
Questo crudel, dirìan, sui carri suoi
Menò l'afflitta madre incatenata,
Con tal' parole d'ira e duol presaghe
Roma dolente a pie' del marmo stava
D'una vittorïosa alta colonna,
E con la man già vincitrice e donna
De l'universo misurando andava
Nel proprio petto le profonde piaghe.

[10 Di Cesare Caporali]

Chi può troncar quel laccio che m'avvinse
Se ragion die' lo stame, Amor l'avvolse,
Né sdegno il rallentò, né morte sciolse;
Ma fede l'annodò, tempo lo strinse?
Il cor legò, poi l'alma intorno cinse,
Chi più conobbe il ben, più se ne tolse.
L'indissolubil nodo in premio volse
Per esser vinta da chi gli altri vinse.
Convenne al ricco bel legame eterno
Spregiar questa mortal caduca spoglia,
Per annodarmi in più mirabil nodo.
Onde tanto legò lo spirto intorno
Ch'al cangiar vita fermarò la voglia
Soave in terra e 'n ciel felice nodo.

[11 di Cesare Caporali]

Madrigale sopra lo spinello.

Amor, di strali armato
Ferìa molti pastor dal manco lato,
Quando mosso a pietà l'eterno Giove
Di tanta strage e scempio
L'armi di man gli tolse; onde quell'empio,
Per non dar fine alle sue antiche prove,
Ad un bel cespo verde
Di bianche rose, ove l'avorio perde,
N'andò correndo, e quindi or vibra irato
Tante pungenti spine
Ch'ogni ninfa e pastor conduce al fine.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (2-13)

Post n°836 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XIII
Come si dice a questo tempo d’ora 
mille trecento cinquantuno e sette, 
trecento venti tre correva allora. 
Qui passo a dir le discordie e le sette, 
di Massenzo, lo qual giá mai non fina 5 
di darmi angoscia in fin che meco stette. 
Qui passo a dirti la mortal ruina 
che di qua fece di ciascun cristiano 
e oltra mare ancor di Caterina. 
Tanto fu aspro e di costumi strano 10 
e nemico de gli uomini e di Dio, 
che certo piú non fu Diocleziano. 
Ma ora torno a dirti sí com’io 
abbandonata fui da Costantino, 
che possedea allora me e ’l mio. 15 
Nel mar si mise e tal fu il mio destino, 
che di Bisanzo un’altra Roma fece 
e quivi visse e finio il suo cammino. 
E cosí cadde fra le genti grece 
l’aquila mia, ch’i’ m’avea notricata 20 
mille anni e piú cinquantacinque e diece. 
Cosí mi vidi sola, abbandonata, 
ben ch’allora mi piacque; e cosí fui, 
non cognoscendo il mal, del me’ pelata. 
Ne l’acqua de la Fé bis fu costui 25 
lavato; e, se nel vero non m’annebbio, 
trent’anni e piú si tenne il mio per lui. 
Costui licenza di venire a trebbio 
a’ cristian diede e di far concistoro; 
e qui fiorio Nicolao ed Eusebbio. 30 
Un tempio fece a Pier di gran lavoro 
ed un altro a Lorenzo tanto vago, 
ch’assai vi spese d’ariento e d’oro. 
Apparve allora nel mio grembo un drago, 
ch’era sí velenoso e tanto crudo, 35 
che uccideva altrui sol con lo smago. 
Silvestro senza lancia e senza scudo, 
solo col segno de la croce, allora 
il prese e d’ogni possa il fece ignudo. 
Dopo costui, il mio rimase ancora 40 
a tre suoi figli, ma due funno tali, 
che poco in signoria ciascun dimora. 
Qui lasso a dir le gran discordie e i mali 
ch’ebbon fra loro e quanto funno ingrati 
in verso me e contro altrui mortali. 45 
Per costor vidi i Cristian tormentati 
ispesse volte e morti a gran dolore
e gli Ariani esser su sormontati. 
Ario fu il primo, onde mosse l’errore 
per cui giá Cristo appario a Pietro 
coi drappi rotti e senza alcun colore. 
Cosí, come odi, ora tornava indietro 
la nostra Fede e ora innanzi giva, 
sí come quella ch’era ancor di vetro. 
Tu vedi bene, per venire a riva 55 
del mio parlar, come in breve ti conto 
ciò che io allora vedeva e udiva. 
In questo tempo, che ora t’affronto, 
si portâr l’ossa di Luca e d’Andrea 
dov’è la mia soror sopra Ellesponto. 60 
In questo tempo Donato vivea, 
che de le sette, in sí breve volume, 
l’uscio ci aperse a la prima scalea. 
Questi tre figli, de’ quai ti fo lume, 
Costantino, Costanzio e Costante, 65 
nomati fun da le paterne piume. 
Venti quattro anni in questo bistante 
tennon lo ’mperio e quel che men mi spiacque 
fu Costantino, che piú visse avante. 
Seguio apresso Giulian, che nacque 70 
d’un zio di loro, a governare il mio, 
il qual trentadue mesi su vi giacque. 
E di costui questa novella udio: 
che poi che da Sapor fu vinto e morto, 
che ’l cuoio dipinse per gran sdegno e rio. 75 
Sagace fu e in arme assai accorto; 
ma troppo fe’, per quel che si ragiona, 
sopra la nostra Fé gravezza e torto. 
Gioviano, apresso, tenne la corona 
da sette mesi e, se ’l tempo fu poco, 80 
nondimen lodo assai la sua persona. 
Cristiano fu e fuggí come il foco 
ogni scommettitore, ogni discordia, 
e pace disiava in ciascun loco. 
Seguita ora, ne le mie esordia, 85 
Valentino, che, quanto a lui bisogna, 
ben seppe menar guerra e far concordia. 
Certo io credo ben che quando il sogna, 
per la paura, sí forte il percosse, 
che tutto trema ancor quel di Sansogna. 90 
E mostrato averebbe le sue posse 
maggiori assai, in Pannonia dico, 
se la morte, che l’assalio, non fosse. 
Quattro e sette anni mi fu buono amico. 

