Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 03/01/2015
Post n°960 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Mira la morte di Chastel' del Rio, E 'l chassò la fortuna, la vendetta, Cerbero il corpo, e l'alma maledetta Gli rode e strazia e fanne il suo disìo. Ei filiale omizida et assassino, Ladro, tiranno, infame, agiontadore, Ingrato, crudele, superbo e rio, Turco, judeo, marrano, proditore, Lupo rapaze, porco e can mastino, Ribelle al mondo, a la natura e a Dio.
Perch'una volta mi parve godere, Et bontà lor' gustai un piacer grande, Sì fresco mi tenevano il sedere. E lassate pur dir delle mutande, O brache, che c'è quella differentia Ch'è da le cose basse alle ammirande. Però, madonna, abbiate patientia S'io vi sgradisco senza alcun respetto. Le vostre brache a la vostra presentia Son' tutte raccamate, io ve l'ammetto, Son lavorate per le vostre mani; Ma non è cul che non vi vada astretto. E tutti quanti e povari christiani Che l'hanno, a l'orinar son poi forzati Alzar la gamba al muro come i cani. I calzon' son pampogi, e tanto agiati Ch'a far' tutti i servigi di natura Non c'è homo, né donna che ne patì. Hanno dinanzi una certa fessura Per d'onde si dà 'l passo a la brigata Da entrare e uscir senza paura. Questa commodità fu ritrovata Anticamente, al tempo de' latini, Et fu da lor' feminalia chiamata. Hor'io non so perché questi assasini Moderni tanto biasmin questa usanza Con dir' ch'oggi gli portano i facchini. E non voglion che donne di creanza Gli portino, e ne fan' tanto romore I frati in ... dell'osservanza. O povero Augusto imperatore, O Claudio, o Tiberio, o Costantino, Voi pur li portavate a tutte l'ore. Io prego li ... di san Martino Che mettin fra le lor' tante heresie Che si' el portarli de voler divino. Forse che quest'ingotta alle fratìe Non li svergognarebben, come fanno, In piazza, per le chiese e per le vie. Questi non sono un continuo affanno Come le calze a la povera gente, Che danno a ognun che le port' el malanno. El Sarteano è pur suffisiente Et li porta com'entra in primavera Tutta la state e mai non se ne pente. E mi ha detto più volte a buona cera Che molte gentil donne valorose Li adopran l'invernata intera, intera. E la state vi tengon fiori e rose (Se son' chiusi da pie', come bisogna) Per odorar' tutte le parti ascose. Son necessari a chi ha della rogna, E s'a donne venisse una disgrazia Son cagion che non mostran la vergogna. Una ne conosch'io che mai si sazia Di mostrarli pe 'l fesso della veste, Fallo però con modestia e con grazia. Hor'io concludo che le donne oneste Devon' portarli senza reprensione I dì da lavorare e delle feste. E che coloro han poca discrezione (E meritan gastigo duplicato) Che biasimon' così bella invenzione Perché gli è abit'in tutto approvato Da saggi antichi nostri, e oltre a questo È util' et onesto accommodato. A voi, donne, lass'hor di dirne il resto, Poi che pensando a quel che copre e vela S'ingrossa el stile et io esco dal sesto. Vorre' che qui fornisca la mia tela, Non già per mancamento di ripieno; Ma per non far qualche longa querela. E se i calzon' non son lodati a pieno, Incolpisi chi troppo gli nasconde Quando gli è tempo che veduti sieno. So che c'è chi m'intende e non risponde. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Il Dittamondo Non so che pensi, ma se tu mi chiedi consiglio, ce ne andremo per lo piano, 5 perché ’l salire è peggior che non credi". "Sia quanto vuol, diss’io, acerbo e strano, ché per amor di que’, che giá l’usaro, cercar lo voglio da ciascuna mano". Cosí risposto, senza alcun contraro 10 a salir presi il salvatico poggio, che, per non uso, altrui è molto amaro. Non era al mezzo, quando stanco e roggio sí venni, ch’io ’l chiamai piú d’una volta, ché innanzi m’era: "Attienti, ch’io m’appoggio". 