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Messaggi del 02/01/2015

Rime inedite del 500 (XLI-3)

Post n°948 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLI

Quattro intermezzi fatti per la piscatoria del signor Antonio Ongaro detta Alceo, che si doveva recitare in casa delli signori Vincenzo, Francesco e Pompeo de' Catti fratelli, l'anno del 1593, composti per il signor Anibal Poccaterri, signor Luigi Putti, signor Orazio Areosti, signor Alessandro Guirini.

Ad instanza del signor Francesco Sarasini, il quale hebbe cura di tenere insieme le parti che recitavano in detta Pescatoria; le quali erano li gentilhuomini che allora facevano camarada in casa di detti signori Catti, ed ebbe cura di far fare la scena nel curtile di detti signori al scoperto, la quale quasi finita e fata la spesa di scudi 300 in circha, e invitati Sua Altezza Serenissima e tutti li cavaglieri principali de la città, che il giorno seguente si dovea recitare venne una piova grande che rovinò lo scena e non si potete recitar la pescatoria.

[3 Di Alessandro Guarini]

Interlocutori: Thetide, Achille, Coro di donne che cantano e saltano.

Intermezzo III

Thetide

O destrieri dell'acque,
Ecco del vostro nuoto
E del mio lungo corso il fin'è giunto.
Deh! pur mi doni il fato
Che giunga anch'egli il mio desio in porto,
E dell'unico mio diletto figlio,
Che in alto sonno involto ho qui condotto
Io sua pietosa madre
Cessi il mortal periglio
Che gli minaccia il ciel nemico d'Asia.
O sola del mio cor dolce radice,
Tu dormi, ohimè!, tu dormi
Ed io, misera me!, la notte e i giorni
Meno per tua cagione
Vigili e tormentosi.
Come, viscere amate,
Sarà possibil mai
Ch'alle materne lagrime, a' sospiri,
A' prieghi di colei, ch'a te già diede
E lo spirto, e la vita
Il tuo cor indurato non si spezzi?
Ah figlio! Ah figlio! il tuo feroce ingegno
L'invitto animo tuo, che sol di gloria
Ha immoderata sete;
E quell'(ohimè!) che col dolor m'ancide,
Tu per udir delle canore trombe
Il fiero suon, ch'alla battaglia sfida,
Sordo non udirai
Il fiebil suon de' miei pietosi accenti?
Oh! Troia, de' miei mali
Amarissimo fonte;
Oh! del troiano eroe
Troppo crudel rapina,
Ch'altrui la sposa, a me rapisce il figlio;
E voi di ferro e di guerrieri onuste
Navi, d'Asia terror, di Grecia pianto,
Se voi di render gravi
Sì prezïosa salma;
Se i vostri lunghi errori
De' seguir il mio figlio,
Disserri e sleghi il dio rettor dei venti
I tempestosi noti,
Sì che turbato il mar, sempre turbata
Miri la greca agente.
E tu che nel ciel regni, o sommo Giove,
Che sol del fato negli eterni abissi
Vedi i segreti agli altri dei mal' noti;
Se deve Achille ne' troiani campi
Inevitabilmente
Cader ferito e morto, e me sua madre
Lasciar orba e dolente,
Ah! tu ch'onnipotente
Se' detto, fa ch'egli non parta,e resti.
Tu del cor giovanil gli ardenti affetti
E i spiriti guerrieri
Tempra e sopisci, tu, che 'l tutto puoi;
Questo suo cor cangiando
Che sol di guerra e mortal guerra è vago.
Inspira nel suo petto
Vital desìo di pace e di riposo.
Signor benigno, ascolta
Questi miei prieghi, che pietà materna
Bagna di calde lacrime et amare;
Ma che col tuo favor tardi a destarlo?
A che tanto diffidi?
Breve stilla di pioggia un sasso rompe,
Non potrà largo pianto,
E pianto di pietosa e diva madre,
Spezzar ancor un cor di figlio umano?
Figlio? Ma per sé stesso ei si risveglia;
Vuo' tacer, e vedere
Qual sarà meraviglia
Del varïato cielo
E di mirar mia deità presente.
Achille
Ecco il lido, ecco Troia,
Armi, ecco Ettore. Ah! che vaneggio.
Ma dove sono, e dove longa caccia
Oggi m'ha tratto! Io già non ho memoria
Di questa spiaggia mai, di questo mare,
Di questi alpestri scogli,
E dove è Pelio et ossa?
Ma tu chi sei, che con divino lume
M'assali? Ah! ben ti riconosco o madre
A me questa tua luce
Recar non può se non notte d'infamia.
Conosci la tua fraude, i tuoi disegni,
La tua pietà crudele.
Ai regi et agli eroi;
Alle palme, ai trofei
M'ha tolto, et or m'espone
Agli scogli e alle selve.
Thetide
Figlio, misero figlio,
Di più infelice madre
Il mio materno amor, la mia pietate
Che tu, crudel, crudel a torto chiamo
Al tuo fiero destino,
Alla fatal tua morte
Ti sottragge e ti dona
A la mia vita, di cui non have il mondo
Cosa più pretïosa.
Achille
Sì, se vivesse senza onor il mondo.
Thetide
L'onor'è un ombra di fugace bene.
Achille
La vita senz'onor è come morte.
Thetide
Ma l'onor senza vita è un fumo e un sogno.
Achille
È padre della gloria e della fama.
Thetide
E la fama e la gloria è un'eco vana.
Achille
Ella è dell'uomo la seconda vita.
Thetide
Ell'è più tosto la seconda morte.
Achille
Chi glorïosa fama uccider puote?
Thetide
Il tempo micidial de' nomi e d'opre.
O figlio, tu non sai, né saper puoi
(Ché tua tenera età non lo consente)
Quali faccia tra noi alte rapine
L'artiglio irreparabile del tempo.
Per lui rovinan le città possenti,
Per lui cadono i regni,
Per lui la vostra fama,
Che tanto il vano mondo apprezza ed ama,
Qual nebbia al vento si dilegua e sface
In questo vostro sì mirabil mondo,
Che goder non potete,
Se non vivendo. Altro di vero bene