 
 
 

Rime inedite del 500 (X)

Post n°835 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

X

[1 Di Borso Arienti]

Sonetto del signor Borso Arienti

Mentre noioso fren mi tien lontano
Dall'alma luce, che il mio cor conforta
Non può legarsi il pensier che mi porta
Dinanzi a lei ch'ogni mia sorte ha in mano.
 
Onde vagheggio il bel sembiante umano
E con lei parlo, e ne la fronte smorta
Le mostro quanto duol l'alma sopporta
Lungi, e le bacio indi la bella mano.

Così diletto e gioia l'alma elice
Da sé medesma col pensier non lasso
Di sempre figurarla a parte, a parte.

E ben fora ella in ciò paga e felice,
Se non ch'a me tornando, veggio, ahi lasso!
Quant'aria dal bel viso mi diparte.

[2 Di Borso Arienti]

Di Borso Arienti

Amor che fa la donna nostra, quella
Ch'è mio sol, gloria tua, stupor del mondo,
Quella che coi begli occhi e 'l bel crin biondo
Ti somministra face, arco e quadrella;
 
Quella, ch'arde altrui 'l cor quando favella
Ch'inalza l'onestà già posta al fondo;
Quella a cui ogni stil fora secondo
E sopra ogni altra è saggia, e sola, e bella?
 
Ben vegg'io da lontan col mio pensiero
Che sproni e giri i begli occhi e le chiome
Ond'io n'ho preso, e tu se' adorno e altero.
 
Ma non ho poi spedite a volar come
Tu l'ali, e per me cosa altra or non chero
Pur che le piaccia ch'io l'adori e nome.
 
[3 Di Borso Arienti]

Di Borso Arienti
 
Per fuggir queste larve e questi mostri
Che mi stan sempre intorno e affliggon tanto
Che ormai si sface il cor per doglia in pianto
E non è chi pietà pur le dimostri.
 
Per ritrovar chi de' superni chiostri
Mi conduca al sentier riposto e santo
E mi consoli e doni aiuto intanto
Ch'il dorso io franga a questi draghi e mostri.
 
Hor peregrino, e sconsolato, e grave;
Né fatica m'affanna, o mi sgomenta
Per selve ombrose e solitari poggi.