15 Come la madre, che ’l figliuolo ascolta dietro a sé pianger, si volge e l’aspetta, poi lo prende per mano e dá la volta, si volse a me, in su la ripa stretta, con un bel volto e porsemi il suo lembo 20 e, presol io, mi trasse in vèr la vetta. Saliti al sommo del piú alto sghembo, le cittá vidi, che m’eran d’intorno, di sotto, sí com’io le avessi in grembo. E vidi ancora, sopra ’l destro corno, 25 dove fu giá sacrificato a Apolo in un bel tempio e di ricchezze adorno. E vidi l’altro dato a colui solo per cui le figlie di Mineo giá grame, lui dispregiando, fenno il cieco volo. 30 Cosí menando me per quelle lame, trovammo un piano quasi in su la cima, salvatico di spini e d’altre rame. Per quello un’acquicella si dilima bagnando l’erbe e scende per lo monte 35 sí dolce a ber, ch’ogni altro amar si stima. Poscia mi trasse ove sorgea la fonte, dicendo: "Fa che dentro al cuor dipinghe ciò che vedrai con gli occhi de la fronte. Quest’è Aonia, ov’eran le lusinghe 40 al sacrar de le Muse, bench’adesso pochi ci son, che di quest’acqua attinghe. Di verdi pini, abeti e d’arcipresso 43 d’ulivi, di mortella e di alloro era aombrato da lungi e da presso. Qui fun le nove suore e fen dimoro; qui per esser ben certa Pallas venne di questo loco e de la vita loro. Qui trasformâr li peli umani in penne le Pieride e qui udito avresti 50 li mal di Pireneo e che ne avenne. E se quanta vaghezza mai vedesti fosse ora qui di donne e di donzelle, piene di bei costumi e atti onesti, e per miracol ci apparisson quelle 55 nove, ch’io dico, diresti ch’un sole fosse venuto tra piccole stelle. Similemente ne le lor parole soavi e vere ti sarebbe aviso che le altre tutte ti dicesson fole. 60 E cos' in questo luogo, ch’io diviso, quando vivean queste vergini sante, dir si potea il terzo paradiso. Questo bosco di prun, ch’abbiam davante, era di fiori di gigli e di rose 65 adorno e d’altre dolcissime piante". Ragionato che m’ebbe queste cose con altre assai, ch’io non pongo in norma, cosí al suo parlar silenzio pose. E io a lui: "Se tu puoi, qui m’informa: 70 questa fontana sí chiara e sí viva in questo luogo come e chi la forma? E dimmi ancora, a ciò ch’altrui lo scriva, i propri nomi de le nove Musa, che fun sí degne ne la vita attiva". 75 Ed ello a me: "Del sangue di Medusa nacque un cavallo alato, che qui vola e con le zampe la terra pertusa. In men ch’io non t’ho detto la parola, quest’acqua, che tu vedi, fuor n’uscio, 80 che tanto chiara per lo monte cola. Euterpe, Melpomene, Erato, Clio, Talia, Polimnia: queste nota perché cosí giá nominar le udio; Tersicore intendente e rimota, 85 Calliope col suo parlare adorno, e Urania, dico, celeste e divota. Ma vedi il ciel che via ne porta il giorno: onde letto farem di queste fronde, ché miglior luogo non ci veggio intorno. 90 E ber potrai de l’acqua di queste onde e de’ frutti salvatichi gustare, che, bench’altri gli schifi, egli han pur donde posson la vita a l’uom più lunga fare". |
Post n°958 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
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Post n°957 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno, Indice 1
