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Messaggi del 03/01/2015

Rime inedite del 500 (43-44)

Post n°960 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLIII

[Di anonimo]

Oh quanto è iusto l'armezar de dio!
Benché l'arma di quel non taia in fretta,
Al luocho, al tempo scocca la saetta,
Che con più gravità punito è 'l rio.

Mira la morte di Chastel' del Rio,
E 'l chassò la fortuna, la vendetta,
Cerbero il corpo, e l'alma maledetta
Gli rode e strazia e fanne il suo disìo.

Ei filiale omizida et assassino,
Ladro, tiranno, infame, agiontadore,
Ingrato, crudele, superbo e rio,

Turco, judeo, marrano, proditore,
Lupo rapaze, porco e can mastino,
Ribelle al mondo, a la natura e a Dio.



XLIV

[Di anonimo]

Capitolo in lode de' calzoni a madonna Attalante Donati, del San..

Non sia mai più nissun che mi ragioni,
Se fa disegno di farmi piacere,
Di portar altro in gamba che calzoni.

Perch'una volta mi parve godere,
Et bontà lor' gustai un piacer grande,
Sì fresco mi tenevano il sedere.
E lassate pur dir delle mutande,
O brache, che c'è quella differentia
Ch'è da le cose basse alle ammirande.
Però, madonna, abbiate patientia
S'io vi sgradisco senza alcun respetto.
Le vostre brache a la vostra presentia
Son' tutte raccamate, io ve l'ammetto,
Son lavorate per le vostre mani;
Ma non è cul che non vi vada astretto.
E tutti quanti e povari christiani
Che l'hanno, a l'orinar son poi forzati
Alzar la gamba al muro come i cani.
I calzon' son pampogi, e tanto agiati
Ch'a far' tutti i servigi di natura
Non c'è homo, né donna che ne patì.
Hanno dinanzi una certa fessura
Per d'onde si dà 'l passo a la brigata
Da entrare e uscir senza paura.
Questa commodità fu ritrovata
Anticamente, al tempo de' latini,
Et fu da lor' feminalia chiamata.
Hor'io non so perché questi assasini
Moderni tanto biasmin questa usanza
Con dir' ch'oggi gli portano i facchini.
E non voglion che donne di creanza
Gli portino, e ne fan' tanto romore
I frati in ... dell'osservanza.
O povero Augusto imperatore,
O Claudio, o Tiberio, o Costantino,
Voi pur li portavate a tutte l'ore.
Io prego li ... di san Martino
Che mettin fra le lor' tante heresie
Che si' el portarli de voler divino.
Forse che quest'ingotta alle fratìe
Non li svergognarebben, come fanno,
In piazza, per le chiese e per le vie.
Questi non sono un continuo affanno
Come le calze a la povera gente,
Che danno a ognun che le port' el malanno.
El Sarteano è pur suffisiente
Et li porta com'entra in primavera
Tutta la state e mai non se ne pente.
E mi ha detto più volte a buona cera
Che molte gentil donne valorose
Li adopran l'invernata intera, intera.
E la state vi tengon fiori e rose
(Se son' chiusi da pie', come bisogna)
Per odorar' tutte le parti ascose.
Son necessari a chi ha della rogna,
E s'a donne venisse una disgrazia
Son cagion che non mostran la vergogna.
Una ne conosch'io che mai si sazia
Di mostrarli pe 'l fesso della veste,
Fallo però con modestia e con grazia.
Hor'io concludo che le donne oneste
Devon' portarli senza reprensione
I dì da lavorare e delle feste.
E che coloro han poca discrezione
(E meritan gastigo duplicato)
Che biasimon' così bella invenzione
Perché gli è abit'in tutto approvato
Da saggi antichi nostri, e oltre a questo
È util' et onesto accommodato.
A voi, donne, lass'hor di dirne il resto,
Poi che pensando a quel che copre e vela
S'ingrossa el stile et io esco dal sesto.
Vorre' che qui fornisca la mia tela,
Non già per mancamento di ripieno;
Ma per non far qualche longa querela.
E se i calzon' non son lodati a pieno,
Incolpisi chi troppo gli nasconde
Quando gli è tempo che veduti sieno.
So che c'è chi m'intende e non risponde.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-21)

Post n°959 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XXI

Giunti eravam sotto Parnaso, quando
disse Solino: "Alza gli occhi e vedi
l’altezza e come in su si va montando. 