Che la vita v'è dato:
La vita, che natura
Nostra madre comune
Insegna a custodir con tanto studio
Non agli uomini solo;
Ma quel ch'è suo mirabil magistero
A tutto ciò che sotto il ciel ha vita.
Dunque perché sprezzar sì caro dono?
Perché gittar invano
Così caro tesoro?
Vivi, mio figlio, vivi,
E se lo stame de' begli anni tuoi
Di recider non curi per te stesso,
S'a te per te la vita non è cara,
Siate almen cara (ohimè!) per me tua madre,
La qual' s'avesse amor, com ebbi un tempo
Luogo e stanza nel ciel tra gli altri dei,
Stella tra l'altre grande e rilucente,
Ti stringerei tra le materne braccia;
Così tu di periglio, io di timore
Saremo entrambi fuore.
Ma poiché ciò ne vieta il ciel nemico,
E che son già vicini
I termini fatali,
I giorni, ohimè!, pericolosi tanto,
Cedi, deh! cedi al fato,
Soggioga alquanto i tuoi virili affetti,
E queste vesti ch'io
Solo per tua salute ho qui recate
Non isdegnar; ma soffri
Di veste femminil' andar ornato;
Acciò da crudo e dispietato ferro
Così tosto non sia lacera e guasta
Della grand'alma tua la viril veste.
Ma perché torci il guardo?
Ah! che minaccian le sdegnose luci?
Ti vergogni tu forse
Che con questi ornamenti
S'amollisca il tuo cuore?
Per te, mio figlio, i' giuro,
Giuro per l'acque de' congiunti mari
Ciò non saprà Chirone il tuo maestro.
Coro di donne che cantano e ballano:
Corriam, veloce piede
Mostra devota fede.
Corriam a coglier fiori
Per celebrar di Palla i sacri onori.
Ecco già scopre un odorato Maggio
Del sol novello il mattutino raggio.
Thetide
Par ch'in vista si sia cangiato e cangi
Mirando sol di quelle donne il coro.
Sì come amica mente
Le seguita col guardo.
Oh come a un tempo solo
Arrossa, impallidisce, e suda, e trema.
Questi d'amor son segni ch'io conosco;
Egli ama certo, oh caso fortunato!
Io ridurro con questo mezzo forte
L'ostinato suo cor alle mie voglie.
Vedesti, o figlio, quali
Splendean, tra queste selve
Fra quest'alpestre scoglio e quest'arene
Beltà più che terrene?
Non sotto l'agghiacciato Pelia ed ossa
Miravan gli occhi tuoi
Così rare bellezze
Di cui, se vago sei,
Ascolta per goderne i detti miei.
Tra così dura impresa,
Per cagione amorosa,
Tra così belle donne
Finger l'abito e 'l nome,
Odi, mio figlio, come
Ti coprirò con queste spoglie, e i crini
Di chiome feminili
T'innestarò con sì leggiadro modo
Che qual vergine poi
T'introdurrò nella bramata schiera
Delle amate donzelle.
Tu intanto ascolta, e fa de' miei ricordi
Fida conserva, e quando il tempo il chieda
A tuo pro te ne serve.
Sia breve e lento il passo,
Gli occhi sian parchi e le parole rare,
Pronto il rossor, tarda l'audacia, e l'ira
Del cor in tutto spenta.
Così mentisci, me maestra, il sesso.
Nel rimanente poi
Segui quel che t'insegna
Natura, Amor, l'occasïone e 'l Tempo.
Achille
O Achille, o da te stesso,
O da principii tuoi tanto diverso,
Che più non merti d'esser detto Achille.
Sogni tu forse? Ah! non son sogni questi
Sono degli occhi tuoi purtroppo desti
Effetti, onde tu sempre
Di te medesmo teco ti vergogni.
Son questi i finti usberghi, e queste l'armi
Ch'alla pugna apparecchi?
Or' va guerriero invitto,
Dell'asta invece, e fa fuggir con questa
L'armate schiere a tua vergogna estrema.
Ma che parlo? Che penso? E qual fierezza
Chiudo nel petto? E qual crudo desio
Sol di sangue e di strage, e sol di morte
D'ogni umano pensier l'alma m'assale?
Ho io di fiera il core,
In cui sempre s'annida ira e furore?
Fiera allor fui, che con le fiere io vissi,
Or! son uomo, e mi pregio
Che quest'anima mia
Incominci a sentir gli effetti umani.
Amor, da te l'umanità conosco.
Che dico Amor? Anzi da te, mia donna,
Che con la tua beltà, madre d'Amore,
Rendesti in questa mia mente amante.
O sesso, già da me tanto sprezzato
Ed or tanto adorato.
O donna, o santo dono, e santo pregio
Del cielo e di natura,
Quanto in virtù di tua bellezza puoi!
Tu con questa dai vita a quell'affetto
Ch'in vita cerca il mondo, Amor chiamato;
Onde per te sol viene, e per te solo
Caro sostegno suo non cade il mondo,
L'uomo che più di te si pregia e stima,
Perché di te più di superbia abbonda,
Senza te che sarebbe? Un secco tronco,
Una sterile pianta, e quel ch'è peggio
Sarebbe in petto umano alma ferina.
Ché, s'il sesso virile è mansueto,
Tale tu 'l fai, e quanto ha di gentile,
Di cortese e d'umano,
S'ingrato egli non fosse, da te sola
Riconoscer dovrebbe.
Ma che tardiamo, o madre,
A seguir il mio sole?
Non più, non più parole.
Ecco di nuovo appar, di nuovo s'oda
La celeste sua luce ed armonia.
Thetide
Taci, mio figlio, mira solo et odi.
Coro di Ninfe:
Queste rose e questi achanti
Saran' poi de' nostri amanti.
Ch'esser può devoto un core
E di Pallade e d'Amore.
Amiam, l'Amor è nume, anzi guerriero;
Bellona ha l'asta, ha l'arco il cieco arciero.
Achille
O sirene del cielo,
Ch'in terra non son già cose sì rare
Dalla bellezza del suo volto acceso,
Dalla dolcezza di tua voce preso,
Teco viene il suo core,
Io 'l segno, a noi fido sia duce Amore.
Thetide
O ciel benigno, o fati amari, o Giove,
Quanto, signor, la tua pietà mi giova.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-16)