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Post n°956 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Il Dittamondo Quivi nascero e fun deificati Ercules ed Apollo e ciò par degno, 5 se al ben far loro e a l’usanza guati. Quivi Penteo, cui Bacco avea in disdegno, converse in porco; onde la madre afflitta, fuggendo a lei, li tolse vita e regno. Quivi si vide Niobe trafitta 10 la figlia in grembo e riguardar nel pianto le piaghe de’ figliuoli e la sconfitta. Quivi s’udio il dolcissimo canto d’Anfione, col qual facea i sassi muovere e saltar di canto in canto. 15 Ma vienne omai e seguita i miei passi e sappi ben che ’n Tessaglia se’ giunto e che Boezia di dietro ti lassi". Apresso questo, non istette punto; prese la via e io, mirando sempre 20 come ’l paese sta di punto in punto. "Non vo’, figliuol, che la penna si stempre del dire, per l’andare; e tu ancora m’ascolta e fa che dentro al cor l’assempre. Questa contrada piú tempo dimora 25 col nome di Emonia e poi Tessaglia da Tessalo fu detta e questo ha ora. Ma guarda dritto, se ’l sol non t’abbaglia, oltre a que’ colli il Farsalico piano dove fu de’ Roman la gran battaglia. 30 E vedi ancor, da la sinistra mano, dove, accesi di vino e di lussuria, fu de’ Centauri fatto il grande sbrano: io dico quando funno in tanta furia, che volsono sforzar uomini e femini 35 e che Ceneo morí per loro ingiuria. E se mai versi al mondo di ciò semini, la morte di Cillaro e la tristiziap d’Ilonome farai ch’a dir ti memini. Vedi lá il bosco, del quale è notizia 40 ch’ Erisiton tagliò la quercia sagra, per che la Fame venne in fin di Sizia, pilosa, con grand’unghie, oscura e magra, la qual del fallo fe’ sí gran vendetta, che sol l’udita altrui par forte e agra. 45 Oh, quanto è bestia l’uom, che non sospetta di fare ingiuria a la cosa divina, se non v’è Cesar, che ’l ciel gl’imprometta! Guarda Larisa, ch’ è di qua vicina, e Ftia ancora, che nel tempo antigo 50 famose funno per questa marina. E sappi che lá Iuppiter fu origo d’Eaco, di Pelleo e di Achille; d’Esone e di Ianson, ma d’altro rigo. Dopo queste lucenti e gran faville, 55 Pirro e Moloso seguîr senza fallo: di qua signoreggiâr cittá e ville. Quest’è il paese dove pria il cavallo domato fu e coniata a spesi moneta del piú nobile metallo, 60 e che veduti fun con gli archi tesi in su’ corsieri per questa pianura prima Centauri che in altri paesi: onde la gente semplicetta e pura i due credean uno e di tal mostro, 65 quando ’l vedeano, avean gran paura". Cosí parlando, dritto al cammin nostro trovammo Anigro: uccide se vi caccia bestia il ceffo ovvero uccello il rostro. Io volea bere e rinfrescar la faccia, quando disse Solin: "Non far, ché in esso è tosco e sangue"; e presemi le braccia. Come parlò, cosí pensai adesso: quest’è quel fiume, dove si lavaro le triste piaghe i compagni di Nesso. 75 Apresso disse quel padre mio caro: "Vedi Parnaso: e se tu vorrai bere, quivi son fiumi e ciascun dolce e chiaro. Ma guarda a destra, ché lá puoi vedere la selva dove saettando uccise 80 Pelleo Foco e non per suo volere. Per questo, il padre del regno il divise: onde passò in Trachinia a Ceice re e per un tempo quivi a star si mise. Indi partio; ma non ti dico che 85 fu poi di lui, né ’l dolce e vago amore di Ceice e d’Alcione e la lor fè; e non ti conto con quanto dolore Ceice nel mar con la sua nave affonda, 90 né come l’alma si partio dal core d’Alcione, trovatol sopra l’onda". |
Post n°954 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Delle tue lodi a l'infinita altezza, Non che in stil dirne d'ogni parte intiero? Che dovendo onorar la tua grandezza, Sacro, inclito signor, quanto richiede Poco sarìa ciò che qua giù s'apprezza. Ma alla gran parte in che mancar si vede Li onor' ch'oggi ti fa Felsina lieta Supplisca il buon voler, la pura fede. Ché, se potesse quel che a lei si vieta Non d'altro vincitor, d'altro vessillo, Più altamente mai cantò poeta. Se Paolo, Mario, Cesare, o Camillo Trionfar' più onorati, oh! fausto giorno Da memorar nel candido lapillo. Chi or vede d'un nuov'Ercole il ritorno, Prostrato avendo il fier