Non so che pensi, ma se tu mi chiedi 
consiglio, ce ne andremo per lo piano, 5 
perché ’l salire è peggior che non credi". 
"Sia quanto vuol, diss’io, acerbo e strano, 
ché per amor di que’, che giá l’usaro, 
cercar lo voglio da ciascuna mano". 
Cosí risposto, senza alcun contraro 10 
a salir presi il salvatico poggio, 
che, per non uso, altrui è molto amaro. 
Non era al mezzo, quando stanco e roggio 
sí venni, ch’io ’l chiamai piú d’una volta, 
ché innanzi m’era: "Attienti, ch’io m’appoggio". 15 
Come la madre, che ’l figliuolo ascolta 
dietro a sé pianger, si volge e l’aspetta, 
poi lo prende per mano e dá la volta, 
si volse a me, in su la ripa stretta, 
con un bel volto e porsemi il suo lembo 20 
e, presol io, mi trasse in vèr la vetta. 
Saliti al sommo del piú alto sghembo, 
le cittá vidi, che m’eran d’intorno, 
di sotto, sí com’io le avessi in grembo. 
E vidi ancora, sopra ’l destro corno, 25 
dove fu giá sacrificato a Apolo 
in un bel tempio e di ricchezze adorno. 
E vidi l’altro dato a colui solo 
per cui le figlie di Mineo giá grame, 
lui dispregiando, fenno il cieco volo. 30 
Cosí menando me per quelle lame, 
trovammo un piano quasi in su la cima, 
salvatico di spini e d’altre rame. 
Per quello un’acquicella si dilima 
bagnando l’erbe e scende per lo monte 35 
sí dolce a ber, ch’ogni altro amar si stima. 
Poscia mi trasse ove sorgea la fonte, 
dicendo: "Fa che dentro al cuor dipinghe 
ciò che vedrai con gli occhi de la fronte. 
Quest’è Aonia, ov’eran le lusinghe 40 
al sacrar de le Muse, bench’adesso 
pochi ci son, che di quest’acqua attinghe. 
Di verdi pini, abeti e d’arcipresso 43 
d’ulivi, di mortella e di alloro 
era aombrato da lungi e da presso. 
Qui fun le nove suore e fen dimoro; 
qui per esser ben certa Pallas venne 
di questo loco e de la vita loro. 
Qui trasformâr li peli umani in penne 
le Pieride e qui udito avresti 50 
li mal di Pireneo e che ne avenne. 
E se quanta vaghezza mai vedesti 
fosse ora qui di donne e di donzelle, 
piene di bei costumi e atti onesti, 
e per miracol ci apparisson quelle 55 
nove, ch’io dico, diresti ch’un sole 
fosse venuto tra piccole stelle. 
Similemente ne le lor parole 
soavi e vere ti sarebbe aviso 
che le altre tutte ti dicesson fole. 60 
E cos' in questo luogo, ch’io diviso, 
quando vivean queste vergini sante, 
dir si potea il terzo paradiso. 
Questo bosco di prun, ch’abbiam davante, 
era di fiori di gigli e di rose 65 
adorno e d’altre dolcissime piante". 
Ragionato che m’ebbe queste cose 
con altre assai, ch’io non pongo in norma, 
cosí al suo parlar silenzio pose. 
E io a lui: "Se tu puoi, qui m’informa: 70 
questa fontana sí chiara e sí viva 
in questo luogo come e chi la forma? 
E dimmi ancora, a ciò ch’altrui lo scriva, 
i propri nomi de le nove Musa, 
che fun sí degne ne la vita attiva". 75 
Ed ello a me: "Del sangue di Medusa 
nacque un cavallo alato, che qui vola 
e con le zampe la terra pertusa. 
In men ch’io non t’ho detto la parola, 
quest’acqua, che tu vedi, fuor n’uscio, 80 
che tanto chiara per lo monte cola. 
Euterpe, Melpomene, Erato, Clio, 
Talia, Polimnia: queste nota 
perché cosí giá nominar le udio; 
Tersicore intendente e rimota, 85 
Calliope col suo parlare adorno, 
e Urania, dico, celeste e divota. 
Ma vedi il ciel che via ne porta il giorno: 
onde letto farem di queste fronde, 
ché miglior luogo non ci veggio intorno. 90 
E ber potrai de l’acqua di queste onde 
e de’ frutti salvatichi gustare,
che, bench’altri gli schifi, egli han pur donde
posson la vita a l’uom più lunga fare".
 
 
 

Il Dittamondo 4, Indice

Post n°958 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Indice de "Il Dittamondo" di Fazio degli Uberti.

Libro 4

Cap. 01   Cap. 02   Cap. 03   Cap. 04   Cap. 05   Cap. 06 
Cap. 07   Cap. 08   Cap. 09   Cap. 10   Cap. 11   Cap. 12 
Cap. 13   Cap. 14   Cap. 15   Cap. 16   Cap. 17   Cap. 18 
Cap. 19   Cap. 20   Cap. 21   Cap. 22   Cap. 23   Cap. 24 
Cap. 25   Cap. 26   Cap. 27

 
 
 

Rime Celio Magno Indice 1

Post n°957 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno, Indice 1

Il Canzoniere di Celio Magno (1536-1602) fu parzialmente pubblicato nel 1600 nel volume "Rime di Celio Magno et Orsatto Giustiniano", per i tipi del tipografo A. Muschio al termine di un processo di revisione e selezione durato a lungo, al quale furono associati alcuni amici e confidenti letterari, come B. Guarini e, soprattutto, Menini. Tale canzoniere si compone di 132 sonetti, 16 canzoni e 5 madrigali (laddove l'edizione online del sito Biblioteca italiana, tratta da "Archivio della tradizione lirica : da Petrarca a Marino", Roma: Lexis Progetti Editoriali, 1997, consta di 362 componimenti), oltre a 22 sonetti e una canzone inviati al Magno come proposta o risposta.

Sonetti 1-7
Canzone 8
Canzone 9
Sonetti 10-20
Sonetti 21-24
Canzone 25
Rime 26-28
Rime 29-32
Sonetti 33-40
Rime 41-42
Rime 43-50
Sonetti 51-54
Canzone 55
Sonetti 56-65
Rime 66-69
Rime 70-75
Sonetti 76-85
Canzoni 86-87
Rime 88-98
Rime 99-100

 

 
 
 

Rime di Celio Magno (9)