All'ombra, al sole, in ogni parte là ve
O il raggio miri, o la sua fiamma senta
Cerco il mio sole, e spero vederlo oggi.

[4 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Già non potete voi, donna, sanarme
Perché mercede al cor finta si porga,
Che dalla mano ond'è che passi e sorga
Quanto in suo regno Amor di ben può darme.
 
Quella m'avventò al cor foco e per arme
Usola il crudo, indi il mio ben risorga,
O cada in tutto a pena, e duol mi scorga
Celata, o aperta pur cerchi quetarme.
 
Però ch'è ben ragion, né posso altro io,
Ch'indi s'aquieti il core, onde guerra ebbe
Ogn'altra medicina, e poca, e tarda.
 
Ardi' fu il colpo suo sì dolce e rio
Che ben che pera il cor, nulla gl'increbbe
E brama ond'ognor più s'impiaghi et arda.
 
[5 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Ti sei pur dunque tant'oltre avventata
Con le cerasti tue, furia d'Averno,
Che la mia primavera hai volta in verno
E m'hai la donna mia, lasso, rubata.
 
Sfinge crudel, idra a latrar dannata
Ch'hai gli altrui pianti a tuo diletto, a scherno;
Drago che fischi, e spiri, e vomi eterno
Nebbia e bile a turbar gli amanti nata.
 
Per te più che aspe è sorda, e fugge, e asconde
Quella i begli occhi a cui fui car' amante,
Or vile, ond'io non spero aita altronde.
 
Se non se', morte, altrui buia in sembiante,
A me non già mi rape e mi seconde
E del suo dolce oblìo m'asperga e ammante.
 
[6 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Luce degli occhi miei, pura e celeste,
Che quasi novo sol, novo anno apporti,
Ond'hanno e i giorni chiari, e i suoi conforti
Pur le mie notti tenebrose e meste.
 
Cessino hormai le nubi e le tempeste
Tante, e lo splendor torni e i color smorti
Qual di fior già dal verno secchi e morti
Or verde poggio si ricopre e veste.
 
Così il ciel serbi quel soave raggio
Del sole, ond'io son vivo, e tu sì bella
Et egli ha in noi sembianza eterno e aperto.
 
Ogni amante, ogni stil ti renda omaggio
T'adori, e quel che in altra orgoglio appella
Chiami poi ch'è divinitate e merto.
 
[7 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Già radunava l'ultime tremanti
Stelle l'aurora con le mani eburne
E lieve sonno alfin dopo gran pianti
Chiudeami gli occhi, e l'ore aspre e notturne.
 
Quando deposti i suoi crudi sembianti
Con le luci alle mie notti dïurne
M'apparve il mio bel sol: e perché tanti
Sospir, disse, Versar si dogliose urne?
 
Poscia coi bei rubin bacio gentile,
Di castitate e di pietate adorno
M'impresse, ond'anco refrigerio sento.
 
E col crespo oro fin nobil monile
Mi cinse al collo, ch'anco porto intorno
E partendosi lui rest'io contento.
 
[8 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Ragion è ben ch'io arda e che non trove
Refrigerio al dolor che mi disossa
Dall'alma luce mia lungi, che mossa
Dal vel rugiada nel mio foco piove.
 
Tu che non vuoi, signor, ch'io volga altrove
L'afflitto cor, né credo anco ch'io possa;
Dammi, ond'io possa quinci e rotta e scossa
La catena in ch'io son mirar' le nove
 
Sue forme e il vivo lume, e il dolce guardo
Ch'è scorta, e sole a le mie notti e al ghiaccio,
Onde senza di lei vo cieco e carco.
 
Fammi contro il rio fren lieve e gagliardo
Se per tuo onor, se per mio ben non taccio
E la strada mi sgombra e mostra il varco.
 
[9 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Tra questi ombrosi pini, ove riposta
Spelonca fanno con trecciati rami
Verdi ginepri, e par che l'aura chiami
Il pellegrino alla fresch'ombra ascosta.
 
Colei che fu dal ciel scelta e proposta
Perch'io l'adori sempre, e tema e brami,
Mi torna innanzi, e alla sinistra costa
M'impiaga e trammi il cor co' suoi dolci ami.
 
Ed io la prego, e s'io mi lagno e grido
Non val che ne la man tinte di sangue
Sen' porta il cor, che l'è sì pronto e fido.
 