Post n°947 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XVI

Trattato del secondo sen, che serra
Italia, segue che dir mi convene
del terzo, che la Grecia tutta afferra. 

Io dico che, seguendo, la mia spene 
m’incominciò a dir: "Tu se’ in Dalmazia: 5 
per che con senno andare si convene, 
ché questa gente, per la lor disgrazia, 
benché sian nati del sangue di Dardano, 
pur non di men del mal far non si sazia. 
Son come tigri, ché par che sempre ardano 10 
per uccidere altrui e per rubare 
e poco a Dio e meno ai Santi guardano. 
Una cittá fu giá qui lungo il mare, 
che diede il nome a questo paese 
ch’ è grande, onde per noi fa l’affrettare". 15 
Cosí andando e parlando, discese 
in Epirro, che dal figliuol d’Achille, 
secondo ch’io udio, lo nome prese. 
Noi trovammo, cercando quelle ville, 
una fontana, dove l’acqua scende 20 
fredda e sí chiara, che par che distille. 
Quivi, se l’uomo una facella prende 
accesa e ve la tuffa dentro, spegne; 
poi, se lungi la gira, si raccende. 
E perché chiaro ogni luogo disegne, 25 
i Molosi son qui che da Moloso, 
figliuol di Pirro, il nome par che tegne. 
Non è qual fu di forma Oreste ascoso 
nel paese di Sparta e di Laconia, 
li quai cercammo senza alcun riposo. 30 
Un monte v’è, il cui nome si conia 
Tenaro, ed èvi ancora lo spiraglio 
d’Inferno e qui si credon le dimonia. 
Per questi luoghi dandomi travaglio, 
presso a Patrasso nove colli vidi, 35 
ch’ombra v’è sempre e non di sole abbaglio, 
Taigeta e ’l fiume; e di lá li piú fidi 
fan fe’ del prelio, che fu anticamente 
tra i Laconi e gli Argivi, e de’ micidi. 
Noi fummo dove andar solean le gente 40 
al tempio di Castore e Polluce, 
ben ch’ora è tal che poco si pon mente. 
La galatica pietra quivi luce, 
utile a quella che ’l figliuol nutrica, 
ché natura ha ch’assai latte produce. 45 
E, per quel che di lá par che si dica, 
Antea, Leuttra, Teranna e Pitina, 
ciascuna fu famosa e molto antica. 
Dal re Inacus il nome dichina 
d’Inaco fiume, che pare uno strale: 
sí corre, quando pioggia vi ruina. 
Vidi in Arcadia Cilleno e Minale: 
questi son monti e passammo Liceo, 
acerbo molto a colui che vi sale. 
Ancor notai il fiume Erimanteo, 55 
cosí nomato da Erimanto duca, 
che per udita quivi si perdeo. 
L’albeston lí natura par produca, 
che a Giove in contro al padre fu difesa, 
sì come in molti versi par che luca. 60 
La pietra è tal, che, poi ch’ella è accesa, 
mai non si spegne e somiglia a vederla 
di ferrigno colore e grave pesa. 
E come fra noi è nera la merla, 
candida è sí di lá, che par pur neve: 65 
dolce a udire e bella a tenerla. 
Fama è quivi da gente antica e breve 
che Arcas ad Arcadia il nome diede, 
figliuol di Giove: e cosí l’hanno in breve. 
Io ti giuro, lettor, per quella fede 70 
ch’io trassi de la fonte, che sol quello 
ti scrivo, che per piú autor si crede. 
Assai mirai, ma non vidi, il castello 
di Pallanteo, per quel che fece a Roma 
Evandro col figliuol, che fu sì bello; 75 
ma pur tra quella gente vile e doma 
la fama è morta, sí ch’io dico bene 
che qual ne parla quello indarno noma. 
La vera Grecia fu dov’è Atene, 
la qual cittade giá si scrisse alonna 80 
di ciascun ben, ch’a buon regno convene. 
Questa si disse sostegno e colonna 
d’ogni arte liberal, questa si tenne
di filosofi antichi madre e donna. 
Ellenadon Deucalionis venne 85 
re del paese e da costui poi move 
che la contrada Ellas dir si convenne. 
Qui vidi cose molte, antiche e nove; 
ma, per amor di Teseo, notai 
sassi Scironia prima che altrove. 90 
Cinque monti con Icario trovai: 
Ebrieso, Egialo, Licabetto 
e Imetto, degno piú degli altri assai. 
Giunti a un sentiero solingo ed istretto 
d’un gran monte, Solin mi disse: "Vienne, 95 
ché buon per noi è far questo tragetto". 
Grave era il poggio a salir tanto, che nne 
fece posar piú e piú volte; in prima 
tremâr le gambe e riscaldâr le penne,
che noi fossimo giunti in su la cima. 100
 