Post n°956 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

9

In morte del signor Marc'Antonio Magno suo padre

Sorgi de l'onde fuor pallido e mesto,
faccia prendendo al mio dolor simìle,
pietoso Febo, e meco a pianger riedi:
questo è 'l dì ch'a rapir l'alma gentile
del mio buon padre, ohimè, fu 'l ciel sì presto,
restando gli occhi miei di pianto eredi.
E ben lagnar mi vedi
a gran ragion: poiché sì fida e cara
scorta a l'entrar di questa selva errante
in un momento mi spario davante.
Cruda mia sorte avara
che la mi tolse; e 'n questa pena acerba
mostra a quant'altre ancor mia vita serba.
Da troppo dura, ingiuriosa parte
ver me fortuna incominciò suo sdegno
e da tropp'erto monte al pian mi stese;
ch'in un punto a' suoi colpi esposto segno
me scorsi, al vento mie speranze sparte,
con troppo debil petto a tante offese.
Dir si potea cortese
sua crudeltà d'ogn'altro acerbo danno,
senza il sangue bramar di questa piaga:
o, s'era pur d'uccider lui sì vaga,
per temprar il su' affanno
far ch'ei vedesse innanzi a l'ore estreme
a vicin frutto in me fiorir sua speme.
Avea duo lustri, e 'l terzo quasi, il sole
volti dal dì ch'a la sua nova luce
nudo parto infelice uscir mi scorse,
che ti partisti, o mio sostegno e duce,
da me: tu 'l sai, e forse ancor te n' dole,
ché ciò grave ferita al cor ti porse.
Né meno al duol concorse,
lasso, che meco ad un tre figli tuoi,
che chiedean latte ancor nel sen materno,
abbandonavi per essilio eterno;
de' quali una dapoi,
pura angioletta con veloci penne,
al ciel per l'orme tue lieta se n' venne.
Oh lei felice, oh dipartir beato!
ché 'n quella età né sua miseria scerse,
né fu serbata a sì penosi guai.
O mie gioie e speranze, ora converse
in doglia e pianto! O caro allor mio stato,
ché ne la vita tua me stesso amai.
Chi più tranquille mai
voglie o dolci pensier chiuse nel petto?
Chi provò de la mia più lieta sorte
finch'a me non ti tolse invida morte?
Ma tal pace e diletto,
lasso, ebbi allor, perché più grave poscia
giungesse al cor la destinata angoscia.
Semplice augello in fortunato nido
mi giacqui un tempo a la tua dolce cura,
e sotto l'ali tue contento vissi.
Quanto ebbi l'aria allor grata e sicura,
mentre innanzi spiegando il volo fido
t'ergevi al ciel, perch'io dietro seguissi;
ed io, gli occhi in te fissi,
volar tentava, il tuo camin servando.
Né perch'io rimanessi assai lontano
eran le penne mie spiegate invano:
ché più sempre avanzando,
in me di pur salir nova vaghezza,
in te sempre crescea speme e dolcezza.
Ma mentre è tutta in noi tua cura intenta,
e in grembo a tua pietà nostri desiri
godean tranquilla e riposata pace,
ecco che, qual arcier ch'ingordo miri
a nova preda, in te suo strale aventa
e ne t'uccide morte empia e rapace.
Né 'n ciò pur si compiace
l'ira del ciel, ché la tua fida moglie,
dolce a noi madre, in cui sola s'accolse
la nostra speme, ancor per sé ritolse.
Ahi, che giamai non coglie
d'un sol colpo fortuna ove fa guerra,
e sol pianto e miseria alberga in terra!
Che dovea far? Donde sperar pietade?
Donde attender soccorso, orbato e solo
de l'uno e l'altro mio dolce parente?
Io, che bisogno avea di scorta al volo,
l'altrui regger convenni, e 'n verde etade
vestir, puro fanciul, canuta mente.
Onde le luci intente
portai sempre a fuggir le reti e 'l visco;
e s'a lor pur piegai, grazia celeste
mi fe' l'ali a scamparne accorte e preste,
membrando in ogni risco
quel che tu presso a morte in me sì pio
già per norma segnasti al viver mio.
Giacevi infermo e per gravarti il ciglio
stendea morte la man l'ultimo giorno
che pose fine a la tua degna vita.
Tacita e mesta al caro letto intorno,
priva d'ogni speranza e di consiglio,
stava la tua famiglia sbigottita;
tu, che di tua partita
alto martir premei nel saggio core,
con fermo viso in parlar dolce accorto
pregavi al nostro duol pace e conforto.
Indi con santo ardore
la tua pietate, in me le luci fisse,
queste parole in mezzo 'l cor mi scrisse:
— Figlio, se questo è pur l'estremo passo
de la mia vita, ond'io son sazio e stanco,
se non per voi, miei cari pegni e spene,
cedi al voler divin, cedi al crin bianco;
e morte scusa in me se 'l corpo lasso,
vincendo omai l'usato stil, mantiene.
Ecco pronta al tuo bene
per me la madre tua fidata e pia:
tu fa del suo voler legge a te stesso,
volto sempre al camin per cui t'ho messo.
E poi che l'alma fia
sciolta da me, di puro ardor ripieno
prega il Signor, che la raccolga in seno. —
Ciò detto a pena, a la già fredda lingua
eterno pose, ohimè, silenzio; e i lumi,
per non aprirgli più, mancando, chiuse.
Fia mai giusto dolor, ch'altrui consumi,
del mio più acerbo? O lume altro s'estingua
di chiare doti in più degn'alma infuse?
Caro a Febo, a le Muse,
caro de le virtuti al santo coro,
spirto d'ogni valor ricco e fecondo,
or del cielo ornamento, e già del mondo.
Ahi mio nobil tesoro,
ché 'l soverchio mio duol tronca il tuo vanto,
ma sempre almen t'onorerò col pianto.
Canzon, vattene in cielo
su l'ali che 'l desio veloce spiega;
e ricercando infra quei santi cori,
tranne il mio genitor col guardo fuori.
Poi riverente il prega
che del duolo ond'io sento il cor piagarmi,
scenda in sogno talora a consolarmi.

 
 
 

Il Dittamondo (3-20)

Post n°955 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XX

Poi, seguitando: "Due mila anni e piue
vent’otto volte venti son passati,
mi disse, che distrutta Tebe fue. 