leon Nemeo, Che in Flaminia a' pastori era gran scorno,v Vede il chiaro e magnanimo Teseo, Che a' più insolenti e indomiti centauri Spento ha l'orgoglio altrui nocivo e reo. Donagli Apol' degli odorati lauri Verdeggiante corona, il grido estendi Dalle rive del Gange ai lidi Mauri; E perché i nuovi gesti, alti e stupendi Mal si puon celebrar con mortal suono, Placido nume or tu dal ciel discendi. Con quella lira e in quel più ardente tuono Temprate ch'esser vuol quando tu canti Da Flegia e Giove, e i dei presenti sono. Simil materia avrai d'altri giganti, Figli del mar, che d'Adria il nome porta, Tumidi, al padre eguali et arroganti. Questi con mente dal diritto estorta I regni a lor non debiti occupando, Tolto il voler, non la ragion, per scorta, Ecco caduti son subito, quando Quel che il scettro di Giove in terra regge Pur tratta fuor de la giust'ira il brando, Con cui l'insania altrui batte e corregge, Con questo il lor ardir vano ha percosso, Che al ciel credeano ancor poter dar legge. E sopra lor tanta ruina ha mosso, Che non Etna, non Ischia con tal pondo A Encelado e Tifeo calcàro adosso, Onde ai futuri secoli nel mondo S'udiran per miracolo le cose Magne, che fatte avrà Giulio secondo. Benché al presente sì meravigliose Non siano a chi il valor, l'alta prudenza, E l'altre sue virtudi or' son nascose. Perché di Dio la somma previdenza L'ha mandato qua giù, non cagion lieve, Sel per tornar' la chiesa in riverenza. Oh! quanto lieto in ciel star' oggi deve L'almo padre Silvestro, a cui son note Le vittorie che Giulio oggi riceve; Ché riguardando dall'eterne rote, Vede da Giulio esser novellamente Reintegrato di sua prima dote. Quanto in quelle città gaudio si sente, Che d'aspra servitù ridutta in stato Son d'aurea libertà, stato innocente! Si dica: o venerabil porporato, Che Giulio, e Giove, e tu a disposizione Di lui sei l'emisfero raggirato, Varie sorti a' mortali il cielo impone, E ben che il motor primo tutto scorge, Con le seconde cause opra e dispone. Tuo gran voler, che a mortal fama sorge, Così l'eccelse imprese assume, come Il divo Giulio le disegna e porge; E perché ben le più pesanti some Regger sai con prudenza, e 'l tutto adempi, Tocca in gran parte a te la gloria e 'l nome. Ma a quai sì degni mai gl'antichi tempi Posero, come a voi poner' si denno, Arche, statue, colonne, altari e tempî? Che si potrà ben dir: questi duoi fenno Gran cose, e a gloria eterna il ciel gli spinse, Acquistata con l'opre e con il senno. Domò i nepoti, e per tiranni estinse Giulio Ligure invitto e glorïose, L'altro in Flaminia venne, vide e vinse. Questo è il savio e magnanimo Alidoso, Cardinal di Pavia, ch'al pastor santo Fu sempre d'obbedir pronto e geloso. Or' a' vostri alti titoli un sol vanto S'aggiunga, e non già mai fia il più soprano, Alla chiesa, alla fede, al papal Mauro. Poiché de' sommi regi è in vostra mano L'impero, e l'armi, deh! movete i passi Al nido ove Gesù fu pellicano. Ma veggio all'alta impresa ordine dassi, Già del rumor il Maumettano trema, E par che i lidi già fuggendo lassi. Del celeste favor punto non scema, Giulio ecco ha l'ali aperte al santo volo, E presto a nostra età gloria suprema Vedrem farsi un ovile e un pastor solo. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°953 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Il Dittamondo Sí come il pellegrino che si fida per buona compagnia d’andar sicuro, andava io apresso a la mia guida. Ma però ch’io vedea diserto e scuro, come ho detto, il paese d’ogni parte, 5 ch’era giá stato tanto degno e puro, feci come uom, che volentier comparte l’andar con le parole, per men noia e per trar frutto del suo dire in parte. E cominciai: "Nel bel viver di Troia, 10 e prima ancora e lungamente apresso, si scrive che qui fu valore e gioia. E io mi guardo e giro intorno adesso e veggio la contrada tanto guasta, ch’io ne porto pietá in fra me stesso. 