 
 

Rime inedite del 500 (XLI-2)

Post n°946 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLI

Quattro intermezzi fatti per la piscatoria del signor Antonio Ongaro detta Alceo, che si doveva recitare in casa delli signori Vincenzo, Francesco e Pompeo de' Catti fratelli, l'anno del 1593, composti per il signor Anibal Poccaterri, signor Luigi Putti, signor Orazio Areosti, signor Alessandro Guirini.

Ad instanza del signor Francesco Sarasini, il quale hebbe cura di tenere insieme le parti che recitavano in detta Pescatoria; le quali erano li gentilhuomini che allora facevano camarada in casa di detti signori Catti, ed ebbe cura di far fare la scena nel curtile di detti signori al scoperto, la quale quasi finita e fata la spesa di scudi 300 in circha, e invitati Sua Altezza Serenissima e tutti li cavaglieri principali de la città, che il giorno seguente si dovea recitare venne una piova grande che rovinò lo scena e non si potete recitar la pescatoria.

[2 Di Luigi Putti]


Intermezzo del signor Aluigi Putti. Arione parla.

Intermezzo II

Arione
Deh! qual pietosa deitade eterna
A questi lidi salvo oggi m'adduce?
Qual divina virtù tanto comanda
Al sordo mare e a le marine belve?
Quinci chiaro si scorge
Turba che miri, e ti stupisci quanto
D'anima saggia i sommi divi han cura.
Arione son' io, quell'Arione
Ch'al suon di questa cetra
Ispiro in umil cor nobil desìo,
Et in nobil desio spirti divini;
Dò spirto e senso all'insensate piante,
Agli insensati e inanimati sassi!
Ché non può dotta mano e saggia mente,
Vivo onor di me stesso, ed in me stesso
Quanto possa virtù si vede espresso.
Nacqui in Metimna, e fra' Corinti poi
A Periandro re sì caro i' vissi;
Che se di quello onde la pazza schiera
Del volgo sciocco vanamente è vaga
Fossi anch'io stato ambizïoso amante,
Entro i tetti reali eternamente
Lungi da ogni altra cura avrei goduto
Quasi a pari del re gioia e riposo.
Poco io temea gl'invidïosi morsi
Dell'invida famiglia, e m'eran poco
Noiosi a l'alma adulatori insani.
Non avean mai dentro al mio petto albergo
Desìo d'onore, o cupidigia d'oro;
Ma di mia sorte assai contento e lieto
Vivea tranquilla e moderata vita,
Nulla il soverchio desïando, e nulla
Per la fortuna mia superbo, o vano
Che di quello s'appaga alma prudente
Che lice, e tanto quanto de' s'estolle.
Ma che giova il goder? Stavo tranquillo,
Noto a pena a sé stesso, e di sé stesso
Entro angusto confin chiuder il nome.
Preposi alfin d'onor la voglia ardente
E vago anch'io di far' eterna al mondo
La mia fama, ancor debile ed inferma,
Poco stimando le grandezze e gli agi,
Lasciai Corinto, e verso Italia bella
Per lo salato mar drizzai le prore.
Vidi Italia felice, ivi talora
Cantai fra ninfe boscherecci carmi;
Ed accordai con ruvida zampogna
E con stridula canna umili accenti.
Talor fra gente nobile e guerriera
Snodai la lingua in più sublimi note,
E fei qual'io mi fossi a tutti chiaro
A regi ed a bifolchi, e fui non meno
Ne' palagi Arïon che nelle selve.
Cantai qual foco amoros'alma senta,
Come beltà di donna impiaghi e scalda
Amor, che spesso entro due lumi ardenti
Di nascoso attendea l'anima al varco.
Ad incauto amator feci palese
Talor sotto soavi
Parolette e sospiri,
Sotto amorosi scherzi
E sembianti amorosi.
Scopersi altrui mirabilmente l'angue,
Temprai d'afflitto cuor gli affanni e 'l duolo
Col mio canto, e sovente
Le tempeste acquetai d'alma sdegnosa.
Cantai ebro di gioia e di dolcezza
Le dolcezze talor d'alma felice.
I dolci risi, i dolci vezzi, i dolci
Ed amorosi baci,
E quel dolce morire,
Che dà vita al gioire.
Così nell'arte mia mirabil mastro
A tutti caro i' vissi, e ricco alfine
Di gemme e d'oro, entro del cor mi nacque
Un gran desìo di riveder Corinto.
Oh fame empia dell'oro, a quali cose
Non tiri tu gli avari petti umani?
Gente cortese in apparenza, e piena
Di scellerata voglia
Sopra un securo legno allor s'offerse
Di condurmi a Corinto. Io tutto lieto
Con le cose più care il legno ascesi,
E di placido mar solcammo l'onde.
Fendea del lieve pin l'acuto rostro
L'onda tranquilla, e de le bianche vele
Gonfiava i lini a noi benigno il vento.
Era tutto oggimai
Dagli occhi nostri dileguato il lido,
Quando l'avara turba,
Ch'e poco dianzi sì benignamente
M'accolse, allor tutta crudel m'assalse,
E mi disse: Arione, oggi deponi
Quant'hai di prezïoso in poter nostro.
Così volean l'oro, le gemme, e quanto
Io meco avea tutto rapirmi a forza.
E per far che sepolto eternamente
Fosse il lor disonesto, empio desire,
Voleano il corpo mio gettar' a l'onde.
Io che pregando molte volte indarno
Tentai da lor ricomperar la vita;
Alfin quando conobbi
L'opra esser vana, una sol cosa chiesi,
Che dei più degni vestimenti ornato
Che meco avessi, e carco di quell'oro,
Premio di mie fatiche, inanzi morte
Cantar con la mia cetra una sol volta
Potessi almeno il mio misero fato;
E quasi novo cigno
Intonar' io medesmo
A me medesmo i funerali accenti.
Trovò questa dimanda
Pietà nel cor di quella cruda gente,
E soltanto da lor pregando ottenni.
Cantai qual mi vedete
D'oro ornato e di gemme, in ricche vesti,
In alta parte asceso, e dopo il canto
Precipitoso io mi gettai nel mare.
Abbian, diss'io, con la mia morte fine,
Anime avare, il mio felice stato,
Le mie ricchezze, e vostre inique brame.
Allora, oh! mostro di pietà divina,
Pronto al bisogno mio fra l'acque apparmi
Un veloce delfin, che quinci ancora
Fuor' de l'acque si scorge, e sopra il dorso
Tosto portommi qual vedeste a voi,
Onde ragione è ben che la mia lingua
Canti oggi la pietà che mi die' vita,
E quel pesce cortese,
Che quinci anco si vede, e forse attende
Grazie da me, grazie infinite io renda.