Quivi nascero e fun deificati 
Ercules ed Apollo e ciò par degno, 5 
se al ben far loro e a l’usanza guati. 
Quivi Penteo, cui Bacco avea in disdegno, 
converse in porco; onde la madre afflitta, 
fuggendo a lei, li tolse vita e regno. 
Quivi si vide Niobe trafitta 10 
la figlia in grembo e riguardar nel pianto 
le piaghe de’ figliuoli e la sconfitta. 
Quivi s’udio il dolcissimo canto 
d’Anfione, col qual facea i sassi 
muovere e saltar di canto in canto. 15 
Ma vienne omai e seguita i miei passi 
e sappi ben che ’n Tessaglia se’ giunto 
e che Boezia di dietro ti lassi". 
Apresso questo, non istette punto; 
prese la via e io, mirando sempre 20 
come ’l paese sta di punto in punto. 
"Non vo’, figliuol, che la penna si stempre 
del dire, per l’andare; e tu ancora 
m’ascolta e fa che dentro al cor l’assempre. 
Questa contrada piú tempo dimora 25 
col nome di Emonia e poi Tessaglia 
da Tessalo fu detta e questo ha ora. 
Ma guarda dritto, se ’l sol non t’abbaglia, 
oltre a que’ colli il Farsalico piano 
dove fu de’ Roman la gran battaglia. 30 
E vedi ancor, da la sinistra mano, 
dove, accesi di vino e di lussuria, 
fu de’ Centauri fatto il grande sbrano: 
io dico quando funno in tanta furia, 
che volsono sforzar uomini e femini 35 
e che Ceneo morí per loro ingiuria. 
E se mai versi al mondo di ciò semini, 
la morte di Cillaro e la tristiziap 
d’Ilonome farai ch’a dir ti memini. 
Vedi lá il bosco, del quale è notizia 40 
ch’ Erisiton tagliò la quercia sagra, 
per che la Fame venne in fin di Sizia, 
pilosa, con grand’unghie, oscura e magra, 
la qual del fallo fe’ sí gran vendetta, 
che sol l’udita altrui par forte e agra. 45 
Oh, quanto è bestia l’uom, che non sospetta 
di fare ingiuria a la cosa divina, 
se non v’è Cesar, che ’l ciel gl’imprometta! 
Guarda Larisa, ch’ è di qua vicina, 
e Ftia ancora, che nel tempo antigo 50 
famose funno per questa marina. 
E sappi che lá Iuppiter fu origo 
d’Eaco, di Pelleo e di Achille; 
d’Esone e di Ianson, ma d’altro rigo. 
Dopo queste lucenti e gran faville, 55 
Pirro e Moloso seguîr senza fallo: 
di qua signoreggiâr cittá e ville. 
Quest’è il paese dove pria il cavallo 
domato fu e coniata a spesi 
moneta del piú nobile metallo, 60 
e che veduti fun con gli archi tesi 
in su’ corsieri per questa pianura 
prima Centauri che in altri paesi: 
onde la gente semplicetta e pura 
i due credean uno e di tal mostro, 65 
quando ’l vedeano, avean gran paura". 
Cosí parlando, dritto al cammin nostro 
trovammo Anigro: uccide se vi caccia 
bestia il ceffo ovvero uccello il rostro. 
Io volea bere e rinfrescar la faccia, 
quando disse Solin: "Non far, ché in esso 
è tosco e sangue"; e presemi le braccia. 
Come parlò, cosí pensai adesso: 
quest’è quel fiume, dove si lavaro 
le triste piaghe i compagni di Nesso. 75 
Apresso disse quel padre mio caro: 
"Vedi Parnaso: e se tu vorrai bere, 
quivi son fiumi e ciascun dolce e chiaro. 
Ma guarda a destra, ché lá puoi vedere 
la selva dove saettando uccise 80 
Pelleo Foco e non per suo volere. 
Per questo, il padre del regno il divise: 
onde passò in Trachinia a Ceice re 
e per un tempo quivi a star si mise. 
Indi partio; ma non ti dico che 85 
fu poi di lui, né ’l dolce e vago amore 
di Ceice e d’Alcione e la lor fè; 
e non ti conto con quanto dolore 
Ceice nel mar con la sua nave affonda, 90 
né come l’alma si partio dal core
d’Alcione, trovatol sopra l’onda".
 
 
 

Rime inedite del 500 (XLII)

Post n°954 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLII

[Di anonimo]

In Franciscum Alidosium Cardinalem Papiensem Italiae totius Legatum, post felicem de Venetis victoriam, Bononiam redientem.

Chi ascender potria mai pur col pensiero,

Delle tue lodi a l'infinita altezza,
Non che in stil dirne d'ogni parte intiero?
Che dovendo onorar la tua grandezza,
Sacro, inclito signor, quanto richiede
Poco sarìa ciò che qua giù s'apprezza.
Ma alla gran parte in che mancar si vede
Li onor' ch'oggi ti fa Felsina lieta
Supplisca il buon voler, la pura fede.
Ché, se potesse quel che a lei si vieta
Non d'altro vincitor, d'altro vessillo,
Più altamente mai cantò poeta.
Se Paolo, Mario, Cesare, o Camillo
Trionfar' più onorati, oh! fausto giorno
Da memorar nel candido lapillo.
Chi or vede d'un nuov'Ercole il ritorno,
Prostrato avendo il fier leon Nemeo,
Che in Flaminia a' pastori era gran scorno,v Vede il chiaro e magnanimo Teseo,
Che a' più insolenti e indomiti centauri
Spento ha l'orgoglio altrui nocivo e reo.
Donagli Apol' degli odorati lauri
Verdeggiante corona, il grido estendi
Dalle rive del Gange ai lidi Mauri;
E perché i nuovi gesti, alti e stupendi
Mal si puon celebrar con mortal suono,
Placido nume or tu dal ciel discendi.
Con quella lira e in quel più ardente tuono
Temprate ch'esser vuol quando tu canti
Da Flegia e Giove, e i dei presenti sono.
Simil materia avrai d'altri giganti,
Figli del mar, che d'Adria il nome porta,
Tumidi, al padre eguali et arroganti.
Questi con mente dal diritto estorta
I regni a lor non debiti occupando,
Tolto il voler, non la ragion, per scorta,
Ecco caduti son subito, quando
Quel che il scettro di Giove in terra regge
Pur tratta fuor de la giust'ira il brando,
Con cui l'insania altrui batte e corregge,
Con questo il lor ardir vano ha percosso,
Che al ciel credeano ancor poter dar legge.
E sopra lor tanta ruina ha mosso,
Che non Etna, non Ischia con tal pondo
A Encelado e Tifeo calcàro adosso,
Onde ai futuri secoli nel mondo
S'udiran per miracolo le cose
Magne, che fatte avrà Giulio secondo.
Benché al presente sì meravigliose
Non siano a chi il valor, l'alta prudenza,
E l'altre sue virtudi or' son nascose.
Perché di Dio la somma previdenza
L'ha mandato qua giù, non cagion lieve,
Sel per tornar' la chiesa in riverenza.
Oh! quanto lieto in ciel star' oggi deve
L'almo padre Silvestro, a cui son note
Le vittorie che Giulio oggi riceve;
Ché riguardando dall'eterne rote,
Vede da Giulio esser novellamente
Reintegrato di sua prima dote.
Quanto in quelle città gaudio si sente,
Che d'aspra servitù ridutta in stato
Son d'aurea libertà, stato innocente!
Si dica: o venerabil porporato,
Che Giulio, e Giove, e tu a disposizione
Di lui sei l'emisfero raggirato,
Varie sorti a' mortali il cielo impone,
E ben che il motor primo tutto scorge,
Con le seconde cause opra e dispone.
Tuo gran voler, che a mortal fama sorge,
Così l'eccelse imprese assume, come
Il divo Giulio le disegna e porge;
E perché ben le più pesanti some
Regger sai con prudenza, e 'l tutto adempi,
Tocca in gran parte a te la gloria e 'l nome.
Ma a quai sì degni mai gl'antichi tempi
Posero, come a voi poner' si denno,
Arche, statue, colonne, altari e tempî?
Che si potrà ben dir: questi duoi fenno
Gran cose, e a gloria eterna il ciel gli spinse,
Acquistata con l'opre e con il senno.
Domò i nepoti, e per tiranni estinse
Giulio Ligure invitto e glorïose,
L'altro in Flaminia venne, vide e vinse.
Questo è il savio e magnanimo Alidoso,
Cardinal di Pavia, ch'al pastor santo
Fu sempre d'obbedir pronto e geloso.
Or' a' vostri alti titoli un sol vanto
S'aggiunga, e non già mai fia il più soprano,
Alla chiesa, alla fede, al papal Mauro.
Poiché de' sommi regi è in vostra mano
L'impero, e l'armi, deh! movete i passi
Al nido ove Gesù fu pellicano.
Ma veggio all'alta impresa ordine dassi,
Già del rumor il Maumettano trema,
E par che i lidi già fuggendo lassi.
Del celeste favor punto non scema,
Giulio ecco ha l'ali aperte al santo volo,
E presto a nostra età gloria suprema
Vedrem farsi un ovile e un pastor solo.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime di Celio Magno (8)