15 E questo ancora al mio pensier non basta; ma io truovo la gente cruda e vile, ch’esser solea gentile, ardita e casta". Cosí parlai e la mia scorta umile rispuose: "Come di’, pien di vertute 20 fu giá questo paese e d’alto stile. Ma se or vedi le cittá abbattute e coperte di verdi spini e d’erba, e le vertú ne gli uomini perdute, imagina che parte è per superba 25 e imagina che ’l ciel, che qua giú guata, niuna cosa in sua grandezza serba. Pensa ov’è Roma, che fu allevata con tanto studio, e com’è ita giuso quella che in Caldea ancor si guata. 30 Questa ruota del mondo l’ha per uso, cioè di far le gran cose cadere e le minor talor di montar suso". Cosí, prendendo del parlar piacere, un poggio mi mostrò e disse: "Vedi: 35 quivi è la via che ci convien tenere". E io a lui: "Va pur, come tu credi che ’l meglio sia, ch’io ti sono a le spalle, ponendo sempre, onde tu levi, i piedi". A la man destra lasciammo la valle 40 e prendemmo a salir la grave pieggia, per uno stretto e salvatico calle. Saliti su ne la piú alta scheggia, mi vidi sotto cosí gli altri monti, come una cosa un’altra signoreggia. 45 Noi tenevamo in verso il mar le fronti, quando mi disse: "Qui m’ascolta e mira, se vuoi di quel che cerchi ch’io ti conti. Al tempo d’Agenor, di Libia tira per questo mare, anticamente, Giove 50 la bella Europa, cui ama e disira. Con molti ingegni trasformato in bove, condusse lei dov’io t’addito e guato e rifé sé ne le sue membra nove. Poi, per dar pace al bel volto turbato 55 d’Europa, il terzo del mondo per lei volse che fosse Europa chiamato. D’angoscia e d’ira pien, pensar ben dèi, col precetto del padre si divise Cadmus solo per ritrovar costei. 60 L’ardito serpe sopra l’acqua uccise; poi, da l’idolo suo presa risposta, a fabbricare una cittá si mise. Guarda a sinistra a piè di quella costa, ché quivi è ora la cittá di Stive, 65 lá dove Tebe fu per costui posta. Vedi Asopo ed Ismen, de’ quai si scrive che facean correr piangendo le genti, quando ebri si gittavan per le rive. Vedi quel bosco, ove partio i serpenti 70 Tiresia, quando cambiò le membra, per che piú tempo poi fuggì i parenti. Vedi lá il mar (non so se ti rimembra che mai l’udissi dir) lá dove insana s’annegò Ino col figliuolo insembra. 75 Piú qua, in quella selva, è la fontana dove Atteon si trasformò in cervo, per guardar le bellezze di Diana. E vedi dove l’uno e l’altro servo lassâr colui, che de’ fratei fu padre, 80 legato sí che poi si parve al nervo. E vedi i campi, ove l’aspre e leggiadre battaglie funno e dove Anfirao visto fu ruinare in corpo de la madre. E vedi il fiume, ove rimase tristo 85 Ippomedon, e il mal passo da spino, dove Tideo fece il bel conquisto. Di lá da quello si trova il cammino onde passaro Adrasto e Capaneo, quando Isifil trovaro nel giardino. 90 Di lá è il bosco, ove Partenopeo il serpe uccise, per tôr l’ira a quella che ne la culla il suo figliuol perdeo, come si scrive e di qua si novella". |