Arione così detto, canta la seguente stanza:

Eterni duci, che reggete il freno
A vostra voglia de l'acquoso regno,
Ceda il suo fulminar Giove sereno.
Non vanno i suoi de' pregi vostri al segno,
Il cielo eterno non racchiude in seno
Di quel che sia fra voi pregio più degno;
Non son fuori del mar grazie più rare,
Poiché il mar di pietà si trova in mare.

Poi si volta al delfino, e così dice:

Te, cortese delfino,
Che mi portasti al lido
Con presto moto e fido
Non ti lasci il tuo Dio
Fra il numeroso armento
Del liquido elemento;
Ma sì cortese e pio
Come esser' a te piacque
Ti faccia un Dio de l'acque,
Se pur ne l'acque sei,
Fra pesci, come sembri, e non fra dei.

Qui si parte il delfino, e seguita Arione e dice:

Tu parti, ed io mi parto.
Quella potenza che può farti eterno
Del tuo corso e del mio tenga il governo.

Tratta da:
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (XLI-1)

Post n°945 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLI

Quattro intermezzi fatti per la piscatoria del signor Antonio Ongaro detta Alceo, che si doveva recitare in casa delli signori Vincenzo, Francesco e Pompeo de' Catti fratelli, l'anno del 1593, composti per il signor Anibal Poccaterri, signor Luigi Putti, signor Orazio Areosti, signor Alessandro Guirini.

Ad instanza del signor Francesco Sarasini, il quale hebbe cura di tenere insieme le parti che recitavano in detta Pescatoria; le quali erano li gentilhuomini che allora facevano camarada in casa di detti signori Catti, ed ebbe cura di far fare la scena nel curtile di detti signori al scoperto, la quale quasi finita e fata la spesa di scudi 300 in circha, e invitati Sua Altezza Serenissima e tutti li cavaglieri principali de la città, che il giorno seguente si dovea recitare venne una piova grande che rovinò lo scena e non si potete recitar la pescatoria.

[1 Di Annibale Pocaterra]

Intermezzo del signor Anibal Pocaterra. Glauco parla.

Intermezzo I.