Post n°953 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

8

Sopra una fortuna di mare navigando in Soria l'anno 1562

Sacro e possente dio,
a Giove egual, che 'l salso umido regno
con l'acuto tridente avesti in sorte,
perché d'ira or sì pregno
ver me ti scorgo? E sì turbato e rio
d'ogn'intorno minacci oltraggio e morte?
Che bel vanto od onor fia che t'apporte
vincer debil nocchier, che, sol rivolto
a pianger meco, umil prega mercede?
È questa, ohimè, la fede
per te già data in sì benigno volto?
Deh, se 'l rigor non hai
de' tuoi più duri scogli al cor raccolto,
desto a pietà di tante angosce e guai,
cangia sì lunga guerra in pace omai.
Ma tu più sempre fero
pur cresci, e fremi per gran rabbia insano,
e sordo i prieghi miei commetti al vento.
O desir cieco e vano,
o senza freno errante uman pensiero,
ad opre sol di sua ruina intento!
Ben ogni dritto lume in lui fu spento
allor che pria con fragil legno audace
del pelago tentò le sirti e i mostri.
Non era assai ne' nostri
danni fortuna, ohimè, pronta e sagace,
s'ancor nov'armi e possa
non le giungea solcando il mar fallace?
Né bastavano i campi a le nostr'ossa,
senza a morte anco aprir sì larga fossa
Spiega in alto dal lido
giovene incauto le gonfiate vele,
da sete avara o stolta voglia spinto.
E 'n se stesso crudele,
adietro lascia il dolce, antico nido
e 'l caro padre, omai dagli anni vinto;
ch'anzi 'l partir, di morte il viso tinto,
mesto l'abbraccia, e da l'amato aspetto
torcer gli occhi non sa, languidi, immoti.
Poi, mentre al ciel fa voti
per lui, sola sua e suo diletto,
ecco sommerso, ahi lasso,
l'ode: e 'l crin bianco squarcia, e batte il petto,
e dov'ei move i suoi lamenti e 'l passo,
seco ogni fera piange, ogni aspro sasso.
Ben con util consiglio
vietò Natura, in tutto accorta e pia,
per cercar l'acque abbandonar la terra,
quando in propria e natia
stanza assegnolla al suo più nobil figlio
scevra dal mar, che la circonda e serra.
Volse anco allor ch'ai lidi eterna guerra
fesser l'onde nemiche, acciò più saggio,
del lor odio e furor temenza avesse.
Ma quel, tai leggi oppresse,
fece i pini troncando ai monti oltraggio;
e, quasi nove penne,
remi e vele spiegando al suo viaggio,
con le mal nate e temerarie antenne
sopra i liquidi campi il volo tenne.
Novo Perillo, ed empio,
misero auttor del tuo medesmo essizio,
poiché l'ingegno a sì crud'opra armasti.
Ma tu, sol d'ogni vizio
radice e fonte d'ogni infame essempio,
cieca avarizia, tu da pria formasti
l'uman tormento, e tu la via mostrasti
d'accrescer anco il mar col nostro pianto;
Tu con tal dono impoveristi il mondo.
Così giù nel profondo
de l'Oceàno, al nocchier primo a canto,
fosse già di tal arte
teco sommersa e la memoria e 'l vanto:
ch'io di quest'onde in preda or non vedrei,
giunti a notte sì amara, i giorni miei.
Dolci contrade amiche,
cui bagna il Sil co' suoi puri cristalli,
ov'indarno il desio, lasso, or m'invita;
riposte, ombrose valli,
verdi e bei colli, e liete piagge apriche,
rifugio usato a la mia stanca vita:
quanto errai, stolto, a far da voi partita,
cangiando l'erbe e i fior, l'adorne rive,
con l'alga e i sassi e con le nude arene,
e con quest'onde piene
d'orror, fontane rilucenti e vive!
Ma s'a voi mai ritorno,
non fia più che di voi mi spogli o prive;
tra voi sia la mia pace e 'l mio soggiorno,
e chiuda lieto in voi l'ultimo giorno.
E voi de lo mio core
fiamma gentil, sostegno amato e caro,
donna, specchio di fede ardente e pura,
a cui pianto sì amaro
cadde sul mio partir dagli occhi fore,
augurio ben di mia morte futura;
se pur mia stella invidiosa e dura
vuol che lontan dal volto almo e sereno,
qui, lasso, io pera in così verde etade,
vostra usata pietade
vivo ognor nel pensier mi serbi almeno,
e col cor vostro insieme
spiri eterno il mio nome entro 'l bel seno.
Mia fede il merta: e con si dolce speme
io ne vo me n' dolente a l'ore estreme.
Canzon, ben ti puoi dir parto infelice
s'a pena in luce giunta, or meco in questi
alti monti di mar sepolta resta.