E s'indi surgo e pur rinforzo il grido
L'alma in sé stessa torna e a doppio langue
Scorgendo tutto del suo core il nido.
 
[10 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Caro mio sguardo, or che volèi tu dirme
Mentre così pietoso e così mesto
Tra il nero manto e il puro avorio desto
Veniste il cor di nova piaga aprirme.
 
Sai pur che l'ardor mio per più ferirme
Non cresce oltre lo stral primo et infesto
Et or non sol non ho crudo e molesto;
Ma non può fuor che lui dolce venirme.
 
In tanto vostro duol dolermi anch'io
Qual' non vil servo e vero amante deve
Posto, e ben sallo Amor, donna, s'io ploro.
 
Ché s'io potessi il mio caldo desio
Giungere a riva, tornerebbe in breve
L'ostro a la guancia, e al crin l'ambra e il dolce oro.
 
[11 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
All'apparir del volto, onde da pria
Taciti entraro al cor, che langue e geme,
Dolor, timor, pietà, sdegno, odio e speme
Da cui io creda mai sicur non fia.
 
L'alma in membrar di lui sé stessa oblia,
Spera, arde, osa, chier' pace, e gela, e teme,
E tante ella ha varietati insieme
Che non è vita più penosa e ria.
 
Ahi! crudo Amor, arse il cor dunque et arse
Dolce e lieto finor perch'abbia in pene
Tra gelo e foco a incenerir eterno?
 
Oh! brevi gioie, e fuggitive, e sparse,
Chi l'aggiunge, o l'aduna, o le ritiene?
Quanto instabile è, Amor, il tuo governo!
 
[12 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Lungi dal mio bel sol questa contrada,
Che m'era già lucente, atra mi sembra,
E notte, e morte, e inferno mi rimembra
Tutto che più m'affligge e meno aggrada.
 
Lasso! che far non so, né dove io vada,
Che intoppa sempre queste afflitte membra
E sento ove il pie' volgo un che mi smembra
Tal ch'alfin converrà ch'io pera e cada.
 
Torna dunque, o mio sol, torna, e m'adduci
Quel bel sembiante onde i miei spirti han vita
E fa ch'io veggia le sue chiare luci.
 
Al proprio albergo omai l'alma smarrita
Col vicin raggio tuo dolce riduci
Ch'altronde altra, e tu 'l sai, non haggio vita.
 
[13 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Da mille pianti e mille prieghi vinta,
Pur volle alfin l'innamorata Clori
In seno a un prato d'amorosi fiori
Darsi in poter del fortunato Aminta.
 
Poi d'un color di rose asperta e tinta,
Sdegnosetta e tremante apparve fuori
Allor che vide i suoi perfetti onori
Quasi novella vite ad olmo avvinta.
 
Risero l'erbe a quel felice incarco,
E parea che d'intorno invido il vento
Portasse irato quei focosi baci.
 
E quando Amor, già stanco, allentò l'arco
Un augellin a l'alte gioie intento
Disse al pastor cantando: or godi, e taci.
 
[14 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Basciami, ed ogni bacio duri quanto
Dura il desìo che di basciarti porto;
Così basciami ancor, basciami tanto
Che 'l desìo del basciar resti a mi morto.
 
E se questo basciar ti sembra corto
Fa ch'ogni bacio sia lungo altrettanto,
Indi il raddoppia, e come il vedi scorto
Presso il suo fin, destane un altro intanto.
 
Non abbia il basciar nostro ordine, o modo;
Non abbia fin; moriam, ben mio, basciando,
Che sol quand'io ti bascio ho pace e gioia.
 
Ché gioia ha Amor senza basciarti? E quando
Senza bacio è diletto? In altro modo
Non so come vivendo uom dolce moia.
 
[15 Di Borso Arienti]
 
Di Borso Arienti
 
Musa, che ascosa e solitaria vivi
Tra questi verdi piaggie e verdi boschi,
Onde i miei dì di morte pieni e foschi
Molti sovente ebbi sereni e vivi.
 
Musa, che meco un tempo i dì partivi
Gli aspri assenzi temprando e i crudi boschi,
Ch'Amor, fortuna e ingegni sordi e loschi
Poser tra quei piacer che tu nodrivi.
 