Glauco

O fortunato Glauco, or sì ch'hai fatto
Una preda da uomo, anzi da mastro,
Anzi da Dio nonché da uomo, o mastro;
Non ti dorrai già più de la ventura.
Mira un poco quai pesci oggi pretendi
Da far' invidia a quei (così son' belli)
Che guizzano immortai là su nel cielo,
E se piacciono agli occhi, a quel ch'io credo,
Privo non fia del suo piacere il gusto.
Vadano i regi ambizïosi, alteri
Di scettri adorni, e di corone e d'ostro,
Portino il sen pien di spinose cure,
E lor' combatta eternamente l'alma
Dolor mortale ed immortal timore,
Ché non fia mai che Glauco invidia porti.
A le infelici lor felicitadi
Me questa cura e questa vita giova,
Povera sì; ma giusta ed innocente.
Questa sete è il mio manto, e questa canna
Lo scettro di pensier vuoto e d'affanni.
Questi miei pesci sono il mio tesoro,
Di vivo argento almen, s'ei non è d'oro.
D'oro non è, ché con inganni e frodi
O con ingiusta e vil arte s'acquisti,
Qui non si vende, o non si cambia, o compra;
Ma i don si godon della donatrice
E madre de le cose, alma natura.
O caro mio tesoro, o cara preda,
Con che soavità, vien' ch'io ti miri
Traggansi avanti que' superbi duci,
Ch'hanno di ferro insieme il core e l'armi;
Guidino armate schiere, empian di strage
E di sangue, e di morte il mondo tutto:
Portin mille corone, abbian d'intorno
Al carro trionfal misera pompa
Di presi e vinti innumerabil stuolo.
Io non invidio lor, né cangerei
Con tutte le lor' palme e spoglie opime
Una del pesce mio minima squama;
Né già sarebbe ciò senza ragione,
Ché non s'agguaglia a pura e giusta preda
Come è la mia, preda nefanda e cruda,
Di sangue uman contaminata e brutta.
Questa mia preda a me natura insegna,
Ond'io sostenga la mia vita frale;
Ma da la lor torse natura il guardo,
E son di lor' ministri ira e furore,
Cupidigia, violenza e feritade.
Segua in somma chi vuol Marte brutale,
Io vo' seguir Nettuno, e la sua caccia,
Non già quella de' monti e delle selve,
Ch'ancor che quella sia com'è la nostra,
Arte innocente di natura anch'ella,
Bisogna che d'ingegno almeno e d'arte
A la caccia del mar ceda e s'inchini.
Il seguir' animal fugace in terra
Nel tuo elemento, in cui tu fermi il piede
E stender gli occhi ov'egli stende il corso
Qual meraviglia è questa? E se tu 'l giungi
Perché sia vinto da stanchezza, o vero
Perché l'arresti o fossa, o fiume, o monte,
A creder mio non è mirabil cosa;
Ma tentar elemento altrui, non nostro,
Il seguir fere agli occhi istessi ignote
E con mille argomenti in fiumi e in laghi
E nell'istesso aperto, immenso mare
Farle prigione ov'han' libero il nuoto,
Oh! questa sì ch'ogn'altra industria avanza.
Però non fia già mai ch'io lasci, o cangi
Per studio alcun questo mio nobil studio
Quel domar tutto il dì la terra arando
A me non piacque mai, né fia che piaccia.
Troppo è lungo aspettar un anno intero
De le fatiche e de la terra il frutto;
Ove i campi del mar fruttano ogn'ora:
Il pascere curar gregge ed armenti,
E un servo divenir de' servi suoi.
Io vuo' dunque seguir quest'arte mia,
Utile, onesta, ed ingegnosa e degna
Dei primi abitator', del cielo eterno,
E ben' esser' ne de' stimata e degna,
S'il maggior Dio che sia fra tutti i dei
Non isdegna seguirla; io dio Amore,
A cui già l'insegnò fin dai primi anni
La bella madre sua che nacque in mare.
E pescator Amor e non guerriero,
Com'altri vuole, anzi com'altri sogna;
Ché s'egli in atto di ferir armato
Agli occhi nostri si mostrasse, e quale
Sarìa quel cor così securo e franco
Che non fugisse spaventato altrove?
Ma vien' celato Amor, che tu nol' vedi;
E quando in chioma d'or' vien, che s'appiatti,
E quando nel seren di duo begli occhi
Talor tra i fiori di vermiglie guancie,
Talor s'asconde tra fiorite labbra,
Qui tende mille insidie e mille reti,
Ond'egli colga i miserelli amanti.
Assai sovente ei suol pescar all'amo
E l'adesca talor con dolce riso.
Talor con un soave, onesto sguardo,
E quando d'un vezzoso atto gentile,
O di melate parolette il cuopre.
Come l'anima incanta e desïosa,
E s'avventa a predar l'esca divina,
E d'amor resta preda, anzi di morte.
Quinci le donne, che compagne sono
Di Venere e d'Amor son date a l'arte
Sol di pescar, e pongono in pescare
Tanto studio, che lor darebbe il core
Prender pescando anco l'istesso Amore.
E ben per prova io 'l so, ch'ancor ch'io sia
Sì scaltro pescator, fui preso anch'io
Dalla più bella, e più leggiadra e vaga
E gentil pescatrice, e pellegrina,
Che nell'onde d'Amor unqua pescasse.
Ma dove mi trasporta estrema gioia
A così ragionar? S'altri m'udisse
Mi stimerebbe pazzo, ov io son lieto.
Meglio fia che la dolce, amata preda
Io posi in grembo a quest'erbetta molle,
E ch'io procuri ormai che questa rete,
Che Nettuno bagnò, Febo rasciughi.
E uno, e due, e tre, e quattro, e cinque,
Ma fia meglio contarli alla capanna.
Quand'io vi miro ben, siete pur belli
Ancorché morti, io vuo' stender la rete.

Qui stende Glauco la rete, e intanto canta una frottola; poi soggiunge queste parole:

Ohimè! che veggio? Ohimè! Dunque se n' fugge
E non posso, ed è vero.
Pur' era morta. Oh meraviglia! E come?
Ma io son' desto, o sogno,
Son vivo, o morto? Ah! che son vivo e desto,
E veggio la mia preda, e veggio il vero.
Già ne l'onde fuggita,
Né posso ristorar il mio gran danno.
Ahi! son le leggi di natura rotte,
O è mutato in ciel novo consiglio
Che si racquisti la perduta vita?
È quest'opra stupenda
Di qualche deità, sacra et occulta,
O pur del suco di quest'erba è forza?
Ma qual puote aver mai virtute un'erba?
Vuo' pur far prova che sapore abbia.
Ohimè! ch'è quel ch'io sento?
Son io, o non son io?
Tutto sento cangiarmi.
Deh qual novo desìo, anzi furore
Mi rapisce a bramar nova natura?
Star più non posso, o terra,
Mai più da me per non vedersi a Dio.
Io vengo, o mar, io vengo a mutar mondo,
Siimi cortese del tuo sen profondo.