 
 
 

Il Dittamondo (3-19)

Post n°952 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XIX

Sí come il pellegrino che si fida 
per buona compagnia d’andar sicuro, 
andava io apresso a la mia guida. 
Ma però ch’io vedea diserto e scuro, 
come ho detto, il paese d’ogni parte, 5 
ch’era giá stato tanto degno e puro, 
feci come uom, che volentier comparte 
l’andar con le parole, per men noia 
e per trar frutto del suo dire in parte. 
E cominciai: "Nel bel viver di Troia, 10 
e prima ancora e lungamente apresso, 
si scrive che qui fu valore e gioia. 
E io mi guardo e giro intorno adesso 
e veggio la contrada tanto guasta, 
ch’io ne porto pietá in fra me stesso. 15 
E questo ancora al mio pensier non basta; 
ma io truovo la gente cruda e vile, 
ch’esser solea gentile, ardita e casta". 
Cosí parlai e la mia scorta umile 
rispuose: "Come di’, pien di vertute 20 
fu giá questo paese e d’alto stile. 
Ma se or vedi le cittá abbattute 
e coperte di verdi spini e d’erba, 
e le vertú ne gli uomini perdute, 
imagina che parte è per superba 25 
e imagina che ’l ciel, che qua giú guata, 
niuna cosa in sua grandezza serba. 
Pensa ov’è Roma, che fu allevata 
con tanto studio, e com’è ita giuso 
quella che in Caldea ancor si guata. 30 
Questa ruota del mondo l’ha per uso, 
cioè di far le gran cose cadere 
e le minor talor di montar suso". 
Cosí, prendendo del parlar piacere, 
un poggio mi mostrò e disse: "Vedi: 35 
quivi è la via che ci convien tenere". 
E io a lui: "Va pur, come tu credi 
che ’l meglio sia, ch’io ti sono a le spalle, 
ponendo sempre, onde tu levi, i piedi". 
A la man destra lasciammo la valle 40 
e prendemmo a salir la grave pieggia, 
per uno stretto e salvatico calle. 
Saliti su ne la piú alta scheggia, 
mi vidi sotto cosí gli altri monti, 
come una cosa un’altra signoreggia. 45 
Noi tenevamo in verso il mar le fronti, 
quando mi disse: "Qui m’ascolta e mira, 
se vuoi di quel che cerchi ch’io ti conti. 
Al tempo d’Agenor, di Libia tira 
per questo mare, anticamente, Giove 50 
la bella Europa, cui ama e disira. 
Con molti ingegni trasformato in bove, 
condusse lei dov’io t’addito e guato 
e rifé sé ne le sue membra nove. 
Poi, per dar pace al bel volto turbato 55 
d’Europa, il terzo del mondo per lei 
volse che fosse Europa chiamato. 
D’angoscia e d’ira pien, pensar ben dèi, 
col precetto del padre si divise 
Cadmus solo per ritrovar costei. 60 
L’ardito serpe sopra l’acqua uccise; 
poi, da l’idolo suo presa risposta, 
a fabbricare una cittá si mise. 
Guarda a sinistra a piè di quella costa, 
ché quivi è ora la cittá di Stive, 65 
lá dove Tebe fu per costui posta. 
Vedi Asopo ed Ismen, de’ quai si scrive 
che facean correr piangendo le genti, 
quando ebri si gittavan per le rive. 
Vedi quel bosco, ove partio i serpenti 70 
Tiresia, quando cambiò le membra, 
per che piú tempo poi fuggì i parenti. 
Vedi lá il mar (non so se ti rimembra 
che mai l’udissi dir) lá dove insana 
s’annegò Ino col figliuolo insembra. 75 
Piú qua, in quella selva, è la fontana 
dove Atteon si trasformò in cervo, 
per guardar le bellezze di Diana. 
E vedi dove l’uno e l’altro servo 
lassâr colui, che de’ fratei fu padre, 80 
legato sí che poi si parve al nervo. 
E vedi i campi, ove l’aspre e leggiadre 
battaglie funno e dove Anfirao visto 
fu ruinare in corpo de la madre. 
E vedi il fiume, ove rimase tristo 85 
Ippomedon, e il mal passo da spino, 
dove Tideo fece il bel conquisto. 
Di lá da quello si trova il cammino 
onde passaro Adrasto e Capaneo, 
quando Isifil trovaro nel giardino. 90 
Di lá è il bosco, ove Partenopeo 
il serpe uccise, per tôr l’ira a quella 
che ne la culla il suo figliuol perdeo,
come si scrive e di qua si novella".
 
 
 

Rime di Celio Magno (1-7)

Post n°951 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

1

Non di porfido tomba eletto e duro,
ove il mio nome in note d'or s'imprima
e bel marmo scolpito il volto esprima,
lasciar, morendo, in mia memoria curo.

Questo che di mia man schermo io procuro
contro l'aspra del tempo avida lima,
sia 'l mio sepolcro; e se non d'altra stima
d'un generoso ardir pegno sicuro.

E s'è l'incolto crin di lauro indegno,
il pregio almen de la mia nobil brama
d'altra povera fronde il faccia degno;

ché perfetta non pur s'onora ed ama
virtù, ma di lei solo un'ombra, un segno,
merta in premio benigno eterna fama.

2

Trovo dovunque io giro 'l guardo intento
trista imagin di morte. Ecc'ora il giorno
da l'oriente uscir di luce adorno,
eccol tosto a l'occaso oscuro e spento.

Così le frondi e i fior, vago ornamento
di primavera a questo colle intorno,
farà languidi e secchi al suo ritorno
de la fredda stagion la neve e 'l vento.

Quanto nasce qua giù, quanto con l'ore
crescendo vive, al fin sotto una sorte,
senza riparo aver, mancando more.

E s'al mesto pensier chiuder le porte
col chiuder gli occhi io cerco, il cieco orrore
contemplo allor de la mia propria morte.

3

Ahi perché questa luce alma gradita
divien per morte in sì poch'ore oscura?
O 'l corso almen, ch'a lei prescritto dura
non è tutto verace, intera vita?

Quanta dal sonno a lei parte è rapita,
da membra inferme e da ria sorte e dura;
quanta ne rode insaziabil cura,
ogni sua pace e libertà smarrita.

Chi può vita chiamar de' teneri anni
l'ignara mente? E qual mortale oltraggio
vince de la vecchiezza i gravi affanni?

Quel, dunque, che riman, qual picciol raggio
fuor d'atre nubi, a ristorar suoi danni
spenda in oneste e liete cure uom saggio.

4

Da verde ramo in su fugace rio
spargea vago augellin sì dolci accenti
ch'avean per ascoltarlo il cielo, i venti
e l'acque il corso lor posto in oblio.