Deh! poiché già gran tempo iniquo fato
Ne tolse i nostri allor dolci diporti,
Musa, omai torna a questo sconsolato.
 
Homai col tuo son dolce anco i conforti
Mi riconduci, Musa, e 'l primo stato,
Musa, che pace sempre e gioia porti.
 
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Rime inedite del 500 (VIII-IX)

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

VIII

[1 Di Mario Bandini]

[Dedica]
Quella medesima maraviglia del valor di Vostra Illustrissima Signoria che mi ha fatto ardito a scriver di lei un sonetto, mi ha fatto temerario a mandarglielo, ché certo ad altro non si può ascrivere lo ardir di mandar sì rozza cosa in le mani di così perfecto spirito, como è quello di Vostra Illustrissima Signoria. Pregola adunque che in questo permetta ch'io mi vagli de l'armi dell'umanità sua tanto più de l'usato, quanto ne ho più bisogno, essendo caduto in error di superbia, e tucto l'error compensi con el desiderio che ho di servirli et a Vostra Illustrissima Signoria bacio le mani. Nostro Signore Dio li dia longha prosperità.
De Bologna, a' 26 di Dicembre 1537.

[Sonetto]

A fama oggetto, a morte avara oltraggio
Spirito illustre, che la nostra etate
Fate serena, e a le più beate
Parti del ciel n'aprite il bel vïaggio,

S'io potesse con stil ornato e saggio
Lodarvi in carte quanto l'onorate
Vostr'opre merta, verno mai, né state
Potrìa extinguer di mia vita el raggio.

Ch'io viverei (vostra mercè) securo
Sempre, e s'a l'arbia col favor ch'intorno
Spargete al Po porgeste aiuto almeno,

Ne le scole di Marte orrido e duro
Berei per messo, e 'l mie felice giorno
Non vedrìte notte, né d'oblìo veleno.

[Poscritto]
Scripsi a Vostra Illustrissima Signoria più giorni sono con altra mia, quale dèi al Cavalier Marscalco, haverei caro saper almeno che quella fusse certificata che non ho indugiato fin qui a visitarla, como è mio debito.
Servidor di Vostra Signoria Illustrissima.
Mario Bandini.

[2 Di Veronica da Gambara]

Di m. Veronica da Gamara seguito

Solingo et vago augello,
Ch'hai sì ben sparsi i toi soavi accenti,
Or' odi i miei lamenti.
Io vissi in festa e sol di pianger vivo
Che d'altro già il cor lasso s'appaga,
E quella ond'io fiorivo
Invece del mio ben, del pianto è vaga.
Deh! guarda alla mia piaga,
Dolce augellino, e se pietà ti piega,
L'ale amorose spiega,
Va 'nanzi al mio bel sole
E dolce canterai queste parole:
Da te, d'amor, da tua beltà infinita
Chiede un misero amante o morte, o vita.
Nasce il desir da gran pena d'amore,
E dal desir depende la speranza,
Da la speranza un subito timore,
E dal timor sospetto per usanza,
E dal sospetto nasce un certo errore,
Dal certo error mala perseveranza,
Perseveranza crea poi mille inganni
Che mi fan tardo accorger de' miei danni.

IX

[Di Tommaso Castellani]

Alla signora Veronica da Correggio.

Gran tempo è omai, o illustra donna, ch'io
Sprono il mio stil, che reverente muova
A farvi onor, e mostri alcuna prova
Al vostro gran valor del servir mio.

Ma quando a tal' effetto poi l'envio
A tant'alto volar piume non trova
Hor spinto dal gran debito pur prova
Venir a voi con l'ale del desio.

Ma chi lodar, Veronica, vi vuole
Ben par che con la mente si confaccia
Di chi volesse accrescer luce al sole.