Qui sorgono quattro ninfe del mare, mentre che Glauco entro vi si immerge e cantano il seguente madrigale:

Vieni, o felice Glauco,
Dal cielo amato, sì ch'ei si compiacque
Farsi d'uom della terra un dio de l'acque.
Vita innocente e pura
A goder si conduce alta ventura,
Che mai bontà senza mercede eterna
Non lascia il giusto dio ch'il ciel governa.

Una delle ninfe parla dopo ch'hanno cantato insieme:

Avventurato Glauco,
Quanto lodar ti dei
D'esser consorte in mar degli altri dei.
Ma non minor in noi la gioia nasce
Che facci in te dall'esser tu beato,
La nostra per l'altrui gioia s'avanza
Come lume per lume,
E quinci risonar' hai forse udito
Quando sei giunto in questi salsi umori:
Ecco chi crescerà li nostri amori.

Qui Glauco in fra le ninfe in mazzo l'acqua parla e dice:

Di gioia e di stupor sì pieno ho il core
Ch'io non so se sia vero, ed è pur vero,
Che mia natura frale
Sia cangiata in divina ed immortale.
O provvidenza eterna,
Quando fia mai ch'io ti ringrazio e lodi?
Già di render le grazie io non mi vanto,
Se non m'aìta, o ninfe, il vostro canto.

Qui le ninfe e Glauco cantano insieme il seguente madrigale e poi si partono ed attuffansi in mare.

Ogni cosa creata
Ben deve al suo fattore
Donar quanto più può gloria ed onore.
Ma noi con qual misura, o con quai modi
Canterem le sue lodi,
Se sopra noi senza misura piove
La gloria di colui che 'l tutto move?

Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-15)

Post n°944 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XV

"Poi che hai veduto e udito a parte a parte
le novitá de l’isola e il costume,
è buon prender la via in altra parte": 

cosí mi disse lo mio vivo lume. 
E io a lui: "Va pur, ch’io son disposto 5 
a te seguir con l’ali e con le piume". 
Indi si mosse e io altresí tosto 
e, giunti al mar, salimmo sopra un legno, 
ch’andava dritto ov’io avea proposto. 
Per questo modo appunto ch’io disegno, 10 
in Lipari passammo, cosí detto 
da Liparo, che in prima tenne il regno. 
Senza smontare, con benigno aspetto 
m’incominciò il mio consiglio a dire: 
"Apri l’orecchie qui de lo ’ntelletto. 15 
Tu dèi pensare al cammin che de’ ire; 
se ben dovessi ogni isola cercare, 
col tempo ch’ai nol potresti fornire. 
Per ch’io l’abbrevierò, senza l’andare, 
additandoti sempre, quando andremo, 20 
dove son poste e come stanno in mare. 
Per queste parti, lá dove ora semo, 
quattro ne sono nominate poco, 
ché ’l ben, piú che non suol, n’è ora scemo. 
Iera è l’una, che per lo molto foco 25 
che fuori sbocca, a Vulcano è data 
per fabbricare e posseder quel loco. 
Ad Eolo re è Strongile sacrata, 
per li gran venti ch’escon de la foce, 
mortali e fieri alcuna fiata. 30 
Ancor per tutto è nominanza e voce 
come Erifusa e Fenicusa aora 
Venus per dea e a lei fan la croce. 
Dal mar di Pisa in fino a qui ancora 34 
tu truovi la Gorgona e la Caprara, 35 
Pianosa e dove Giglio fa dimora. 
L’Elba in fra l’altre vi par la piú cara, 
sí per lo molto ferro e per lo vino, 
per Capolivro e ’l Porto di Ferrara. 
E truova chi ben cerca quel cammino 40 
Ponza, Palmara, ch’Astura vagheggia, 
quando ’l tempo è ben chiaro e pellegrino. 
E cosí, ricercando questa pieggia, 
non si convien che Bucetta si lassi, 
che con Gaeta ognor par che si veggia. 45 
Ancor si truova l’Ischia in quei compassi 
e Capri: e queste stanno in contro a Napoli 
sí presso, che vi vanno in brevi passi. 
Gli abitator vi son subiti e vapoli: 
lodano Dio coloro che vi vanno, 50 
se senza danno da lor sono scapoli. 
Contro a Scalea e Andreano stanno 
Didini e la Micea e questa gente 
la via di Conturbia spesso fanno. 
Or puoi veder ch’io son, se ben pon mente, 55 
venuto in su la punta di Calavra, 
a onde, sempre, come va il serpente. 
E perché il vero a l’occhio tuo ben s’avra 
qui la piú parte al modo di Grecia 
parlano e hanno costumi di cavra. 60 
Ora mi volgo al golfo in vèr Venecia, 
dove isolette sono assai, ma tale 
che per me poco ciascuna si precia: 
perché la cosa tanto quanto vale 
dee l’uom pregiare e chi tiene altro modo 65 
inganna altrui e spesso a sé fa male". 
Qui si taceo; e io ch’a nodo a nodo 
legato avea nel cuor le sue parole, 
li dissi: "Ciò che di’ intendo e odo. 
Ma fammi chiaro ancor, vivo mio sole, 70 
da cui derivan questi tanti nomi, 
che ’n questo poco mar la gente tole". 
Ed ello a me: "Per li superbi e indomi 
pelaghi, venti e scogli, che l’uom trova 
da Pisa al Corso, in fin ch’al Sardo tomi, 
Leone è detto, e poi par che si mova 
da Liguria il Ligur, la cui pendice 
tien quanto mare il Genovese cova. 
Ionio da Io ancora si dice 
e da Adria cittade l’Adriano, 80 
la qual di qua fu giá molto felice". 
Cosí, per non passare il tempo invano, 
ragionavamo insieme ed ello e io 
sempre di quello che m’era piú strano. 
Passato noi Suasina, udio 85 
dire al padrone: "Durazzo ci è presso, 
dove Giulio Cesar giá fuggio". 
"Buono è smontar, disse Solino, adesso". 
E io a lui: "Quel che credi che sia
lo miglior, fa, ché tu sai qual’è desso". 90
Indi scendemmo e prendemmo la via.
 