Quando improviso astor giunse, e 'l rapio,
misero, fra gli artigli aspri e pungenti;
onde invano ei si scosse, e co' dolenti
suoi stridi il cor d'alta pietà m'empìo.

Oh regnasse furor sì iniquo ed empio
sol tra le fere, e non tra i petti umani
con via più crudo e scelerato essempio!

Ch'or macchia più che mai l'alma e le mani
rapina e sangue, e 'l reo del buon fa scempio,
vinta ragion da ciechi affetti insani.

5

Non fuggir, vago augello, affrena il volo,
ch'io non tendo a' tuoi danni o visco o rete;
ché s'a me libertà cerco e quiete,
por te non deggio in servitute e 'n duolo.

Ben io fuggo a ragion nemico stuolo
di gravi cure in queste ombre secrete,
ove sol per goder, sicure e liete,
poch'ore teco, a la città m'involo.

Qui più sereno è 'l ciel, più l'aria pura,
più dolci l'acque, e più cortese e bella
l'alte ricchezze sue scopre natura.

O mente umana al proprio ben rubella!
Vede tanta sua pace e non la cura,
e stima porto ov'ha flutto e procella.

6

Non dentro a l'alte e ben guardate mura,
tra nobil turba e marmi e bronzi ed ori,
né tra purpurei manti e falsi onori,
che serva e cieca ambizion procura;

Ma tra questi bei colli, ove natura
spiega in più vaghe pompe i suoi tesori,
tra quest'onde, quest'erbe e questi fiori
siede pace tranquilla e gioia pura.

Qui di lieto pastor povera verga
vince i più ricchi scettri, ed umil tetto
quai più splendon palagi eccelsi ed ampi.

O bel fiume, or fia mai che 'l tristo petto
in te, suo Lete, ogni aspra cura immerga?
E sian questi i miei dolci Elisî campi?

7

Dentro al vaso mortal giacendo sotto
i gravi colpi a strazio indegno acerbo,
dicea 'l forte Anassarco al re superbo,
mentr'era il corpo suo percosso e rotto:

- Sia pur in polve il fral trito e ridotto,
ché l'alma dal tuo sdegno invitta io serbo;
furor contra virtute ha debil nerbo:
tu per far onta, io per soffrir prodotto.

Cada pur sovra me l'immenso peso
del mondo tutto, e franga i membri e l'ossa,
che non sarò dal precipizio offeso.

Così libero i' son, serva è tua possa;
e 'l cener tuo, da ricca urna compreso,
porterà invidia a la mia nuda fossa. -

 
 
 

Il Dittamondo (3-18)

Post n°950 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XVIII

"Forse quaranta miglia son per terra
da Atenes a Tebe e poi per mare
cento e cinquanta insieme non le serra: 

(sí incominciò la mia scorta a parlare) 
e però noi farem questo traverso 5 
ch’è meno e poi ha piú cose a notare". 
"Andiam, diss’io, ché tu sai dov’è il verso". 
Per che si mise a scender giú del monte 
per un sentier, ch’era molto diverso. 
Giunti in Boezia, trovammo una fonte 10 
che a qual ne bee sí la memoria tolle, 
che non s’ammenta dal naso a la fronte. 
Qui la natura argomentar ben volle: 
ché un’altra v’è, che tosto gliela rende, 
pur che ’l palato e la gola ne molle. 15 
Ancora udio, e ciò non si contende, 
ma per ciascun del paese s’avera, 
che per quella contrada un fiume scende, 
lo quale è tal, che se pecora nera 
di quello assaggia, in bianca si trasforma: 20 
dico, se l’usa da terza e da sera. 
Un altro v’è, che tiene un’altra norma: 
che del color, che, bevendo, la vesti, 
di tale il suo figliuol prende la forma. 
Lo lago maledetto, dopo questi 25 
truovi, lo qual, bevendo il suo licore, 
uccide altrui, ch’atar non nel poresti. 
Un altro v’è, lo qual le membra e ’l core 
a colui che ne bee tanto avalora, 
ch’accende e ’nfiamma nel disio d’amore. 30 
Qui Aretusa ci si vede ancora, 
e Cheriscon con altri fonti assai 
di fama antichi, ma non sen parla ora. 
Ismeno, Edipodea ci troverai 
Psamate ed Aganippe e Ippocrina, 35 
che dritto son per la via che tu vai". 
Cosí tra quella gente pellegrina 
andando, dimandai lo mio conforto: 
"Tebe dov’é? È lungi o è vicina?" 
"Questo cammino, per lo qual t’ho scorto, 40 
mi rispuose, ci mena a le sue rive 
ed è lo piú diritto e lo piú accorto, 
benché or quivi è la cittá di Stive, 
e de’ Teban la fama tanto spenta, 
che piú non se ne parla né si scrive". 
Poi, com’uom che volentier s’argomenta 
d’altrui piacer, mi disse a parte a parte 
quanto lá vive la pernice attenta, 
la sua sagacitá, gl’ingegni e l’arte, 
le gran lusinghe, i nidi forti e fui, 50 
appunto come l’ha ne le sue carte. 
"Ma guarda fisso in que’ nuvoli bui: 
lá son faggi che ’n contro a ciascun morso 
di serpe san guarir, col tatto, altrui. 
Piú lá son quelli che dánno soccorso 55 
sol con lo sputo a simili punture, 
pur che ’l velen non sia dentro al cuor corso. 
E perché chiaro Boezia affigure, 
in lei son Pelopesi e di Laconia 
come vedi in un corpo piú giunture. 60 
E sappi c’hai passato Calidonia, 
dove fu la gran caccia ch’io t’ho ditto, 
Corinto, Sparta con Lacedemonia. 
Ma guarda in verso il mare, com’io, dritto: 
un’isoletta v’è famosa e sana, 65 
la qual truovi per Varro altrove scritto. 
In questa, prima, fu filata lana 
per le femine, nobile e sottile, 
tessuta a punto e da lor tinta in grana. 
Aulide guarda ancor per quello stile 70 
onde il grande navilio si partio, 
che sopra ogni altro fu ricco e gentile. 
Poi mira a destra il mal fatato e rio 
campo Matronio, dove il crudelissimo 
prelio fu, come giá dire udio. 75 
E guarda un monte sterile e nudissimo: 
di lá da quello Olimpo troveremo, 
che par che tocchi il cielo, tant’è altissimo". 
E io a lui: "Quando veder potremo 
il Parnaso, del quale ho tanta brama, 80 
che quasi a questo ogni pensier m’è scemo?" 
Ed ello a me: "Se cotanto t’affama 
di ciò la voglia, vienne pur, ché ’n brieve 
prender potrai il frutto de la rama". 
"Va pur, diss’io, ché tanto sono lieve 85 
giá fatto udendo le parole tue, 
che ormai lo stare mi parrebbe grieve". 
Cosí parlando andavamo noi due 
per quel paese povero e diserto, 
che per antico tanto degno fue, 90
che innanzi agli altri si scrivea per certo.
 