Post n°951 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Il Dittamondo (sí incominciò la mia scorta a parlare) e però noi farem questo traverso 5 ch’è meno e poi ha piú cose a notare". "Andiam, diss’io, ché tu sai dov’è il verso". Per che si mise a scender giú del monte per un sentier, ch’era molto diverso. Giunti in Boezia, trovammo una fonte 10 che a qual ne bee sí la memoria tolle, che non s’ammenta dal naso a la fronte. Qui la natura argomentar ben volle: ché un’altra v’è, che tosto gliela rende, pur che ’l palato e la gola ne molle. 15 Ancora udio, e ciò non si contende, ma per ciascun del paese s’avera, che per quella contrada un fiume scende, lo quale è tal, che se pecora nera di quello assaggia, in bianca si trasforma: 20 dico, se l’usa da terza e da sera. Un altro v’è, che tiene un’altra norma: che del color, che, bevendo, la vesti, di tale il suo figliuol prende la forma. Lo lago maledetto, dopo questi 25 truovi, lo qual, bevendo il suo licore, uccide altrui, ch’atar non nel poresti. Un altro v’è, lo qual le membra e ’l core a colui che ne bee tanto avalora, ch’accende e ’nfiamma nel disio d’amore. 30 Qui Aretusa ci si vede ancora, e Cheriscon con altri fonti assai di fama antichi, ma non sen parla ora. Ismeno, Edipodea ci troverai Psamate ed Aganippe e Ippocrina, 35 che dritto son per la via che tu vai". Cosí tra quella gente pellegrina andando, dimandai lo mio conforto: "Tebe dov’é? È lungi o è vicina?" "Questo cammino, per lo qual t’ho scorto, 40 mi rispuose, ci mena a le sue rive ed è lo piú diritto e lo piú accorto, benché or quivi è la cittá di Stive, e de’ Teban la fama tanto spenta, che piú non se ne parla né si scrive". Poi, com’uom che volentier s’argomenta d’altrui piacer, mi disse a parte a parte quanto lá vive la pernice attenta, la sua sagacitá, gl’ingegni e l’arte, le gran lusinghe, i nidi forti e fui, 50 appunto come l’ha ne le sue carte. "Ma guarda fisso in que’ nuvoli bui: lá son faggi che ’n contro a ciascun morso di serpe san guarir, col tatto, altrui. Piú lá son quelli che dánno soccorso 55 sol con lo sputo a simili punture, pur che ’l velen non sia dentro al cuor corso. E perché chiaro Boezia affigure, in lei son Pelopesi e di Laconia come vedi in un corpo piú giunture. 60 E sappi c’hai passato Calidonia, dove fu la gran caccia ch’io t’ho ditto, Corinto, Sparta con Lacedemonia. Ma guarda in verso il mare, com’io, dritto: un’isoletta v’è famosa e sana, 65 la qual truovi per Varro altrove scritto. In questa, prima, fu filata lana per le femine, nobile e sottile, tessuta a punto e da lor tinta in grana. Aulide guarda ancor per quello stile 70 onde il grande navilio si partio, che sopra ogni altro fu ricco e gentile. Poi mira a destra il mal fatato e rio campo Matronio, dove il crudelissimo prelio fu, come giá dire udio. 75 E guarda un monte sterile e nudissimo: di lá da quello Olimpo troveremo, che par che tocchi il cielo, tant’è altissimo". E io a lui: "Quando veder potremo il Parnaso, del quale ho tanta brama, 80 che quasi a questo ogni pensier m’è scemo?" Ed ello a me: "Se cotanto t’affama di ciò la voglia, vienne pur, ché ’n brieve prender potrai il frutto de la rama". "Va pur, diss’io, ché tanto sono lieve 85 giá fatto udendo le parole tue, che ormai lo stare mi parrebbe grieve". Cosí parlando andavamo noi due per quel paese povero e diserto, che per antico tanto degno fue, 90 che innanzi agli altri si scrivea per certo. |
Il Dittamondo LIBRO TERZO CAPITOLO XVII Come nel tempo de la primavera giovane donna va per verde prato, punta con l’oro de la terza spera, con gli occhi vaghi e ’l cuore innamorato cogliendo i fior, che li paion piú belli, 5 lasciando gli altri da parte e da lato; e colti i piú leggiadri e i piú novelli li lega insieme e fanne una ghirlanda per adornare i suoi biondi capelli; similemente io di landa in landa 10 cogliendo ogni bel fior del mondo andai, lasciando i vili da parte e da banda: e, raunati, apresso li legai in questi versi, sol per adornare le rime in che disio vivere assai. 