 
 

Il Dittamondo (3-14)

Post n°943 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XIV

Sempre parlando, lungo la marina
andavam per le parti di Peloro
in fin che fummo lá dov’è Messina. 

Dubbio non è, e fama n’è tra loro, 
che da Mesen, che fu d’Enea trombetta, 5 
lo nome prese, al fin del suo lavoro. 
"Qui puoi veder, disse Solin, la stretta 
lá dove Silla si converse in mostro 
e puoi udire i mugghi che vi getta. 
E guarda come col dito ti mostro: 10 
vedi Reggio in Calavra, lo qual mira 
con diece miglia e men dal lato nostro. 
Ma vienne omai, ch’altro disio mi tira 
e fa che spesso muovi la pupilla 
al dolce e bel paese che qui gira. 15 
Etna vedi, che il fuoco sfavilla 
per due bocche, con mugghi, in su la vetta, 
sí che vi fa tremar presso ogni villa. 
E, con tutta la fiamma che fuor getta, 
veder si può canuto in tutto l’anno, 20 
sí come un vecchio fuor di sua senetta. 
Quei di Catania in contro al fuoco vanno 
col corpo di Colei, che per dolore 
vinta non fu da Quinzian tiranno". 
Nel prato fummo, dove fior da fiore 
Proserpina scegliea, quando Pluto 
subitamente ne la trasse fore. 
E poi che ’l lago fu per noi veduto 
de’ cigni, ci traemmo a Siracusa 
per quel cammin che ci parea piú tuto. 30 
Questa cittade per antico è usa 
d’essere prince e donna di ciascuna 
altra, che veggi in questa isola chiusa. 
Dedalo fabbro, dopo la fortuna 
acerba del figliuol, qui si governa 35 
con altri Greci che seco rauna. 
Miracol pare a uom, che chiar dicerna, 
che qui udii che mai giorno non passa 
che ’l sol non apra chiara sua lucerna. 
Due monti vidi, de’ qua’ ciascun passa 40 
gli altri d’altezza, Etna ed Erice; 
a Venus l’un, l’altro a Vulcan si lassa. 
E vidi ancor, cercando le pendice, 
Nebroden e Nettunio alti tanto, 
che due mar veggon, per quel che si dice. 45 
Passato ca’ Passaro e volti al canto 
di Pachino, vedemmo andare a frotta 
tonni per mare, che parea un incanto. 
Passato Terranova e le sue grotta, 
e Gergenta, puosi a l’Africa cura, 50 
che guarda in vèr Libeo e parne ghiotta. 
Dubbio non è che per la sepoltura 
di Sibilla, che fu sí chiara e vera, 
al castel di Libeo la fama dura. 
Ne l’isola dir posso che Cerera 55 
sí per li cieli e sí per gli alimenti 
sí come donna, quanto altrove, impera. 
Uomini sottili ed intendenti 
v’ingenera natura e temperati 
con bei costumi e con buoni argomenti; 60 
volti di donne chiari e dilicati, 
con gli occhi vaghi quanto a Venus piace, 
onesti e ladri in vista, se li guati. 
Poco par posto il reame a aver pace 
per le male confine e per la gente 65 
aveniticcia, che dentro vi giace. 
Maraviglia mi parve, a poner mente, 
lo sale agrigentin fonder nel foco 
e in acqua convertir subitamente. 
E vidilo, ch’ancor non mi fu poco, 70 
gittatolo ne l’acqua, con istrida 
scoppiarne fuori e non trovarvi loco. 
Cosí andando dietro a la mia guida, 
notava de le cose, ch’io vedea 
e ch’io udia da persona fida. 75 
Io fui tra i monti, dove si dicea 
che Ciclopis venia alcuna volta 
a donneare e pregar Galatea. 
Apresso, noi venimmo a dar la volta 
dove trovata fu la comedia, 80 
secondo che per molti lá s’ascolta. 
Diverse cose ragionare udia 
di natura di canne, tanto sono 
dolci a sonar ciascuna melodia. 
Non vo’ rimanga ascoso e senza sono 85 
il campo agrigentin, ché, se non erra 
colui con cui dí e notte ragiono, 
quivi sempre esce terra de la terra. 
L’isola tutta, a chi gira il terreno, 
vede, per vero, che si chiude e serra 90
con tre milia stadi e non con meno.
 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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