 
 

Il Dittamondo (3-17)

Post n°949 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XVII

Come nel tempo de la primavera 
giovane donna va per verde prato, 
punta con l’oro de la terza spera, 
con gli occhi vaghi e ’l cuore innamorato 
cogliendo i fior, che li paion piú belli, 5 
lasciando gli altri da parte e da lato; 
e colti i piú leggiadri e i piú novelli 
li lega insieme e fanne una ghirlanda 
per adornare i suoi biondi capelli; 
similemente io di landa in landa 10 
cogliendo ogni bel fior del mondo andai, 
lasciando i vili da parte e da banda: 
e, raunati, apresso li legai 
in questi versi, sol per adornare 
le rime in che disio vivere assai. 15 
Giunti in sul monte e volti verso il mare, 
disse la guida mia: "Qui drizza il viso 
e nota ciò che tu m’odi contare. 
Teseo, avendo in Creti il mostro ucciso, 
per lo caro consiglio d’Adriana, 
venne ad Atenes con gaudio e con riso. 
A tutti li suoi iddii, fuor ch’a Diana, 
fe’ sacrificio Oeneo, ond’ella acerba 
tempesta li mandò crudele e strana: 
i’ dico un porco, che guastava l’erba, 25 
le bestie, biade, le vigne e le pianti, 
tant’era pien d’ardire e di superba. 
Due denti grandi, qual de’ leofanti, 
gli uscian di bocca affilati e taglienti 
e forti, come fosson diamanti. 30 
E quai sono a veder carboni ardenti, 
cotai parean, nel crudel rimiro, 
gli occhi suoi fieri, vermigli e lucenti. 
Non minor era che i tori d’Epiro; 
tai, qual saette, le setole avea; 35 
molto era, a riguardar, pien di martiro. 
Per cacciar lui, che tanto mal facea, 
si raunaron Castore e Polluce 
con gran compagna e due fratei d’Altea. 
Lá fu ancora l’uno e l’altro duce, 40 
Teseo e Piritoo, e la bella Atalante 
ch’era, in quel tempo, nel mondo una luce. 
Lá fu Ianson con l’ardito sembiante, 
Idas, Peleus, Fenice e Panopeo, 
Ipoteus, Ceneo e lá Cteante; 45 
lá fu Nestorre, Iolao ed Anceo; 
lá fu il padre d’Achille ed Echione; 
Pilius, Feretiade, Ippaso, Ileo. 
Lá fu Anfirao, Laerte e Talamone, 
Amficide ed il bello Meleagro, 50 
Drias, Naricio, Acasto, Eurichione. 
Ora, perché ’l mio dir ti sia men agro, 
terrò piú lunga alquanto mia favella, 
perché ’l corto parlar talora è magro. 
Ben dèi pensar che la caccia fu bella 55 
di cavalieri e d’argomenti strani, 
quando fra noi ancor se ne novella. 
Segugi, gran mastini e fieri alani 
v’erano molti e tra quelli una schiatta 
che prendono i leon: ciò son gli albani. 60 
E tutti questi a quella gran baratta 
fuggian dinanzi al porco, come fosse 
ciascun coniglio stato, lievre o gatta. 
Echion fu quello che primo percosse 
l’alpestro porco e non passò la scorza, 65 
ch’era come corazza o scudo a l’osse. 
Ianson lanciò lo spiedo con tal forza, 
che fallí il colpo; e il porco ferio 
sí Palamon, che la sua vita ammorza. 
Similmente Pelagona partio 70 
con la gran sanna da la schiena al ventre, 
onde subito cadde e lí morio. 
E se Pilio non fosse stato in mentre 
accorto che ’l gran porco uccise i due, 
per un che li sgridò: – Guarda com’entre –, 75 
morto era lí; ma piú che simia fue 
presto a montare un albore: onde ’l porco 
dentro al pedal ficcò le sanne sue. 
Anceo, che era acerbo piú di un orco, 
alzò la scure; ma ’l colpo li manca 80 
e quel gittò lui morto in mezzo il sorco. 
Per mal li venne Enesim tra le branca; 
si fe’ d’Oritia, quando a lui s’arriccia: 
tutto l’aperse da la coscia a l’anca. 
Teseo, che ciò vede, a dietro spiccia; 85 
ma Ianson, che lo volse ancor ferire, 
cucí un cane in terra con la friccia. 
Ed allora Pelleo il fece uscire 
de la gran selva e Talamone il tenne 
da lato al fianco per farlo morire. 
Pollux e Castor, l’uno e l’altro venne 
su due corsieri bianchi come cigni; 
ma pur niuno a lui ferir s’avenne. 
Qui vo’, lettor, ch’Atalante dipigni 
sopra un corsier, con quel leggiadro aspetto 95 
che fai Diana, quando non t’infigni, 
con l’arco in mano e col vestire stretto 
e i biondi suoi capelli sparti al vento, 
sí che passi a veder ogni diletto: 
perché tal giunse, fuor d’ogni spavento, 100 
con l’arco aperto e die’ d’una saetta 
al porco, in mezzo tra l’orecchia e ’l mento. 
E tanto il colpo e ’l bel ferir diletta 
a Meleagro, che a’ compagni disse: 
– Morto è costui, se un’altra ne li getta –.105 
Il porco contro a’ cacciator s’affisse, 
credo per lo dolor, sí disperato, 
che folgor parve che dal ciel venisse. 
Qual li fuggia dinanzi e qual da lato, 
e qual morio in quella gran tempesta, 110 
e qual tra’ piè li cadde inaverato. 
Qui Meleagro, in mezzo a la foresta, 
uccise ’l porco e, per donar l’onore, 
ad Atalante sua diede la testa,
la qual fu fin del lor verace amore". 115
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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