15 Giunti in sul monte e volti verso il mare, disse la guida mia: "Qui drizza il viso e nota ciò che tu m’odi contare. Teseo, avendo in Creti il mostro ucciso, per lo caro consiglio d’Adriana, venne ad Atenes con gaudio e con riso. A tutti li suoi iddii, fuor ch’a Diana, fe’ sacrificio Oeneo, ond’ella acerba tempesta li mandò crudele e strana: i’ dico un porco, che guastava l’erba, 25 le bestie, biade, le vigne e le pianti, tant’era pien d’ardire e di superba. Due denti grandi, qual de’ leofanti, gli uscian di bocca affilati e taglienti e forti, come fosson diamanti. 30 E quai sono a veder carboni ardenti, cotai parean, nel crudel rimiro, gli occhi suoi fieri, vermigli e lucenti. Non minor era che i tori d’Epiro; tai, qual saette, le setole avea; 35 molto era, a riguardar, pien di martiro. Per cacciar lui, che tanto mal facea, si raunaron Castore e Polluce con gran compagna e due fratei d’Altea. Lá fu ancora l’uno e l’altro duce, 40 Teseo e Piritoo, e la bella Atalante ch’era, in quel tempo, nel mondo una luce. Lá fu Ianson con l’ardito sembiante, Idas, Peleus, Fenice e Panopeo, Ipoteus, Ceneo e lá Cteante; 45 lá fu Nestorre, Iolao ed Anceo; lá fu il padre d’Achille ed Echione; Pilius, Feretiade, Ippaso, Ileo. Lá fu Anfirao, Laerte e Talamone, Amficide ed il bello Meleagro, 50 Drias, Naricio, Acasto, Eurichione. Ora, perché ’l mio dir ti sia men agro, terrò piú lunga alquanto mia favella, perché ’l corto parlar talora è magro. Ben dèi pensar che la caccia fu bella 55 di cavalieri e d’argomenti strani, quando fra noi ancor se ne novella. Segugi, gran mastini e fieri alani v’erano molti e tra quelli una schiatta che prendono i leon: ciò son gli albani. 60 E tutti questi a quella gran baratta fuggian dinanzi al porco, come fosse ciascun coniglio stato, lievre o gatta. Echion fu quello che primo percosse l’alpestro porco e non passò la scorza, 65 ch’era come corazza o scudo a l’osse. Ianson lanciò lo spiedo con tal forza, che fallí il colpo; e il porco ferio sí Palamon, che la sua vita ammorza. Similmente Pelagona partio 70 con la gran sanna da la schiena al ventre, onde subito cadde e lí morio. E se Pilio non fosse stato in mentre accorto che ’l gran porco uccise i due, per un che li sgridò: – Guarda com’entre –, 75 morto era lí; ma piú che simia fue presto a montare un albore: onde ’l porco dentro al pedal ficcò le sanne sue. Anceo, che era acerbo piú di un orco, alzò la scure; ma ’l colpo li manca 80 e quel gittò lui morto in mezzo il sorco. Per mal li venne Enesim tra le branca; si fe’ d’Oritia, quando a lui s’arriccia: tutto l’aperse da la coscia a l’anca. Teseo, che ciò vede, a dietro spiccia; 85 ma Ianson, che lo volse ancor ferire, cucí un cane in terra con la friccia. Ed allora Pelleo il fece uscire de la gran selva e Talamone il tenne da lato al fianco per farlo morire. Pollux e Castor, l’uno e l’altro venne su due corsieri bianchi come cigni; ma pur niuno a lui ferir s’avenne. Qui vo’, lettor, ch’Atalante dipigni sopra un corsier, con quel leggiadro aspetto 95 che fai Diana, quando non t’infigni, con l’arco in mano e col vestire stretto e i biondi suoi capelli sparti al vento, sí che passi a veder ogni diletto: perché tal giunse, fuor d’ogni spavento, 100 con l’arco aperto e die’ d’una saetta al porco, in mezzo tra l’orecchia e ’l mento. E tanto il colpo e ’l bel ferir diletta a Meleagro, che a’ compagni disse: – Morto è costui, se un’altra ne li getta –.105 Il porco contro a’ cacciator s’affisse, credo per lo dolor, sí disperato, che folgor parve che dal ciel venisse. Qual li fuggia dinanzi e qual da lato, e qual morio in quella gran tempesta, 110 e qual tra’ piè li cadde inaverato. Qui Meleagro, in mezzo a la foresta, uccise ’l porco e, per donar l’onore, ad Atalante sua diede la testa, la qual fu fin del lor verace amore". 115 |
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