A me fia assai che 'l mio servir vi piaccia,
Non che 'l mio stil; ma dove udir si suole
La vostra cetra, la mia canna taccia.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (2-12)

Post n°833 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti
 
LIBRO SECONDO

CAPITOLO XII

Quando i miei danni e le cagion rimembro, 
veracemente dir non ti saprei 
quanto dolor sopra dolore assembro: 
onde, se pianger vedi gli occhi miei 
e hai rispetto a quel ch’a dir ti vegno, 
maravigliar per certo non ti dèi. 
Colui ch’or segue, che tenne il mio regno, 
fu ’l Magno Costantin, che, sendo infermo, 
a la sua lebbre non trovava ingegno, 
quando Silvestro, a Dio fedele e fermo, 
partito da Siratti e giunto a lui, 
sol col battesmo li tolse ogni vermo. 
E questa è la cagion, per che costui 
li diede il mio e tanto largo fue: 
benché contenta molto allor ne fui, 
ch’i’ pensava fra me: se costor due 
saran, com’esser denno, in un volere, 
temuta e onorata sarò piue. 
Per ver ti giuro ch’io credetti avere 
sí come il ciel, qua giú la luna e ’l sole 
e starmi in pace e con essi a godere. 
Ma colei che ci dá speranza e tole 
e che gira e governa la sua rota 
non come piace a noi, ma ch’altrui vole, 
la mia credenza ha fatto di ciò vôta, 
come ben può veder, a passo a passo, 
qual il mio tempo digradando nota. 
Ond’io accuso, quando ben compasso, 
il lor mal fare, per l’una cagione 
per la qual son caduta sí a basso. 
L’altra dir posso natural ragione, 
perché ogni cosa convien aver fine 
in questo mondo, che mortal si pone; 
la terza, le mie genti cittadine 
vivute senza fede e senza amore, 35 
punte d’avare e invidiose spine. 
Piú potrei dir, ma se tu poni il core 
al ver di queste tre, vedrai per certo 
ch’esse radice son del mio dolore. 
E cosí t’ho mostrato e discoperto 40 
quel di che mi pregasti tanto chiaro, 
che quasi il dèi, com’io, vedere aperto". 
Qui si taceo e mai non lacrimaro 
occhi di donna lacrime sí spesse, 
come i suoi quivi il viso bagnaro. 45 
E quale è sí crudel che si potesse 
veggendo la pietá del suo gran pianto, 
tener che ’n su quel punto non piangesse? 
Non credo un serpe, c’ha il cuor cotanto 
acerbo; ond’io non fui allor sí duro, 50 
ch’apresso lei non lacrimassi alquanto. 
Ma poi che ’l pianto suo amaro e scuro 
vidi allenar, parlai per questo modo, 
pieno d’angoscia, reverente e puro: 
"Io ho sí ben legato a nodo a nodo 55 
ne la mia mente ciò che detto avete, 
ch’a pena una parola non ne schiodo. 
Vero è, madonna, ch’una nuova sete 
m’è giunta, poi che cominciaste a dire 
di quei signor, coi quai vivuta sete. 60 
E questo è solo di volere udire 
de gli altri, i quali il vostro governaro, 
sí come den per ordine seguire. 
Onde con quanto amor può figliuol caro 
a la sua dolce madre mover preghi, 65 
vi prego che per voi qui ne sia chiaro, 
a ciò che s’ello avièn che giá mai freghi 
la penna, per trattar di questa tema, 
che i nomi lor co’ nominati leghi. 
Ché noi veggiam che quando un’opra è scema, 70
che sia quanto vuol bella, l’occhio corre 
pur al difetto che la mostra strema. 
Ma quando è sí compiuta, che apporre 
non vi si può, allora si vagheggia 
e qual cerca vederla e qual riporre". 
Ond’ella mi rispuose: "Ben che veggia 
ch’esser non può la cosa mai perfetta, 
che manchi o che sia piú ch’esser non deggia, 
io sono tanto dal dolor costretta, 
che gran pena mi fia giungere al segno, 80 
dove a me pare che ’l tuo arco saetta: 
ché vo’ che sappi che quanto piú vegno, 
parlando, verso il tempo ch’or ne cinge, 
che piú con pianto mi cresce disdegno. 
Ma pure il prego tuo tanto mi stringe 85 
e ’l dover, poi, per la ragion che hai mossa, 
che nel mio cor verace si dipinge, 
che presta son, secondo la mia possa, 
oltra seguire e ricordar coloro 
per li quali fui piú e men riscossa, 90 
secondo che vertú regnava in loro. 

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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